Dina Guglielmi, Marco Depolo
2. La misura del mobbing
La misura del mobbing, come già anticipato, è molto complessa e ha portato e porta a stime molto differenti del fenomeno. Il processo sottostante al mobbing è determinato da com- portamenti a volte poco definiti e difficili da provare e da questo possono dipendere le diffi- coltà di misurazione. Come misurare il mobbing è quindi una problematica aperta sia nella ricerca empirica sia in ambito applicativo perché, se da un lato è importante identificarlo in modo oggettivo, dall’altro lato è il risultato di una costruzione sociale non sempre rilevabile. Si può dire che, poiché per sua natura il mobbing (come per altro lo stress lavoro-cor- relato) si definisce anche sulla base della percezione soggettiva della vittima, la sua misura comporta anche elementi intrinsecamente ambigui, fortemente influenzati appunto dalla percezione soggettiva dei lavoratori. Questa ambivalenza richiama il dibattito relativo a
mobbing oggettivo vs mobbing soggettivo. Sebbene molti studi considerino il mobbing un
fenomeno oggettivo e visibile, i dati empirici delle ricerche vengono, frequentemente, rac- colti attraverso l’uso di misure auto-riferite da parte delle vittime, collocandosi quindi tra le misure prevalentemente di percezione soggettiva. Analogamente è ancora in discussione se sia corretto basarsi solo su una serie di criteri oggettivi di mobbing (la presenza di determi-
nate azioni vessatorie) o se i criteri soggettivi debbano essere parte dell’operazionalizzazione stessa ed in quale misura.
In linea con questo dibattito, nella letteratura scientifica si trovano principalmente due modalità di rilevazione del mobbing, entrambe di tipo soggettivo: l’esposizione percepita ai comportamenti di mobbing e la percezione soggettiva di essere vittima di mobbing.
Gli studi che misurano l’esposizione ai comportamenti di mobbing seguono un approc- cio sviluppato da Leymann (1996), in cui ai rispondenti è presentata una lista dettagliata di comportamenti vessatori, rispetto ai quali devono rispondere se sono stati subiti, per quanto tempo e da parte di chi. Questo metodo è considerato più affidabile, in quanto non richiede di etichettare l’esperienza come mobbing (termine che può appunto avere un alone semantico molto ampio), ma semplicemente di riferire la presenza di precisi comportamen- ti aggressivi o vessatori. Sono diversi gli strumenti, validati o adattati anche in una versione italiana, che negli ultimi anni sono stati sviluppati per misurare il mobbing e che possono essere ricondotti a questo prima tipologia. Si possono citare:
– il Negative Acts Questionnaire (NAQ; Einarsen, Raknes 1997), di cui sono state valida- te numerose versioni anche in diverse lingue. La versione originaria è stata successivamente ridotta a 22 azioni negative (NAQ-R) per ognuna delle quali si chiede al lavoratore di ri- spondere quanto spesso negli ultimi sei mesi ritiene di averle subite. Lo strumento permette di classificare le azioni nelle due macrocategorie sopra citate, cioè attacchi alla sfera lavora- tiva e attacchi alla vita privata. In nessuno degli item che compongono il NAQ viene fatto riferimento al termine mobbing, violenza, vessazione al fine di lasciare l’intervistato libero di interpretarne il contenuto senza un’etichetta imposta e vincolante. È disponibile anche una validazione italiana del NAQ-R a 17 item (Giorgi 2008) e una validazione della versio- ne breve del NAQ Short Negative Act Questionnaire (S-NAQ) a cura di Balducci, Spagnoli, Alfano, Barattucci, Notelaers, Fraccaroli (2010).
– l’Inventario di Leymann (LIPT, Leymann Inventory of Psychological Terrorism; Leymann 1990) che consiste di 45 comportamenti mobbizzanti suddivisi in cinque categorie che clas- sificano gli attacchi: alla persona, alla salute, alle relazioni sociali, all’immagine sociale e alla qualità della situazione professionale. In Italia una traduzione adattata e ampliata (LIPT- EGE) è disponibile a cura di Ege (2002).
– il Work Harassment Scale (WHS; Björkqvist, Österman, Hjelt-Bäck, 1994) composto da 24 comportamenti vessatori rientranti in due macro-aree chiamate bullying razionale e manipolazione sociale. È disponibile anche una validazione italiana a cura di Di Fabio, Giannini, Bracali, Mugnani, Björkqvist (2004).
Nella seconda modalità, invece, la misura della percezione soggettiva di essere vittima di mobbing prevede la presentazione di una breve definizione di mobbing rispetto alla quale i rispondenti possono identificarsi e definire la loro esperienza come mobbing o no. In se- guito l’approfondimento prosegue con domande relative alla frequenza e alla durata dell’e- sposizione. Questa seconda modalità è un metodo soggettivo perché si basa sulla percezione soggettiva dei rispondenti di essere vittime di mobbing e probabilmente sconta problemi di affidabilità ancora maggiori. Infatti le indagini in cui le due modalità di misura sono state utilizzate simultaneamente hanno mostrato risultati differenti, registrando una presenza del fenomeno più elevata nel caso della seconda modalità sopra descritta, quella della percezio- ne soggettiva di essere vittima di mobbing. Questo dato, oltre a rimarcare le difficoltà insite
nella misura del mobbing, conferma la necessità di integrare informazioni provenienti da fonti diverse per potere definire una situazione di mobbing come tale.
Date queste problematiche è difficile fornire indicazioni certe sull’incidenza del mob-
bing. Eurofound (European Foundation for the Improvement of Living and Working Condi- tions 2010) presenta gli ultimi risultati disponibili dell’indagine periodica su un campione
rappresentativo di lavoratori UE: i dati mostrano che i lavoratori che hanno subito almeno un’aggressione (di ogni tipo, fisica, psicologica, verbale) nell’ultimo mese sono circa il 14% sull’insieme dei 28 paesi dell’area UE, circa l’8% in Italia, il 18% in Francia e il 22% in Finlandia. Appare evidente dalla lettura di questi dati che l’interpretazione del termine “ag- gressione” ha probabilmente un alone semantico piuttosto ampio, collegato verosimilmente alle aspettative di come dovrebbe essere un ambiente di lavoro relazionalmente di qualità.
A livello italiano è comunque interessante riportare alcuni dati dell’Indagine ISTAT sul- la Sicurezza dei Cittadini 2008-2009 dal titolo “Il disagio nelle relazioni lavorative” (ISTAT 2010), che ha interessato 40.629 persone di età tra i 15 e i 70 anni a cui sono state rivolte domande sul comportamento vessatorio.
Soffermandosi sui dati relativi agli ultimi 3 anni, i risultati dell’indagine riportano che “l’ultima situazione di disagio nelle relazioni lavorative subita dai lavoratori ha riguardato nel 68,1% dei casi le vessazioni, nel 26,1% il demansionamento o la privazione dei com- piti, mentre nel restante 5,8% i lavoratori hanno subito al contempo sia vessazioni che de- mansionamento o privazione dei compiti”. Negli episodi di demansionamento o privazioni dei compiti sono presi di mira di più gli impiegati (52,8%), i quadri (8,1%) e i coadiuvanti (10,3%). Gli operai, invece, si collocano in misura maggiore tra le vittime delle vessazioni (39,6%). In particolare, data anche la diversa struttura dell’occupazione maschile e femmi- nile, tra gli impiegati la quota di donne vittime di vessazioni è maggiore rispetto a quella degli uomini (50,2% contro il 39,1%), mentre tra gli operai è maggiore il numero di vitti- me maschili (44,6% contro il 34,1%)” (ISTAT 2010, 11).
I risultati riportano anche che a creare situazioni di disagio sono nell’80% dei casi i su- periori, seguiti dai colleghi (29,7%) e dai sottoposti (7,5%). Sono prevalentemente maschi, soprattutto nel caso dei superiori (73%) e dei sottoposti (65,1%). Diversa è invece la situa- zione tra colleghi dove le discrepanze sono minori. Nel 52,6% dei casi, infatti, la vittima è perseguitata solamente da maschi, nel 37,7% solamente da donne, mentre nel 9,7% la vittima subisce vessazioni sia da uomini che da donne. Per quanto riguarda le cause la più indicata risulta il rinnovo aziendale e l’avvento di una nuova dirigenza (22,3%), segue lo stile autoritario del capo (19,3%) e la gelosia per il lavoro da parte dei colleghi (15,3%). L’indagine riporta anche altri fattori identificati come elementi che causano disagio nelle situazioni lavorative, come la riduzione del personale (10,7%), l’alta competitività (9,2%), la diversità nel modo di intendere il lavoro (7,6%), la precarietà della situazione lavorativa (7,3%) e il fatto di non essere allineati con la politica aziendale (7,1%).
Le cause di natura personale, invece, vengono segnalate con minore frequenza, ma tra queste si possono citare come più rilevanti l’invidia e l’antipatia (16%) e la diversità di ca- rattere e la cattiveria per divertimento (28,9%).
Al di là dei problemi di misura e di quali condizioni possano essere classificate come
mobbing o meno, i numeri dell’indagine ISTAT segnalano senza dubbio che il disagio lavo-