La Fabula Di Aretusa Ed Alfeo
DAL MONDO EVADO
Racconto Di Scrittura Creativa
Dal mondo evado , lontano dal quotidiano vivere , vado , verso il breve sogno di un amore assaporato ai margini di una strada in un casto tramonto. Nell’immoto dei sensi, ogni cosa si consuma , come fosse una candela che arde davanti un immagine sacra. Nel vento corro, libero di vivere lontano dall’invidia, nell’amore rinnegato che si affatica come un vecchio signore curvo sul corso delle sue cose. Vestito nel suo destino uccide la luce poi rimane come fosse un barlume di un idea , dentro le mani di un Dio vecchio e curvo . Quel signore sono io .
Sono rimasto dentro l’ossesso, dentro il vento, nell’arancio tramonto mi trasporta oltre ciò che credo e viaggio, corro , come un matto con tre teste, con tre occhi , con la marcia zoppicante nell’ingranaggio in un tempo diviso in due . Solo come un fico , come quella notte sotto le stelle.
Mi hai portato qui a guardare le stelle Non ero preparato a tanto
Accendi una sigaretta
Faccio prima ad andare a prendere una birra
Prego dimmi quello che mi devi dire prima ad andare a casa della mia bella
Ti avevo avvertito di stare attento Ero imbarazzato
Ti calavano i calzoni da dosso Non dirlo in giro
Che faccia avevi , sembravi una mummia Ero impressionato
Eri cosi piccolo, ti nascondevi tra le pieghe del tempo
Ero imbarazzato un po’ turbato non volevo farmi riconoscere Perché sei un poeta
No, perché sono un signore di cinquant’anni suonati Suoni qualche strumento
Bello vorrei venire ad ascoltare le tue liriche Vieni a teatro , gioco con me stesso
Con la tua maschera
Con la mia vita con ciò che sono e credo di rappresentare Sei uno zotico
Ho una faccia terribile, me lo dicono tutti , pelosa che raffigura la sciagura con occhi gonfi come un gufo su un ramo che canticchia la sua monotona litania. Tutto va nella sera, il male mi ha preso per la gola , mi ha portato dentro un bagno , mi ha tagliato la gola . Sanguinavo il sangue scorreva a fiumi . Invadeva le stanze , le case , le alcove . il mio sangue zampillava strada facendo . ripuliva la citta dal male e fioriva in dolci maturi ritornelli , dondolavano ai lati dei marciapiedi le donne , dondolavano nel vuoto della storia che c’insegna ad essere noi stessi. Ed il professore era un anarchico e voleva sovvertire ad ogni costo le leggi dello stato. Dai scanni del parlamento dalle aule dei tribunali , dai consigli comunali, dalle aule universitarie, dai vasci , dai tuguri dove vivono i topi, dove le comare s’incontrano facendo panza e panza , imitando la danza del cavallo. Incinte con i baffi , sotto gli alberi della cuccagna. Dove venne impiccato il perfidio nemico, il povero pizzicagnolo che non voleva diventare un topo di fogna. Erano giorni belli e terribili la guerra infuriava il mare era agitato e fuori i bar della riviera la vendevano per poche lire. Ed era uno sballo, remare contro corrente con il conte che raccontava tutti quei aneddoti sulla vita e le varie vicende della Napoli bene. Gli Aristo gatti impellicciati con le mutande di pizzo colorate, camminavano a coppie , passeggiavano tre metri sopra la terra , con quell’aria saputa che fa schifo al solo guardarla. Ed io da che parte stavo ? dentro le mie scarpe li seguivo con la mia faccia da schiaffi, fino in fondo ad un racconto, fino in fondo ad un sogno . E la chiesa era grande più grande della citta stessa , era un solo corpo un solo spirito , era l’anima di questa vita che si spegne s’accende, regala momenti d’amori . Specie a più piccoli a quelli che non hanno niente, gli da un calcio in culo. Saltavano dai motorini, saltavano dalle selle , centauri, figli delle zoccole di quartiere , di guappi incalliti, figli di camorristi , di camionisti , figli di questa citta che parla con la brioscia stretta in mezzo ai denti macchiati di nicotina. Ed ella
rideva di tutti, rideva della morte, della sua stessa bellezza in quell’ebrezza che brucia sotto la pelle ed evapora nell’aria . Dolce ,delicata come la morte sua stessa immagine che trapassa per valli ed infiniti passi la tra le nevi della sua terra là tra i monti isolati, laggiù fin dentro casa sua ,oltre ogni desiderio, donna cubica , astratta immagine che si raccoglie nel suo pensiero. Un mistero scivolante nell’ardire di frasi scurrili , di mondi sovraumani , di belle sere al fresco, sotto l’albero della libertà.
Tutto passa cosa sarà , non so dirti
Sara che sé rivengo di nuovo ti rovino la maglia
Ride poi si cala la sottana e fa finta che tutto va bene. E stato non è stato.
Tutto passa come lo scoppio di una mina, come un fiore che sboccia,
Come questa canzone che ascolto dentro la mia stanza. Facciamo finta di volerci bene gli ho detto di botto
Non dirlo mi metti in imbarazzo In questa baracca
Si, tutto ciò che ho fatto e non fatto è qui Lurida topaia
Metti un gruzzolo da parte portatami al mare in albergo di lusso Va bene
Facciamo finta di volerci bene mi ripeto . Mi lecco la ferite ,sono un gatto randagio , un cane bastardo , osservo ogni cosa poi scappo, libero tra i cumuli di immondizia . Salgo sulle dune del peccato, urlo tra la notte ed il mattino ho perduto la mia anima, ho perduto il bene del mio intelletto. Ed ogni cosa rincorro , ho voglia di vivere , di bere camomilla, sono ad un passo dall’essere me stesso, forse un superuomo o un gran peccatore , un magistrato con sottana che declama le leggi con giustizia . Ed è tutto scialbo, sbilenco, lungo ,corto come l’asta del peccato , come il martello che dichiara finita la seduta. Domani il sole sorgerà di nuovo , risorgerà dal mio peccato, dal mio morire , dalle mie rime elettriche che sono assai cretine , quasi imbecille e fanno quelle che gli pare, tanto l’estate sta per finire.
IL GRANDE MAGO DEL GOLFO