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Un mosaico di oggett

Nel documento Gli oggetti nell'"Orlando Furioso" (pagine 32-36)

Se gli oggetti hanno un determinato valore solo in quanto appartengono ai cavalieri, di contro, l’identità stessa dei cavalieri appare costituita dagli oggetti che questi possiedono. Non solo infatti i cavalieri tengono a procurarsi determinati oggetti al punto da rischiare per essi la vita, e ritengono un fattore fondamentale, per l’affermazione di se stessi, l’essersi procurato questo o quello oggetto (come nel caso di Mandricardo, di Gradasso e di tutti i cavalieri che partecipano alla guerra per una spada o per un cavallo); e non solo diventano molto spesso quello che sono solo grazie agli oggetti e alle facoltà che questi conferiscono loro (come nel caso di Astolfo).

Nel medioevo, dove non esistono certo fotografie, il cavaliere viene definito, nei racconti che di lui vengono fatti (come lo stesso Furioso, che, del resto manca di descrizioni fisiche che non siano stereotipate), in senso diacronico, dalle imprese compiute, e, in senso sincronico, dagli oggetti che possiede.

Prime fra tutti, ovviamente, vengono le insegne, che hanno specifica funzione di identificazione: infatti Orlando indossa armi nere per non essere riconosciuto quando si aggira per le terre dei pagani, e questo basta a renderlo apparentemente identico a uno di loro, dal momento che ne padroneggia perfettamente la lingua. Ruggiero e Mandricardo discutono su chi abbia il diritto di portare le insegne di Ettore perché le insegne, come un oggetto, sono qualificanti; Ruggiero le ha ricevute perché discendente di Ettore, Mandricardo perché ne porta, direttamente, le armi. Nel loro scontro il diritto di sangue affronta il diritto di acquisto, e il duello si risolve con Ruggiero che, grazie al proprio sangue, ha maggior valore e lo dimostra riuscendo anche ad acquistare le armi: in tal modo, si arguisce, anche la discendenza di Ruggiero, così come lui l’ha ereditato da Ettore, ne erediterà la possanza, e in tal modo il diritto di portarne le insegne. Ma ciò che conta, dello scontro tra Mandricardo e Ruggiero, è che entrambi si riconoscono in un’insegna da indossare e che non possono ammettere che altri la indossino oltre a loro: in questo caso, non si tratta di combattere per un oggetto che esiste in copia unica e che in due si vuole possedere, ma per un oggetto di cui esiste duplice copia e del quale si pretende invece che ce ne sia copia unica. Per entrambi i cavalieri, l’insegna con l’aquila di Ettore li definisce, e non è ammissibile che altri la usino.

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Accade anche che i cavalieri vengano riconosciuti grazie al possesso o alla mancanza di un determinato oggetto, che non sia un’insegna ma che sia altrettanto unico, come avviene a Rinaldo riconosciuto da Gradasso per Baiardo.

Un oggetto può testimoniare il passaggio di una persona da un determinato punto, o l’avvenuto incontro tra due persone: sarà, ad esempio, il cerchio d’oro che Angelica ha donato al pastore nel canto XIX, e che questi mostra ad Orlando nel XXIII, a testimoniare, con la sua innegabile materialità, che Angelica è realmente perduta, e a costringere il cavaliere a smettere di illudersi, come aveva continuato a fare fino all’ultimo, dinanzi a tutte le altre evidenze. Nel suo saggio La letteratura fantastica, Tzvetan Todorov circoscrive questa categoria come definita dall’incertezza del personaggio (e con essa, del lettore) dinanzi a un fenomeno apparentemente inspiegabile, tra la tendenza ad accettare di lasciarlo inspiegato, e la tentazione di motivarlo nell’unico modo possibile, attribuendolo cioè a un intervento soprannaturale. Molto spesso, scrive Todorov, l’effettivo accadimento di qualcosa di soprannaturale è testimoniato inconfutabilmente dalla permanenza di un oggetto materiale, che ha a che fare in maniera inscindibile con l’avvenimento inspiegato, e il cui possesso, da parte del personaggio, diventa così prova evidente che il qualcosa è realmente avvenuto, e non è stato solo sogno o allucinazione, come suggerirebbero le spiegazioni razionali che, per quanto improbabili, finirebbero per essere preferite, non fosse per l’oggetto24

. Se, come abbiamo detto altrove, in Ariosto come nei romanzi medievali non esiste, in presenza del meraviglioso, l’esitazione teorizzata da Todorov, ma solo una pacifica e univoca accettazione, è pur vero che qui Orlando, dinanzi a un evento per lui orrorifico e inspiegabile, cerca dapprima una serie di spiegazioni razionali, sempre più implausibili, ma per lui ugualmente più accettabili, di quanto realmente avvenuto, ai suoi occhi così assurdo e irrealistico che si risolve ad accettarlo solo quando non ha altra scelta, quando cioè si trova di fronte all’oggetto. In quanto unico e insostituibile, e proprietà prima di Orlando e poi della stessa Angelica, l’oggetto è un dato dal quale non si può fuggire, se non con la follia; testimonia in maniera incontrovertibile l’avvenuto passaggio, e l’avvenuta perdita, della donna, come un’estensione del suo io, come farebbero oggi delle fotografie compromettenti.

A differenza delle fotografie, però, l’oggetto però può anche dare origine a un misconoscimento; come avviene ad Ariodante, che crede che Ginevra lo tradisca a causa dell’inganno di Polinesso, che ha fatto indossare i suoi abiti a Dalinda (V); come avviene a Zerbino, scambiato per l’assassino di Pinabello perché Gabrina gli ha nascosto addosso il suo cinto (XXIII); o per Grifone, scambiato per il cavaliere fellone dopo che è costretto a indossarne le armi, mentre questi, che ne ha portato le sue, viene lodato e onorato (XVII). Il fatto che gli oggetti siano pura

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materialità, e pura esteriorità, è ciò che li rende a un tempo incapaci di mentire e perfetta copertura per una menzogna. In questo senso, la funzione degli oggetti è, non di rado, quella di rendere manifesto al lettore come, molto spesso, l’apparenza inganni: gli oggetti dovrebbero identificare in maniera inequivocabile, ma, essendo, come tutto il Furioso dimostra, sottraibili, anche in maniera tutt’altro che eroica, possono ingannare e mentire, esattamente come mentono e ingannano le persone. Anzi, più una persona è infida è ingannevole, più sarà disposta a rubare, e quindi a possedere oggetti che non le competono. Orlando, impazzito, si libera di tutti gli oggetti che fanno di lui un cavaliere (il cavallo, le armi e l’armatura), a definire simbolicamente lo smarrimento della sua identità: e tutti questi oggetti finiranno, uno dopo l’altro, nelle mani di pagani assai meno degni di lui di sfoggiarli, ma indosso ai quali faranno la stessa figura e svolgeranno, egregiamente, la stessa funzione.

In maniera speculare a quanto avviene a Orlando nella capanna dei pastori, ma questa volta solo per intervento indiretto dell’oggetto, Iocondo, tornato indietro a prendere il monile che l’amata moglie gli aveva dato per fargli capire quanto gli costasse separarsi da lui, la trova nel letto con un garzone. A seguito di questa sua brevissima inchiesta dell’oggetto perduto, Iocondo così trova (e perde) ben altro: riottiene infatti l’oggetto, ma scopre che questo ha un significato completamente diverso da quello che voleva apparentemente trasmettere; che è ingannevole e mentitore.

Inganno assai più giocoso e innocente, anzi, quasi benefico per una parte quanto per l’altra, sarà quello che, sempre grazie agli oggetti, Ricciardetto giocherà a Fiordispina (XXV). La fanciulla infatti si è innamorata di Bradamante quando, vedendola rivestita di tutte le sue armi (e dunque a causa della presenza di un oggetto qualificante l’identità maschile) e con i capelli tagliati (dunque a causa dell’assenza di un oggetto qualificante l’identità femminile), la ha creduta un uomo e se ne è innamorata; solo per scoprire, a proprie spese e troppo tardi, che dell’uomo le mancava l’oggetto più qualificante, e che quindi la sua passione era priva di sbocco. Disperata, alla partenza di Bradamante Fiordispina le dona un ginetto e una sopravesta d’oro che ha cucito con le sue mani e che sono, dunque, unici e perfettamente riconoscibili; ancora una volta, un pegno simbolico di cui la dama omaggia il cavaliere (che però, in questo caso, non è un cavaliere). Fin qui la storia, che viene mirabilmente riassunta da Ariosto, era però già stata raccontata da Boiardo. Originale di Ariosto è la sua soluzione, che comporta l’introduzione nella rosa dei personaggi di Ricciardetto, gemello identico di Bradamante, ad eccezione che per il sesso: questa perfetta somiglianza tra due fratelli di sessi diversi, che è ripresa dalla commedia latina, qui però acquista un significato particolare; Bradamante e Ricciardetto sono identici ad eccezione di un unico segno, l’oggetto perduto e ritrovato che si rivela determinante per l’identità dell’uno e dell’altra. Ricciardetto si presenta allora a Fiordispina con indosso gli abiti che essa ha donato a Bradamante, e che quindi lo qualificano

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come lei; e le presenta poi l’oggetto che da lei lo distingue come un dono che gli sarebbe stato offerta da una fantomatica ninfa, un “oggetto magico”, un meraviglioso acquisto. Come poche altre questa scena riflette quanto l’identità dei cavalieri nel Furioso sia paragonabile ad un assommarsi di fattori materiali: lungi dal riconoscere che Ricciardetto non è Bradamante (sono due persone diverse), Fiordispina riconosce che Ricciardetto è Bradamante grazie al ginetto e alla sopravesta e alle loro identiche sembianze; e contemporaneamente riconosce che ha qualcosa di più della Bradamante che conosceva, un oggetto necessario a risolvere e portare a compimento la propria fiaba.

Se quindi da un lato i personaggi sono equiparabili a collezione di oggetti (fisicamente parte di loro o no), gli oggetti di natura sessuale (gli organi riproduttivi) rivestono anch’essi una funzione particolare all’interno del Furioso, in quanto non sono propriamente cedibili: o meglio, lo sono, nel senso che se ne può far dono per libera volontà, si possono usare come oggetti di scambio e possono essere sottratti con la forza, ma tutto questo senza che il loro reale possessore ne perda, materialmente, il possesso.

Proprio questo è ciò che sottolinea la pragmatica balia nella novella del giudice Anselmo, cercando di convincere Argia a far dono di se stessa in cambio del possesso del cane fatato:

Torna alla donna, e le fa l’imbasciata; e la conforta, poi, che si contenti, d’acquistare il bel cane; ch’acquistarlo

per prezzo può, che non si perde a darlo. (XLIII, 112)

Questo, d’altro canto, è ciò che fa sì che chi possiede (in senso figurato, cioè l’innamorato, la moglie o, come avviene più di frequente, dato che l’oggetto per eccellenza è la donna, il marito) determinate “ricchezze”, non ne abbia il controllo materiale, ma debba delegarlo a chi le detiene materialmente (il consorte); e questi d’altro canto possa farne dono ad altri senza che il reale possessore ne venga mai a conoscenza. E, dal momento che il “bene” è infinito, in questo campo, chi non viene a conoscenza di averlo, seppure occasionalmente, perduto a beneficio di terzi, rimane un felice possessore al pari di chi ne è effettivamente rimasto sempre in possesso (ammesso che esistano fortunati di questa sorta, cosa di cui Ariosto sembra dubitare); e, viceversa, solo chi scopre di averlo perduto lo perde e ne soffre, come avviene al giudice, ma come avviene anche a Orlando; laddove chi teme di averlo perduto, e scopre che non è così, è felice nuovamente, come avviene a Sacripante nel I canto.

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Nel documento Gli oggetti nell'"Orlando Furioso" (pagine 32-36)