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motivazione dell’avviso di accertamento era veramente poca cosa 127 Ciò aveva come principale conseguenza pratica quella per cui la

motivazione stessa poteva essere benissimo integrata in sede

processuale

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. Stando così le cose, infatti, nulla ostava a che

l’amministrazione finanziaria potesse attestare la fondatezza dell’atto

impositivo anche in giudizio

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.

instaurazione del giudizio tributario (di fronte ad un’esauriente motivazione il contribuente potrebbe anche acquietarsi) », ma poi si ritiene che tutto ciò sia compensato dal fatto che il processo tributario è gratuito.

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Convergevano sul punto, ovviamente con toni ben diversi (critico il primo, di approvazione il secondo), R.LUPI, Motivazione e dimostrazione dell’accertamento di valore ai fini delle imposte sui trasferimenti, cit., 431 e C.BAFILE, Motivazione dell’accertamento come atto processuale, cit., 84.

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Di ciò danno chiara testimonianza le parole di una decisione della Suprema Corte (la n. 506 del 19.01.1991), nella quale si riconosce che all’amministrazione era consentito di « dedurre tutte le ragioni giustificative della pretesa tributaria ed anche motivi diversi da quelli indicati nell’atto di accertamento » Ancora, C., S.U., 03.03.1986, n. 1322, cit., afferma che si rendeva « irrilevante, in sede giudiziale, il vizio di motivazione dell’atto impositivo, posto che l’omissione o l’illogicità della stessa non p[oteva] mai condurre al rigetto di una pretesa dell’amministrazione che [era] sostanzialmente fondata ». Quanto in parola era come dire che un avviso di accertamento doveva essere annullato solo se non poteva essere retto, in assoluto, da alcun motivo (mai, cioè, per motivi di forma, ma solo per ragioni di merito). Cfr., pur se un po’ anodina, anche C., 12.02.1987, n. 1531.

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In passato, la facoltà di integrare in giudizio la motivazione dell’atto di accertamento non era una prerogativa esclusiva degli uffici finanziari. Per diverso tempo, infatti, nel processo tributario si è applicato l’art. 25 del r.d. 08.07.1937, n. 1516, la cui formulazione permetteva alle commissioni tributarie di avvalersi, senza limite alcuno, degli stessi poteri che le leggi d’imposta assegnavano all’amministrazione finanziaria. In altre parole, ai giudici era consentito di sostituirsi al fisco attraverso l’esercizio di funzioni di amministrazione attiva: ciò, nondimeno, conferiva al processo tributario un carattere decisamente inquisitorio, tanto che, anziché processo, si preferiva definirlo « procedimento amministrativo giustiziale » (F.BATISTONI FERRARA, Il regime probatorio nel processo tributario, in Rassegna Tributaria, 2008, 1268). A partire dalla prima metà degli anni Settanta, tuttavia, tale situazione ha cominciato a mutare. È di quel periodo, infatti, la prima di una serie di disposizioni volte ad improntare il processo tributario al principio dispositivo: l’art. 35 del d.p.r. 26.10.1972, n. 636. In seguito, questa norma, inizialmente modificata dal d.p.r. 03.11.1981, n. 739, è stata abrogata dall’art. 71 del d.lgs. 31.12.1992, n. 546 e sostituita (rectius: sostanzialmente riprodotta) dall’art. 7 dello stesso decreto legislativo. Da ultimo, la nuova norma è stata recentemente emendata dal d.l. 30.09.2005, n. 203 (convertito dalla l. 03.12.2005, n. 248). In generale, occorre sottolineare che il fine di tutti questi interventi legislativi, e cioè far venir meno il carattere inquisitorio del processo tributario, non sempre è stato perseguito con una normativa perspicua. Ciò, com’è prevedibile, ha generato alcune incertezze, che hanno reso spesso necessario l’intervento della Suprema Corte. Per ciò che concerne

il diritto vigente, molti dubbi sono stati alimentati dalla formulazione dell’art. 7 d.lgs. del 546/92, in base alla quale ai giudici tributari è consentito esercitare i poteri istruttori « conferiti agli uffici tributari e agli enti locali da ciascuna legge d’imposta », alla sola condizione che ciò avvenga entro « i limiti dei fatti dedotti dalle parti ». Se era indiscutibile che questa norma (allo stesso modo dell’art. 35 del d.p.r. 636/72), impediva ai giudici di cercare la verità (giudiziaria) al di là dei fatti dedotti dalle parti (in ciò essendo in linea con il principio dispositivo), era pur vero che, nel momento in cui non fissava i confini entro i quali il giudice poteva avvalersi dei suoi poteri istruttori, rischiava di riproporre le stesse problematiche ante d.p.r. 636/72, sia pure in misura minore. Stando alla lettera, infatti, si poteva ritenere che, rispettato tale limite, le commissioni tributarie potessero esercitare i loro poteri istruttori prescindendo (indipendentemente, cioè) dall’iniziativa delle parti, operando, in tal modo, un continuum della fase istruttoria amministrativa in quella processuale. Tuttavia, un simile scenario è stato sostanzialmente respinto sia dalla prassi processuale, sia dalla giurisprudenza e sia anche dal legislatore. La prima ha, di fatto, marginalizzato il problema, dal momento che, di norma, i giudici tributari sono piuttosto restii ad utilizzare i poteri istruttori loro conferiti (G.M.CIPOLLA, Sulla ripartizione degli oneri probatori nel processo tributario tra nuovi (quanto, forse, ormai tardivi) sviluppi giurisprudenziali e recenti modifiche normative, in Rassegna Tributaria, 2006, 609; C.CALIFANO, Motivazione dell’atto di accertamento, rilievi del PVC e delimitazione dell’oggetto del giudizio, in GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2004, 665). La seconda ha comunque stabilito che tali poteri hanno soltanto la « funzione di garantire la parte che si trova nell’impossibilità di esibire documenti risolutivi in possesso dell’altra parte » e non, invece, quella « di sopperire al mancato assolvimento dell’onere probatorio delle parti » (assecondando, così, le tesi della dottrina, secondo cui tali poteri devono essere posti essenzialmente a vantaggio del contribuente; F.BATISTONI FERRARA, op. cit., 1272, ma v. ancheV. FICARI, Poteri del giudice ed oggetto del processo: autonomia versus regolamentazione?, in Rassegna Tributaria, 2007, 358; L.P.COMOGLIO, I poteri istruttori delle Commissioni Tributarie, in Rivista del notariato, 2001, 1279; C., 13.09.2006, n. 19593; C., 17.11.2006, n. 24464; C., 16.05.2005, n. 10267; C., 27.02.2004, n. 4040; C., 09.05.2003, 7129; C., 25.05.2002, n. 7678; contra C., 23.12.2000, n. 16171). Quanto poi all’operato del legislatore, sembra proprio che anche esso abbia accolto l’interpretazione offerta dalla citata giurisprudenza nel momento in cui ha abrogato il co. 3 dell’art. 7 d.lgs. 546/92 (per il tramite del citato d.l. 203/05), il quale conferiva alle commissioni tributarie la « facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia » (ipotesi corroborata dalla C. Cost., che, nella sentenza 29.10.2007, n. 109, afferma di leggere in tale abrogazione la conferma del carattere essenzialmente ed interamente dispositivo del processo tributario). In generale, sull’argomento (oltre, naturalmente, agli scritti già citati in nota), cfr E. MANZON, A. MODOLO, Manuale breve di diritto tributario, cit., 148; R.LUPI, L’onere della prova nella dialettica del giudizio di fatto, in Il procedimento di attuazione della norma tributaria, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, Cedam, 1994, 296 (spec. nt. 5); S.SICCARDI, La motivazione dell’accertamento tributario tra illustrazione della pretesa fiscale e prova della sua fondatezza, in Rassegna Tributaria, 1999, 899 (spec. nt. 29).

Come detto in precedenza, sino alla metà degli anni Settanta si è