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Il motivo del culto cibelico negli altri frammenti menippe

Solo in altre quattro satire varroniane (Cycnus fr. 79 B.; Marcipor fr. 275 B.;

“Ono" Luvra" fr. 364 B. e Testamentum fr. 540 B.) sono reperibili riferimenti alla

figura di Cibele, al suo “osceno” seguito di sacerdoti eunuchi o al suo giovane paredro Attis, e si tratta sempre di frammenti singoli. In uno di questi (fr. 364 B.) si ha un riferimento palese al culto cibelico, anche se manifestamente occasionale e circostanziato, mentre per quanto riguarda gli altri tre frammenti il legame con questo tema si ricava solo dal metro in cui sono composti, il galliambo, usato tra- dizionalmente dai galli nei loro inni.

* Fr. 364 B.176, ONOS LURAS, in prosa177

non vidisti simulacrum leonis ad Idam eo loco, ubi quondam subito eum cum vidissent quadrupedem, galli tympanis adeo fecerunt mansuem, ut tractarent manibus?178

Un ignoto parlante domanda in questo passo ad un interlocutore se non abbia visto l’immagine di un leone sull’Ida, laddove un giorno dei galli all’improvviso, avendone visto uno reale, col suono dei loro timpani lo avevano reso tanto mansueto da poterlo toccare.

176

Non. p. 483: ‘Mansuetem’ et ‘mansuem’ pro mansuetum, ut sit nominativus ‘mansues’. (…)

Varro “Ono" Luvra".

177 Così interpretano la maggior parte degli studiosi, ad eccezione di Vahlen 25-26, che ricostruisce

tre settenari trocaici, e Ribbeck 1859, 118, che, seguito da Roeper 1854, 263 (e idem 2, 94), ricostruisce dei senari giambici. L’interpretazione del frammento come brano poetico comporta però delle modifiche all’ordine delle parole tradito.

178

Accolgo, come tutti gli studiosi, due interventi sulla lectio tradita: le correzioni eo loco di Popma al posto del tradito e loco e fecerunt di Gulielmius al posto del tradito ferunt.

Nel contesto della menippea “Ono" Luvra", che tratta il tema della musica179, il frammento è verisimilmente da interpretare come dimostrazione della potenza e dell’utilitas di quest’arte, capace di ammansire anche le fiere180; per questo mo- tivo è stato usualmente considerato come uno degli argomenti addotti da un cultore delle Muse contro lo scetticismo dell’imperito musicale cui fa riferimento il titolo della satira e che secondo alcuni sarebbe da identificare con Varrone stesso181.

Proprio in virtù di tale identificazione Cichorius182 ha ritenuto che questo frammento potesse offrire un terminus post quem per la datazione della satira. Secondo lo studioso infatti, poiché da Solino apprendiamo che Varrone nel De

litoralibus183 aveva parlato della tomba di Zeus a Creta (Solin. 11. 6 Varro in

opere, quod de litoralibus est, etiam suis temporibus adfirmat sepulcrum Iovis ibi

[i. e. apud Idam] visitatum), è possibile far risalire la visita dello scrittore a questo monumento, e quindi la sua presenza sull’isola, al 67 a. C., quando in veste di legato di Pompeo aveva avuto il comando della flotta greca nella guerra contro i pirati. Nella stessa occasione egli avrebbe potuto vedere sull’Ida cretese anche il

simulacrum leonis di questo frammento184. Ma se è vero che l’uso del verbo video

179 Il titolo stesso, come notano tutti i commentatori, allude in forma abbreviata ad un’espressione

proverbiale greca: o[no" luvra" ajkouvwn kinei' ta; w/|ta (Paroem. 2. 563), usata per designare l’imperito musicale (cfr. anche il fr. 543 B.); questo nella satira era forse impegnato in un agone verbale con un cultore della musica (cfr. Vahlen 3; Ribbeck 1859, 117-118; Riese 178; Cèbe 9, 1479-1480 e Krenkel 2, 629).

180

Questa è infatti l’interpretazione più diffusa del passo; meno convincente mi sembra invece la proposta avanzata da Bolisani 195, secondo il quale questo frammento dimostrerebbe piuttosto come non occorra un’educazione specifica per apprezzare la musica.

181 Come avveniva di regola nelle Menippee, Varrone avrebbe qui provocatoriamente vestito i

panni del cinico, figura tipicamente contraria alle diverse forme di paideiva, e quindi anche all’educazione musicale (per il rifiuto della musica da parte dei filosofi cinici vedi Oltramare 1926, 45 tema 8), in realtà per far emergere dal dibattito con un cultore della musica un giudizio più articolato e complesso in materia: così interpretano Bolisani 195; Della Corte 217 e Cèbe 9, 1485.

Contra Oehler 177 e Krenkel 2, 659, che ritengono che Varrone sia da identificare qui piuttosto

col parlante, e quindi con l’esperto di musica.

182 Cichorius 1922, 212-213.

183 Opera forse da identificare con il De ora maritima (vedi Serv. auct. Aen. 1. 112 e 5. 19). 184

La proposta di Cichorius è stata per lo più accolta dagli studiosi successivi: così interpretano Bolisani 195; Della Corte 217 (che però nella n. 10 a p. 219 sembra ritenere più probabile

nel fr. 364 B. fa riferimento ad una conoscenza, ad una presa di visione diretta da parte dell’interlocutore, il più serio ostacolo all’ipotesi avanzata da Cichorius è a mio avviso che i galli e Cibele sono solitamente associati al monte Ida frigio185, non a quello cretese. Non solo: questa ricostruzione di Cichorius presuppone che l’identità del satirico corrisponda a quella biografica dell’autore e oggi questo non si crede più. Ma ritornerò successivamente su questo punto.

Un racconto simile a quello presente in questo passo, anche se ogni volta caratterizzato da particolari diversi, ricorre in cinque epigrammi del VI libro dell’Anthologia Palatina: 6. 217 di Simonide; 6. 218 di Alceo; 6. 219 di Antipatro di Sidone; 6. 220 di Dioscoride e 6. 237 di Antistio. In essi gli elementi che re- stano costanti (e che sono comuni anche al frammento varroniano) sono la presenza di un sacerdote di Cibele (anche se Varrone parla in realtà di una pluralità di galli) e di un leone quali protagonisti dell’episodio, e poi il fatto che la salvezza derivi al gallo dal suono del timpano, uno degli strumenti musicali tradi- zionalmente connessi al culto della Mater Magna.

Tra questi epigrammi dell’Anthologia Palatina ritengo particolarmente inte- ressante il 6. 218 di Alceo di Messene: è infatti l’unico in cui si parli esplicitamente del monte Ida186 quale teatro dell’azione, e nel commento di Gow e Page viene sottolineata l’opportunità di supporre un’ambientazione frigia della vicenda in mancanza di prove sicure del contrario187. L’epigramma 6. 218 è anche

un’identificazione col monte Ida di Frigia); Cèbe 9, 1487 e Krenkel 2, 657.

185

Da questo deriva a Cibele l’appellativo di Idaea con cui è designata anche nell’oracolo che aveva portato all’introduzione del suo culto a Roma, cfr. Liv. 26. 37.

186 In realtà la lezione “Idh" è frutto di una congettura di Schneider, forse coincidente con la

lezione originaria del codex Palatinus, mutata in u{lh" dal correttore, cfr. Gow–Page 1965, 2, 25. Negli altri epigrammi si fa invece solo genericamente riferimento ad una selva, senza indicazioni geografiche precise, ad eccezione dell’epigramma 6. 220 dove si dice che il gallo cui occorre questa singolare vicenda si stava dirigendo dalla frigia Pessinunte verso Sardi: anche in questo caso l’ambientazione dell’episodio è comunque in Asia Minore, non nel contesto cretese spesso ipotizzato in relazione al frammento varroniano.

187 A proposito di questo epigramma non era stata proposta un’identificazione alternativa con l’Ida

cretese, ma con Sardi, evidentemente per influsso dell’epigramma 6. 220, vedi Gow–Page 1965, 2, 25.

l’unico in cui l’effetto prodotto sul leone dal suono del timpano non è la fuga, ma piuttosto una sorta di invasamento divino della fiera che si abbandona ad una vera e propria iactatio comae (vv. 7-8 ejk de; tenovntwn / e[nqou" rJombhth;n

ejstrofavlixe fovbhn) e poiché questa era una delle pratiche cui tradizionalmente si

dedicavano i galli per procurarsi una sensazione di vertigine, e raggiungere quindi una condizione di delirio (cfr. fr. 132 B.188), ironicamente alla fine dell’epigramma il leone è designato come to;n ojrchsmw'n aujtomaqh' Kubevlh". In particolare, solamente in questo epigramma sembrerebbe esservi un riferimento, nei due versi finali, ad una dedica a Cibele, da parte del gallo scampato al peri- colo, di un’immagine (se scolpita o dipinta è impossibile dirlo) della fiera rivelatasi sensibile ai ritmi sacri: vv. 9-10 ei{sato ÔRei;h/ / qh'ra.

Gow e Page189, proprio in base al confronto con questo frammento varroniano, prospettano la possibilità che i cinque epigrammi dell’Anthologia

Palatina fossero destinati ad essere didascalie di uno o più dipinti raffiguranti

probabilmente un particolare dell’episodio narrato (come sembrerebbe suggerire la chiusa dell’epigramma 6. 218 ) e che avessero tutti una fonte comune a noi sconosciuta190. Se quindi anche in relazione al testo varroniano dobbiamo

188 Vedi sopra p. 26. 189

Vedi Gow–Page 1965, 2, 25 nel commento all’epigramma 6. 218.

190 Un’interpretazione totalmente diversa di questo ciclo di epigrammi della Anthologia Palatina è

stata proposta da Fedeli 1981, 247-256 che ha stabilito un confronto con il carme 63 di Catullo, in cui compare ancora una volta il binomio famulus di Cibele – leone. Lo studioso in particolare ha sottolineato una serie di analogie riscontrabili tra l’epigramma 6. 219 di Antipatro e l’episodio del leone nel carme catulliano che ipotizza dovute ad una fonte comune, forse addirittura callimachea, che sarebbe però stata innovata nel finale dai poeti epigrammatici, i quali avrebbero eliminato l’originaria sottomissione del gallo al leone, emblema di una totale consacrazione a Cibele (mantenuta nel finale dell’Attis), operando “una raffinata Umkehrung, nel solco della più pura tradizione dell’alessandrinismo”. In questo studio non viene però preso in considerazione il fr. 364 B. di Varrone che con evidenza risale alla medesima fonte del ciclo di epigrammi palatini in questione e che fa esplicito riferimento ad un simulacrum leonis, inficiando quindi, mi sembra, l’ipotesi che il racconto presente negli epigrammi della Anthologia Palatina (e in Varrone) possa essere considerato un puro divertissement erudito nato dalla volontà di variare il finale originario dell’episodio, mantenuto invece da Catullo. Farei piuttosto una considerazione di tipo diverso: il testo catulliano sembra in realtà presentare interessanti riscontri testuali non solo con l’epigramma 6. 219, come puntualmente notato da Fedeli, ma anche con l’epigramma 6. 220 (vedi Gow–Page 1965, 246-248) ed ipotizzerei quindi in Catullo un’opera da una parte di “contaminazione” dotta di

ipotizzare la medesima fonte comune, il teatro dell’azione dovrà, almeno genericamente, coincidere ed è dunque a mio avviso più probabile che il monte Ida di questo frammento sia il monte frigio sacro a Cibele, sul quale non meravi- glia né la presenza di galli né l’intervento salvifico della dea che nella versione del racconto probabilmente originaria, riverberata nei testi epigrammatici, è l’ispiratrice dell’idea di percuotere il timpano che permette di mettere in fuga (o rendere invasato) il leone. Nonostante la reinterpretazione laica operata da Varrone, che non fa menzione della dea, è evidente che questo racconto aveva in origine una forte connotazione religiosa: doveva essere uno degli episodi leggen- dari connessi al culto della Mater Magna ed intesi a mostrare il suo potere anche sulle fiere più feroci. Protagoniste del racconto sono infatti due figure evidentemente legate ad essa: un suo sacerdote eunuco ed un leone, l’animale a lei sacro, tipicamente rappresentato come ammansito ai suoi piedi o aggiogato al suo carro. Mi sembra quindi estremamente probabile che questo racconto miracoloso si ambientasse nel “regno di Cibele”, cioè in Frigia appunto191.

Respingerei dunque l’identificazione cretese del monte Ida proposta da Cichorius, né per altro mi sembra che dal passo di Solino si possa evincere in modo indubbio una visione autoptica da parte di Varrone della tomba di Zeus a Creta: tutto ciò che ricaviamo da questa testimonianza infatti è che l’erudito romano in una sua opera notava come questo monumento fosse ancora alla sua epoca oggetto di visite, ma senza far cenno ad una sua personale visita né ad una sua presenza in loco. Quindi, se si ritiene che in questo frammento l’uso del verbo

video implichi una visone autoptica da parte di Varrone del simulacrum leonis

sull’Ida, si dovrebbe semmai ipotizzare un suo viaggio presso il monte Ida di Frigia, da far eventualmente risalire all’epoca in cui questi potrebbe esser stato

questi modelli epigrammatici e dall’altra di innovazione originale del finale dell’episodio, consona al sentimento di trepida inquietudine e di sacro orrore che permea la chiusa del componimento.

191

Non ritengo infatti convincenti le argomentazioni di Cèbe 9, 1517-1518 circa l’importanza del culto di Rea-Cibele a Creta.

governatore della provincia d’Asia, cioè al 66 a. C.192, ma, come ho detto sopra, si tratta di un presupposto biografistico poco accettabile

Considererei piuttosto la determinazione di luogo ad Idam (poi ripresa e specificata dall’ablativo eo loco e dalla relativa che segue) in riferimento a leonis piuttosto che a simulacrum; così inteso, il testo indicherebbe che il leone era ritratto nel quadro ambientale del monte Ida e non, secondo l’interpretazione comune, che l’immagine del leone ammansito era fisicamente esposta sull’Ida193. Si potrebbe allora pensare ad una sorta di pinax o di bassorilievo raffigurante questa vicenda miracolosa che poteva essere tipicamente presente nei templi consacrati alla dea e che Varrone, in particolare, avrebbe potuto aver visto nel tempio palatino di Cibele.

L’interpretazione che propongo per il fr. 364 B. risolverebbe i problemi legati all’uso del verbo video, poiché non si sarebbe più costretti ad ipotizzare viaggi di Varrone a Creta o in Asia Minore; non solo, l’intero passo risulterebbe, per così dire, semplificato da questa lettura perché di fatto qualsiasi civis Romanus avrebbe potuto rivolgere una domanda di questo tipo ad un proprio concittadino in riferimento ad un’immagine votiva consacrata nel tempio della Grande Madre sul Palatino e raffigurante o semplicemente un leone in una selva o magari la scena del leone ammansito dal suono dei timpani percossi dai galli: si sarebbe trattato di un’esperienza alla portata di tutti. Il tono della domanda mi sembrerebbe infatti implicare una certa notorietà del simulacrum cui si fa riferimento e dato che non abbiamo altre testimonianze letterarie relative ad esso194, si potrebbe risolvere quest’apparente aporia ipotizzando che la “notorietà” della raffigurazione in questione derivi dalla sua presenza a Roma.

192 Sulla possibilità che Varrone sia stato governatore della provincia d’Asia vedi Dahlmann, in

RE, s. v. M. Terentius Varro, suppl. 6 (1935), 1176.

193 Krenkel 2, 658 nella sua traduzione del frammento riferisce la locuzione ad Idam a leonis

interpretando l’intera espressione come il titolo del dipinto in questione (“das Bild (…) «Der Löwe am Ida»”), ma poi considera eo loco come un riferimento al luogo in cui si trovava l’immagine.

194

Se si escludono i cinque epigrammi dell’Anthologia Palatina che ho menzionato e che sembrerebbero però riferirsi più allo stesso soggetto che alla stessa opera figurativa.

La vicenda del miracolo operato da un gruppo di galli riusciti ad ammansire un leone grazie al suono dei loro timpani, originariamente carica di valenze misti- che e religiose, sarebbe qui raccontata secondo una prospettiva totalmente laica. In questa versione “romana” del racconto Cibele appare infatti esautorata da qualsiasi ruolo nella vicenda e si dice solo che i galli ammansirono tympanis il leone paratosi loro dinanzi, mentre negli epigrammi dell’Anthologia Palatina questo gesto salvifico, come ho detto, appare sempre ispirato ai sacerdoti di Cibele dalla loro dea. A differenza di quanto avviene negli epigrammi greci che narrano verisimilmente lo stesso episodio, nel frammento varroniano il leone poi non fugge né cade in preda ad un’estasi mistica, ma al contrario è ammansito dalla musica e si potrebbe forse supporre che questa sia una deliberata innovazione di Varrone che, desideroso qui di mostrare la potenza “civilizzatrice” della musica, avrebbe per così dire trasferito il potere “sedativo” e ammaliatore usualmente attribuito alla cetra di Orfeo195 ai barbari tympana dei semiviri di Cibele. È infatti interessante notare come qui del suono dei timpani non sia sottolineato, come d’uso, il carattere frenetico, “barbaro” ed assordante; la “metamorfosi orfica” dei tamburelli frigi risponde evidentemente al fine di mostrare il potere psicagogico che la musica, in tutte le sue forme, anche le più selvagge, comunque possiede.

Probabilmente proprio perché questo è il fine che si propone il parlante, il tono complessivo del racconto appare privo della sarcastica ironia che usualmente nel mondo tanto greco che romano (e Varrone non fa eccezione196) connota i riferimenti ai sacerdoti eunuchi di Cibele: i galli, usualmente presentati come totalmente privi di virilità anche nell’animo197, in questo frammento non appaiono invece provare il minimo timore alla vista del leone. Si potrebbe forse osservare come in generale qui il parlante tenda a mantenere uno stile medio, senza ironiz-

195 Cfr. Hor. ars 393 (Orpheus) dictus (…) lenire tigres rabidosque leones (questo confronto è

stato già proposto da Krenkel 2, 660).

196 Vedi i frr. 119, 120, 121 e 140 B. della satira Eumenides. 197

Cfr. e. g. AP. 6. 220 (si parla del leone) ajndravsi dei'ma / qarsalevoi", Gavllw/ d’oujd’ojnomasto;n a[co".

zare sull’effeminatezza dei galli, ma anche senza connotare il leone con gli attributi espressivi che ricorrono invece negli epigrammi dell’Anthologia Palatina (epp. 6. 217: boufavgo"; 6. 218: pelwvrio"; 6. 219: taurofovno"; 6. 237:

ajrgalevo"198), dal momento che la fiera è indicata in modo del tutto neutro come

quadrupes199.

In questo frammento assistiamo quindi da una parte ad una completa laiciz- zazione dell’episodio narrato e dall’altra ad un’insolita rinuncia a qualsiasi connotazione ironica dei galli che ne sono i protagonisti, anche se certo non possiamo sapere se questa “serietà” non fosse poi destinata ad offrire all’interlocutore l’occasione per una risposta mordace e irriverente nei confronti dei semiviri di Cibele e dei loro barbari strumenti musicali.

*

Nel fr. 540 B.200, TESTAMENTUM – Peri; diaqhkw'n, in galliambi201, sic ille puellus Veneris repente Adon

cecidit cruentus olim202

facendo evidentemente riferimento ad un primo termine di paragone perduto, viene detto: “così cadde un giorno all’improvviso, coperto di sangue, quel celebre

198 Questo è il testo tradito, emendato da Gow–Page 1968, 2, 145 in rJigalevo". 199

In base a questa specificazione si potrebbe forse ipotizzare che nel simulacrum in questione il leone non fosse raffigurato quadrupes, ma danzante (?) su due zampe, rapito dal suono dei timpani.

200 Non. p. 158: ‘Puellos’ pueros. Varro Testamento, Peri diaqhkw'n.

201 Si tratterebbe di due galliambi incompleti: il primo nella parte iniziale per la caduta di una

sillaba lunga o di due brevi, il secondo in quella finale per la caduta di tutto il secondo emistichio. Questa struttura metrica, individuata da Havet 1882, 60 e da L. Müller 1894², 109, è accolta dalla maggior parte degli studiosi. Guyet e Quicherat vedono invece nel frammento dei dimetri anapestici; Lachmann 1850, 56 dei tetrametri ionici a minore; Roeper 3, 455 dei sotadei; Deschamps 2, 134-135 dei tetrametri ionici a maiore.

202 Il solo intervento sulla lezione dei codici che ho accolto, al pari di tutti gli studiosi, è la

correzione del tradito, ma evidentemente corrotto, vadon: Adon è proposta di Mercier (accolta da Oehler, Buecheler, Riese, Havet, Bolisani, Della Corte Deschamps, Cèbe, Krenkel e Astbury), mentre Guyet e Lachmann correggono in Adonis e Iunius in fato.

fanciullino di Venere, Adone”. Adon, congetturato da Mercier, è forma di nomi- nativo rara203, senz’altro da preferire qui alla forma corrente, Adonis, perché più vicina al tradito, ma corrotto vadon e perché la sua eccezionalità può averne favorito la corruzione; d’altra parte la designazione come puellus Veneris e la menzione di una sanguinosa morte prematura rendono estremamente probabile un riferimento proprio ad Adone in questo passo.

Il diminutivo puellus, derivato da puella204, presente in altri tre frammenti menippei (frr. 19, 285 e 485 B.), è proprio del sermo cotidianus ed il suo utilizzo in questo passo mira a sottolineare la tenera età del fanciullo e di conseguenza la particolare acerbità della sua morte, evidenziata anche dall’avverbio repente che mette in risalto il carattere improvviso ed inatteso di essa205. Così la posizione di forte rilievo del predicativo cruentus, che segue il perfetto cecidit, connota tragi- camente la morte del fanciullino come una morte violenta.

Questo frammento appare caratterizzato da un tono particolarmente patetico ed accorato206: i singoli dettagli appaiono infatti illuminare in modo graduale, ma sempre più tragicamente chiaro la cruenta scena di morte descritta. Prima viene introdotto il protagonista, del quale inizialmente non viene indicato il nome, ma solo la tenera età ed il legame con Afrodite; poi si fa riferimento ad un evento inatteso ed improvviso da cui è stato travolto ed infine, dopo la rivelazione del nome, si chiarisce cosa gli sia avvenuto, viene cioè ricordata la sua morte prema- tura (cecidit) della quale è subito precisato anche il carattere violento.

Non ritengo necessaria l’integrazione ‹vir› che Krenkel207 propone di inserire davanti a puellus, sostenendo che Adone al momento della sua morte non

203

Cfr. ThLL, s. v. Adonis, 1, 804.

204 Cfr. Ernout-Meillet, s. v. puer, 543. 205

Havet 1882, 60 rifiuta repente tradito e lo corregge con Carrione in apri dente; l’avverbio