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Il movimento della différance: referenzialità interrotta e politiche dell’identità

Ovunque, è il predominio dell’ente che la différance viene a sollecitare, nel senso in cui sollicitare significa, nel latino antico, far vacillare nel suo insieme, far tremare nella sua totalità.

Jacques Derrida, La différance La decostruzione, dal momento che insiste sulla necessaria non coincidenza del presente con se stesso, è infatti, in un certo senso il più storico dei discorsi immaginabili.

Geoff Bennington,

Post-structuralism and the Question of History

Non sorprende, quindi, che uno degli usi più ricorrenti del metalinguaggio post-strutturalista del differimento vada ricercato in quelle aree in cui l’identità esistenziale è maggiormente in gioco come il multiculturalismo, il postcoloniale e l’etnicità.

Rey Chow, Il sogno di butterfly

A questo punto del nostro percorso riteniamo necessario, per motivi di chiarezza e di consequenzialità argomentativa, ripercorrere sinteticamente i principali passaggi discorsivi che conducono Derrida all’argomento della différance ed a quelli, ad esso congiunti, della traccia e del supplemento, che hanno svolto un ruolo decisivo all’interno dei percorsi della critica postcoloniale. Il percorso che svolgeremo, in maniera abbastanza approfondita, in questo capitolo e che, in parte, abbiamo anticipato nel precedente, potrà apparire distante dall’oggetto principale della nostra ricerca, le letterature dei Caraibi, e dagli obbiettivi che ci siamo posti ed in un certo senso, indubbiamente, è così. Ciò non toglie che l’importanza ed il peso che una certa riflessione teorica degli ultimi decenni ha rivestito nell’ambito della critica postcoloniale, la quale ha come oggetto primario proprio quelle forme della rappresentazione di cui andremo ad occuparci, e l’uso stesso che faremo di questi concetti e delle problematiche ad essi correlate, ci spingono ad una disamina attenta, per quanto senz’altro insufficiente e non esaustiva, di certi percorsi teorici, che ci permetta di prendere la misura

delle distanze e delle prossimità e di mettere in atto un serio approccio interdisciplinare. Un uso troppo disinibito, e spesso scorretto, di certi concetti, come sempre più spesso accade nella critica letteraria, può infatti portare ad una lettura deformante, superficiale o, più spesso, ideologica dei testi letterari, svuotandoli della loro singolarità e della loro forza comunicativa, per appiattirli su certe idee dominanti nel pensiero cosiddetto mainstream. Per questi motivi, e per altri che si renderanno più evidenti lungo il nostro percorso, questa prima sezione svolgerà un détour, prima di affrontare più direttamente l’oggetto della nostra ricerca.

Punto di partenza della riflessione di Derrida, come della maggior parte dei pensatori suoi contemporanei, è la critica ed il superamento della fenomenologia husserliana e della sua riduzione del processo della conoscenza, per mezzo della sospensione del riferimento al mondo, al piano delle idealità ed alla figura di un soggetto trascendentale: la coscienza umana. Il filosofo francese parte, al contrario, dalla constatazione heiddegeriana dell’irrimediabile finitezza ed incompletezza del soggetto umano e della sua esperienza del mondo, finitezza che lo spinge, appunto, a superare il piano dell’esperienza empirica, costruendo delle idealità che siano trasmissibili ed iterabili oltre la sua stessa caducità: operazione necessariamente legata – ed inconcepibile altrimenti – all’invenzione del segno, del linguaggio e della scrittura, ed alle loro caratteristiche essenziali di iterabilità e di trasmissibilità.

Fin dai suoi primi testi, rivolti alla decostruzione della fenomenologia husserliana, Derrida affronta il problema del rapporto tra genesi materiale e struttura ideale, chiedendosi in che modo le idee sorgano dalle individualità materiali e concrete, e quanto conti questa genesi nella costituzione dell’idealità. Derrida affronta la questione innestando la dialettica sulla fenomenologia, ritenendo che l’individuale concreto non costituisca affatto un limite dell’universale astratto, bensì che esso rappresenti la condizione stessa di possibilità della genesi delle idee. Fin dagli inizi si manifesta, dunque, un concetto fondamentale che percorrerà la sua riflessione più matura, ossia l’idea che proprio ciò che viene sistematicamente escluso o rimosso nella tradizione del pensiero occidentale, ne costituisca in realtà la risorsa fondamentale e la condizione di esistenza. In questo caso, l’“io empirico” si mostra come la condizione di esistenza dell’“io trascendentale” e, pertanto, il momento della “genesi” risulta irriducibile, operando all’interno di un movimento dialettico tra genesi (cioè la “storia”) e struttura (cioè l’“idea”). Si manifesta, perciò, l’esigenza di integrare la struttura stessa con una considerazione genetica, oltrepassando così i limiti tanto della fenomenologia,

quanto dello strutturalismo. Per Derrida è dunque necessario – e quest’assunto sarà all’opera anche nel celebre saggio sulla différance, che leggeremo tra poco – decostruire quella dicotomia fondamentale, che è alla base della metafisica occidentale, tra un a priori (logico, formale e necessario) ed un a posteriori (empirico, materiale e contingente), dicotomia ontologica che sottende chiaramente un’assiologia fondamentale, ossia una distinzione ed una scelta di valore tra ciò che è Bene (l’astrazione, le idee, la logica razionale, la coscienza) e ciò che è Male (l’esperienza, il giudizio empirico, la contingenza, l’inconscio). Non si tratta, perciò, di invertire i poli di quest’opposizione – come in parte hanno fatto altri filosofi della sua generazione, come Lévinas196 (con la coppia ontologia/etica) e Foucault197 (con la coppia

ragione/follia) – mantenendo intatta la struttura dualistica di fondo. Derrida sarà più propenso ad identificare, seguendo pazientemente le tracce di un rimosso, un apriori che non sia posizionato in uno dei due termini dell’opposizione mente/mondo, ma che la preceda e che sia la condizione stessa della sua iscrizione, del suo essere “pensabile”, un tertium che sia radice comune della sensibilità e dell’intelletto e, in generale, della produzione delle categorie dualiste che strutturano il pensiero della tradizione metafisica. Come vedremo, questo “terzo” assumerà vari nomi – non potendo evidentemente essere identificato ancora una volta con un principio, un’essenza o una presenza piena – in una catena virtualmente infinita: “différance”, “traccia”, “archi-traccia”, “écriture”, “supplemento”, “phàrmakon” ecc.

Nel corso degli anni ’60, dopo una prima fase di maggiore aderenza ai temi della fenomenologia, la riflessione di Derrida viene progressivamente assumendo i suoi caratteri più peculiari ed originali, identificando quel qualcosa che viene rimosso nella dialettica tra individuale ed universale – rendendo così possibili queste due astrazioni – con il segno, cioè con quella “traccia singolare che si universalizza”, l’elemento empirico che da luogo all’idea, in consonanza con l’assunto iniziale dell’irriducibilità della genesi delle idealità. La materia e la forma, il dato e l’idea, l’esistenza e l’essenza sono, dunque, impegnate in una dialettica ininterrotta ed infinita, che ha luogo nell’esperienza di ogni individuo ed il segno – con la sua unione di sensibile ed ideale, di significante e significato – è l’elemento che porta al suo interno, e dunque permette, questa polarità dialettica. Naturalmente, sappiamo quanto la tematica del segno sia al centro della riflessione teorica di quegli anni – dalla linguistica strutturale alla semiologia, all’antropologia – ma il problema epistemologico specifico, che Derrida solleva, non è tanto in che modo il segno funzioni come veicolo strumentale del

196 J. Derrida, « Violence et métaphysique. Essai sur la pensée d'Emmanuel Lévinas », cit. 197 Id., « Cogito et histoire de la folie », in L'écriture et la différence, cit., pp. 51-98.

pensiero, ma come esso costituisca la vera e propria condizione di possibilità delle idee e del pensiero, e dunque “l’origine della verità”. Quello che già Husserl aveva intuito chiaramente, ma anche in un certo senso rifiutato o rimosso, era il fatto che il segno fosse lo strumento specifico che permette di passare dall’intuizione all’idea e che quest’ultima non avrebbe potuto sorgere senza delle forme di iscrizione, che appaiono come le condizioni di possibilità dell’idealizzazione. Ciò che contribuisce maggiormente all’idealizzazione di un sapere è proprio la possibilità di scriverlo, dunque di iterarlo, ripeterlo, trasmetterlo: « il mondo iperuranio delle idee esiste non benché ci siano forme materiali di trasmissione, ma proprio perché ci sono »198.

La scrittura si mostra, dunque, come la condizione stessa del trascendentale realizzando, per mezzo dell’iterazione e della trasmissibilità, quell’indipendenza del senso rispetto alla comunità attuale o all’individuo nella sua finitezza, in cui si realizza la perfezione dell’idealità. Quello che, più avanti, Derrida definirà come logocentrismo consiste proprio nella “cancellazione del segno”, ossia nella rimozione sistematica, da parte del discorso teorico, delle sue condizioni tecnico-materiali, del ruolo della tecnica nella costruzione della teoria. Derrida ci invita, quindi, a considerare il fatto che un’idea, per essere tale, deve risultare indefinitamente iterabile e che questa possibilità di ripetizione ha inizio proprio nel momento in cui si stabilisce un codice, la cui forma archetipica è offerta proprio dal segno scritto, dalla traccia: « [...] i soggetti, e gli oggetti che entrano nel campo della loro esperienza, non possono prescindere dal sussidio offerto dal segno; non c’è alcuna esperienza, sia essa l’auto-intuizione dell’io o l’intuizione degli oggetti, che risulti immune dalla mediazione semiotica »199.

Il passaggio dall’epistemologia all’ontologia, all’identificazione del segno come costitutivo della presenza, come ciò che definisce la realtà della nostra esperienza, il modo in cui ci relazioniamo a noi stessi e al mondo, è segnato dalla pubblicazione, nel 1967, di tre testi fondamentali: La voix et le phénomène, L’écriture et la différence e De la grammatologie. Quest’ultimo risulta senz’altro l’opera teorica più compiuta ed originale di Derrida, la cui ricezione, in particolare nell’accademia nordamericana in seguito alla traduzione di Spivak, segnerà una svolta radicale della teoria critica. Già in La voix et le phénomène, che chiude in un certo senso la riflessione critica sulla fenomenologia di Husserl, Derrida giungeva alla conclusione che la costituzione della soggettività, del Cogito, è il risultato sempre mobile e

198 Maurizio Ferraris, Introduzione a Derrida, Bari, Laterza, 2003, p. 23. 199 Ibid., p. 27.

mai definitivo della ritenzione del passato e dell’anticipazione del futuro e, dunque, di un movimento segnico. Non esiste un io o un fenomeno in assenza di segni, perché se l’io è fatto di tempo, di flusso, di rimando-rinvio-differenza, allora l’io e i suoi contenuti sono fatti “della stessa stoffa di cui sono fatti i segni”. Per l’oggetto vale la stessa considerazione del soggetto, infatti la vera presenza si configura non come realtà esterna, bensì come interiorità, la quale è tanto più presente quanto la si pensa come idealità, ossia come possibilità di ripetizione indefinita. Ci troviamo qui, come afferma Maurizio Ferraris nella sua introduzione al pensiero di Derrida, di fronte a quel double bind che costituisce il nocciolo della sua filosofia:

La presenza piena, non intaccata dalla possibilità di sparizione empirica, non compromessa dalla trascendenza dell’oggetto rispetto alla coscienza, è interiore e ideale. L’idealità, però, è possibilità di ripetizione indefinita, dunque è in se stessa e per definizione non presente, oltre a dipendere, per la ripetizione, da segni. Ciò che assicura la presenza è anche ciò che la rende impossibile: ogni presenza perfetta (ideale) è una presenza imperfetta (perché è solo l’attualizzazione di una serie indefinita).200

Così, la presenza semplice appare indissociabile dalla ripetizione, la “forma è traccia dell’informe” e pertanto, in linea di principio, non c’è modo di distinguere la presentazione (« présentation »), ossia il darsi della cosa “in sé”, dalla rappresentazione (« re- présentation »), dal suo ripetersi indefinito attraverso il segno. Il progetto della metafisica di fondare una presenza piena ed assoluta risulta, pertanto, irrealizzabile ed il fenomeno addita sempre ad un qualcosa che è di là da sé, ad un eccesso non dialettizzabile, che è anche ciò che mette in moto la dialettica di materia e forma e che produce la presenza e l’io come risultati non assoluti delle non-presenze.

La differenza, come sistema di rimando del tempo e del segno, si configura sempre più, e con un capovolgimento essenziale, come una struttura originaria che da luogo alla costituzione della presenza stessa. La configurazione della traccia come struttura originaria della presenza non risulta, però, da una semplice inversione dei termini, ma si rivela come una struttura paradossale ed aporetica, che Derrida definisce supplemento – riprendendo il termine dal Rousseau de l’Essai sur l’origine du langage: la presenza piena come presenza ideale è ciò che supplisce alla caducità dell’empirico; ma l’empirico è sia l’origine dell’ideale, sia il mezzo (il segno) che assicura la presenza piena come interazione; d’altra parte l’empirico e il contingente sono tali solo alla luce del trascendentale che loro stessi hanno costituito. Per

descrivere con un’immagine oltremodo efficace questo circolo aporetico del supplemento, Ferraris suggerisce proprio quella del Barone di Münchhausen, che si tira fuori dallo stagno afferrandosi per il codino. La struttura del supplemento fa apparire quella mancanza che è alla base della costituzione di ogni presenza, il fatto che la condizione stessa della presenza – il segno come iterazione, la traccia, il supplemento – è anche la condizione della non-presenza. La metafisica, nel perseguire il suo sogno di una presenza piena ed originaria, ha operato dunque una costante rimozione del segno come supplemento; la decostruzione sarà allora una sorta di attività terapeutica, che sollecita il testo come l’analista fa con il nevrotico, in un’analisi interminabile che non può promettere alcuna guarigione.

In De la grammatologie (1967), Derrida analizza proprio il paradigma della scrittura come la migliore versione di quest’aporia della presenza: qualcosa è davvero presente solo se è iterabile (cioè iscrivibile), ma se qualcosa è iterabile allora non è davvero presente. Il suo ambizioso obbiettivo è proprio quello di rimettere in discussione il pregiudizio secolare, che risale almeno a Platone, nei confronti della scrittura, sempre relegata in una posizione subordinata rispetto alla parola. Mentre quest’ultima, infatti, viene abitualmente associata alla ragione, alla razionalità, al logos e mentre la voce viene sentita come più vicina alla verità interiore della coscienza individuale – e questo, come abbiamo visto, avviene fino ad Husserl e Heiddeger – la scrittura viene sempre considerata come un’estensione secondaria, un supplemento della voce, un ausilio tecnico, e pertanto non essenziale, della ragione umana. La parola, nella metafisica occidentale, risulta quindi il garante della presenza e dell’autenticità, mentre la scrittura, nella sua variante fonetica, rappresenta l’assenza e l’artificio, l’alienazione e il differimento della presenza: « [...] l’écriture, la lettre, l’inscription sensible ont toujours été considérées par la tradition occidentale comme le corps et la matière extérieurs à l’esprit, au souffle, au verbe et au logos »201. L’analisi di questa subordinazione della scrittura alla parola orale, definita logocentrismo, si rivolge qui ad una serie di autori fondamentali, ed in particolare a Rousseau, De Saussure e Lévi-Strauss; scelta non casuale, vista l’egemonia dello strutturalismo in Francia nel corso degli anni ‘60.

La tesi di fondo, come abbiamo già anticipato, è che la metafisica ha operato costantemente una rimozione del mezzo che consente la costituzione dell’essere come idealità e della presenza dell’ente, situato nello spazio e nel tempo. Questo mezzo è, per l’appunto, la scrittura, intesa però nel suo senso più generale come « archi-scrittura », ossia non come

201 J. Derrida, De la grammatologie, cit., p. 52. Poco oltre, Derrida afferma: « L’écriture est la dissimulation de

scrittura fonetica o ideografica, bensì come ogni forma di iscrizione in genere. « La metafisica », afferma ancora Ferraris, « rimuove la mediazione proprio perché persegue un sogno di presenza piena, sia essa quella del soggetto presente a se stesso o quella dell’oggetto presente fisicamente e senza mediazioni di schemi concettuali »202. Il logocentrismo è perciò il segno di una dialettica bloccata ed incompleta, sbilanciata dal punto di vista dell’idealità, assiologicamente associata al Bene, e disattenta nei confronti dei modi della sua genesi, o produzione. Il punto fondamentale dell’argomentazione di Derrida riguarda proprio il fatto che non abbiamo qui a che fare con una questione puramente teorica o ontologica, bensì con una questione eminentemente assiologica, che riguarda il bene e il male, ossia con una serie di valori che sottendono un’ontologia. Il sogno di presenza che anima la “mitologia bianca”203, il suo logocentrismo, sarebbe la manifestazione più ampia delle rimozioni che permettono la formazione di un’identità monolitica ed ancestrale, di tipo egocentrico ed etnocentrico 204, ed il compito del filosofo decostruzionista è quello di rivelarne i presupposti. Così, ad esempio, Rousseau postula un’anteriorità di diritto della voce sulla scrittura, essendo la voce l’espressione più genuina del sentimento, del proprio dell’uomo, e perciò il fondamento stesso dell’Umanesimo.

Per i nostri propositi, sarà sufficiente soffermarci qui sulla minuziosa decostruzione della “teoria della scrittura”, esposta da Lévi-Strauss in Tristes tropiques (1955), argomento che ci riconduce evidentemente, da una prospettiva più teorica, alle premesse del nostro discorso enunciate nel primo capitolo, attraverso la lettura di Coetzee. Come l’analisi di Derrida dimostra, infatti, la teoria della scrittura e della civiltà come violenza, formulata da Lévi-Strauss, è decisamente informata e condizionata da un’assiomatica etnocentrica e da un’utopia primitivista di impronta rousseauiana, dove la scrittura appare come una sorta di dono avvelenato della civiltà, destinato a corrompere la purezza e l’innocenza primitive che precedono la “caduta” nella storia.205

202 M. Ferrarsi, op. cit., p. 59.

203 J. Derrida, « La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico », in Margini della filosofia, cit., pp. 273-

349.

204 « [...] l’écriture phonétique, milieu de la grande aventure métaphisique, scientifique, technique, èconomique

de l’Occident, est limitée dans le temps et l’espace, se limite elle-même au moment précis où elle est en train d'imposer sa loi aux seules aires culturelles qui lui échappaient encore » in J. Derrida, De la grammatologie, cit., p. 21.

205 Di solo un anno successivo (1956), Soleil de la conscience di Édouard Glissant mette al centro il problema

della risposta allo sguardo dell’Altro, dell’etnografo (« Du regard au langage » è il titolo della prima sezione), da parte di un popolo che, finora osservato, cerca di costruirsi positivamente come soggetto, di trovare il proprio linguaggio: « Pourra-t-on observer, puisque maintenant ces problèmes intéressent la science de l’homme, observer sur le vif le travail de l’être se suscitant lui-même, et naissant de sa propre volonté (argile qui s’alloue,

Tristes tropiques si distingue nettamente dagli studi pubblicati da Lévi-Strauss negli anni successivi, trattandosi più che altro di un’autobiografia, in cui l’etnologo racconta la sua iniziazione all’antropologia, attraverso le ricerche sul campo condotte in Brasile negli anni ‘30. Non mancano, però, delle descrizioni etnografiche in piena regola, ed è proprio uno dei capitoli etnografici, quello dedicato alla tribù indigena dei Nambikwara, che Derrida prende come punto di partenza per la sua analisi. Il capitolo è intitolato, in modo significativo, « Lezione di scrittura »206 e vi si rappresenta una scena in cui l’antropologo, secondo una prassi ben consolidata, distribuisce carta e penna al piccolo gruppo dei Nambikwara, per osservarne e registrarne le reazioni. L’autore ci informa del fatto che i Nambikwara non conoscono la scrittura e per questo si sorprende quando, pochi giorni dopo, cominciano a tracciare sulla carta delle linee orizzontali o ondulate. Egli suppone che stiano cercando di imitare la sua scrittura, ma osserva anche la loro mancanza di progressi al di là di questa pura imitazione. Solo il capo del piccolo gruppo sembra aver compreso la “funzione” della scrittura, scarabocchia alcune linee prive di significato su un foglio, ma pretende anche che queste linee abbiano un significato e lo illustra ad alta voce. Segue un’altra scena, dove l’etnologo ha chiesto al capo tribù di portarlo in visita presso altri gruppi imparentati con il suo, allorché l’ostilità manifestata da questi ultimi nei confronti della spedizione viene placata con uno scambio rituale di doni. A questo punto, il capo tira fuori il foglio di block notes consegnatogli qualche giorno prima dall’etnologo e pretende di leggere la lista dei regali che i due gruppi devono scambiarsi. L’etnologo resta profondamente turbato da questa “commedia” e in una riflessione successiva si spiega questo suo turbamento col fatto che, benché il simbolo della scrittura fosse stato adottato dal gruppo, la sua realtà (il suo

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