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La metafisica – mitologia bianca che concentra e riflette la cultura dell’Occidente: l'uomo bianco prende la sua propria mitologia, quella indoeuropea, il suo logos, cioè il mythos del suo idioma, per la forma universale di ciò che egli deve ancora voler chiamare Ragione.

Jacques Derrida, Mitologie bianche [...] piace credere che all’inizio le cose erano nella loro perfezione; che uscirono scintillanti dalle mani del creatore, o nella luce senz’ombra del primo mattino. L’origine è sempre prima della caduta, prima del corpo, del mondo e del tempo; è dal lato degli dèi, e a raccontarla si canta sempre una teogonia. Ma l’inizio storico è basso. Non nel senso di modesto, o di discreto come il passo della colomba, ma derisorio, ironico, atto a distruggere tutte le infatuazioni.

Michel Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia In fact, like many other nineteenth-century European ideas, the staging of the Eurocentric mode-of- production narrative as History should be seen as an analogue of nineteenth-century territorial imperialism.

Gyan Prakash, Postcolonial Criticism and Indian

Historiography

I testi letterari che abbiamo analizzato nei paragrafi precedenti, Foe del sudafricano Coetzee e Tout-monde del martinicano Glissant, hanno reso drammaticamente evidenti talune impasses delle forme tradizionali della rappresentazione letteraria, ed in particolare delle strutture classiche della mìmesis nel genere romanzesco di stampo ottocentesco, nel momento in cui queste forme si trovano coinvolte nelle cosiddette “rotture epistemiche” che segnano il limite – inteso nella sua connotazione più prossima all’etimo latino limen, che indica “la soglia”, il margine inteso non come confine invalicabile, ma come frontiera e dunque spazio

di attraversamento, di cambiamento e di crisi121 – dei paradigmi cognitivi ed estetici della modernità occidentale. Il meta-romanzo di Coetzee ci ha aiutati a mettere a fuoco le aporie nelle quali, inevitabilmente, si imbatte qualunque progetto di rappresentazione dell’altro che non rimetta radicalmente in questione lo statuto stesso della rappresentazione, il suo soggetto, la sua autorità, le sue forme ed il suo linguaggio, e che non faccia i conti con la violenza ed il potere insiti nella narrazione stessa e nelle sue forme canoniche. Il cosiddetto canone occidentale122 non riveste esclusivamente, per lo meno nelle più raffinate elaborazioni letterarie postcoloniali, la funzione di un’autorità sovrana ed immutabile, che decide di cosa e di come si possa o non si possa rappresentare in Letteratura. Non si tratta solamente della formazione granitica ed autoritaria di una regola dell’esclusione (autorità nei confronti della quale lo scrittore postcoloniale sarebbe comunque intrappolato in un gesto continuo di negazione, che non farebbe altro che confermare, con un movimento meramente dialettico, l'autorità stessa del Padrone), ma uno spazio già di per sé ambivalente e scisso, che ri-traccia in continuazione le frontiere di ciò che gli è interno e rappresentabile e di ciò a cui la rappresentazione non può accedere, quello spazio di silenzio che è misura della sua stessa finitezza. Si tratta, dunque, di un canone che non fa del Medesimo e dell'Identico il solo criterio del suo definirsi, che non svaluta l’alterità, bensì la tiene come il motore principale della sua stessa formazione.123

La dimensione allegorica che attraversa il primo capitolo di Tout-monde ci ha poi aiutati a focalizzare “gli splendori e le amarezze” dell’erranza, l’impossibilità ed al tempo stesso la necessità di ricomporre i vecchi paradigmi ideologici della modernità ed il senso di ansietà e di turbamento derivanti dalla fine delle Grandi Narrative di emancipazione dell’umanità e delle identità ancestrali di classe, di genere e di razza. Questa dimensione problematica dell’identità ci mostra, dunque, l’apparire sulla scena di una soggettività nuova, dinamica e frammentata (non più raffigurabile come un cerchio, bensì piuttosto attraverso le figure barocche dell’ellissi e della spirale) presa in una continua negoziazione e messa in crisi della propria identità, del proprio sapere e dei propri linguaggi. Una dimensione performativa dell’identità, dunque, individuale e collettiva, in cui il passato, come la ferita di Mathieu,

121 « Il limite non è il punto in cui una cosa finisce, ma, come sapevano i Greci, ciò a partire da cui una cosa

inizia la sua essenza »; Martin Heiddeger, [1974], « Costruire abitare pensare » in Saggi e discorsi, a cura di

Gianni Vattimo, Milano, Mursia, 1991, p. 103.

122 Harold Bloom, The Western Canon. The Books and School of the Ages, New York, Harcourt Brace, 1994. 123 Cfr. Andrea Ponso, « Il Canone di Harold Bloom. Tra intercultura, singolarità e finitezza », in Trickster n. 5

viene continuamente riaperto, “rimesso in scena”, mentre la sua raffigurazione allegorica permette di connettere temporalità culturali ritenute incommensurabili. Vale la pena di citare qui, ancora una volta, Homi Bhabha:

I termini del coinvolgimento culturale, sia conflittuale che collaborativo, sono creati in modo performativo: la rappresentazione della differenza non deve essere letta come il riflesso di tratti etnici o culturali già dati e fissati nelle tavole della tradizione; al contrario l'articolazione sociale della differenza, dal punto di vista della minoranza, è una negoziazione complessa e continua che punta a conferire autorità a ibridi culturali nati in momenti di trasformazione storica. [...] Riconoscere che la tradizione offre qualcosa è già una parziale forma di identificazione: rimettendo in scena il passato questo riconoscimento introduce altre, incommensurabili temporalità culturali nell’invenzione della tradizione.124

I temi sin qui introdotti necessitano, data la loro complessità ed il loro continuo intrecciarsi, di un inquadramento teorico e concettuale più rigoroso, che ci permetta di mettere efficacemente in relazione, e talora in contrappunto, i piani non sempre ricomponibili del discorso teorico-critico e della rappresentazione letteraria. Perciò, nei prossimi capitoli, cercheremo di tracciare una sorta di genealogia125, per quanto sommaria e non omogenea, delle problematiche teoriche e critiche sollevate in un primo momento, soprattutto nel corso degli anni ‘60 e ‘70, dal cosiddetto post-strutturalismo francese, poi riprese e riadattate secondo dei margini più ampi, e talora anche aspramente criticate, dalla teoria postcoloniale degli ultimi decenni. Dobbiamo comunque premettere che l’uso di categorie quali quelle di “post-strutturalismo” e di “postcolonialismo”, per quanto possano risultare utili, in un primo momento, per delineare delle caratteristiche ricorrenti in una serie di opere e di autori, non dovrà permetterci di perdere di vista le singolarità ed i punti di diffrazione o di ambivalenza che contraddistinguono tanto l’opera dei singoli scrittori, quanto l’intero paesaggio intellettuale, estremamente disseminato e disomogeneo, di cui ci occuperemo.

Siamo consapevoli del fatto che, ad un primo sguardo, una simile impostazione del discorso – che muova da talune premesse concettuali, elaborate per la maggior parte in un contesto accademico euro-occidentale (francese, in un primo tempo, ed anglo-americano poi), per derivarne dei paradigmi critici da applicare al “terreno-oggetto” delle letterature postcoloniali caraibiche – potrebbe comprensibilmente sollevare delle accuse di etnocentrismo, ossia di mimare, a livello del discorso critico, quelle stesse strutture autoritarie

124 H. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 13.

del sapere e del potere che si vorrebbero criticare. Premettiamo, quindi, che uno degli obbiettivi critici del nostro lavoro sarà proprio quello di smontare questo meccanismo discorsivo e di uscire, innanzitutto, da una contrapposizione binaria tra “filosofia” e “letteratura” – derivazione e sedimentazione della separazione fondatrice, prodotta dalla tradizione del platonismo più che dallo stesso Platone, tra logos e mythos, tra razionalità logico-sequenziale ed imperfezione mimetica dell’immaginazione. Il nostro scopo è quello di creare degli spazi di relazione e di conflitto tra linguaggi, che mantengono comunque le loro specificità, e di svelarne le ambivalenze e le complesse dinamiche di somiglianza e di differenza, tanto per ciò che riguarda il discorso “occidentale”, che quello “esotico”. Postulare una differenza assoluta, tanto quanto rintracciare banalmente una serie di similitudini o di rimandi, costituirebbe infatti un’operazione intellettuale sterile e rischierebbe davvero, per usare una vecchia metafora, di far rientrare dalla finestra ciò che si è vanamente tentato di allontanare dalla porta principale. Al tempo stesso, prendere in considerazione le letterature dei Caraibi racchiudendole in un insieme omogeneo e in un contesto “locale”, che rimandi solo a se stesso, non farebbe altro che riprodurre, cercando maldestramente di camuffarlo dietro lo schermo di un’alterità esotica, proprio quello sguardo “orientalista” che, come vedremo meglio, si fonda sulla cancellazione e/o sulla trasparenza del posto occupato dal soggetto del sapere e della parola e dai suoi presupposti epistemologici.

Per delineare schematicamente alcuni tratti fondamentali del paesaggio intellettuale francese tra gli anni ‘60 e ‘70 – inevitabile premessa per un serio discorso sulla teoria critica postcoloniale – faremo riferimento principalmente a tre testi “autorevoli”, che propongono altrettante interpretazioni, tra loro decisamente divergenti quanto ai giudizi di valore espressi, del panorama teorico post-strutturalista. Citandoli nell’ordine cronologico di pubblicazione, si tratta del saggio di Vincent Descombes, del 1978, intitolato Le Même et l'Autre. Quarante- cinq ans de philosophie française (1933-1978), uno studio della ricchissima scena della filosofia francese lungo due generazioni; La pensée 68. Essai sur l'anti-humanisme contemporain di Luc Ferry e Alain Renaut, pubblicato per la prima volta nel 1988 e che, dopo un ventennio, tenta di tracciare un bilancio dell’ondata filosofica anti-umanista che seguì al maggio ‘68; infine, Mitologie bianche. La scrittura della storia e l'Occidente del teorico postcoloniale Robert J.C. Young, libro più recente, del 1990, che collega il post-strutturalismo francese e la sua critica dello storicismo dialettico alle più recenti teorie postcoloniali.

novecento. La prima, detta anche generazione delle “3 H” come si diceva dopo il ‘45, aveva dei solidi punti di riferimento in Hegel, Husserl e Heiddeger. La generazione successiva, quella che ci interessa qui e che si sviluppa nel corso degli anni ‘60, sposta la sua attenzione sui cosiddetti maîtres du soupçon: Marx, Nietzsche e Freud. Ciò che accomuna questi punti di riferimento è, chiaramente, la loro appartenenza alla tradizione alta del pensiero tedesco; perciò la tradizione francese, come propongono in modo estremamente riduttivo gli autori de La pensée 68, potrebbe anche essere letta come una traduzione ed una ripetizione “iperbolica” della filosofia tedesca.

Al centro del dibattito filosofico francese si troverebbe, secondo Descombes – sia che la si riprenda adattandola ad un nuovo panorama storico e concettuale, come avviene per Kojève, Sartre o Merleau-Ponty, sia che si cerchi di uscirne e di elaborare un pensiero ad essa alternativo, nel caso di Foucault, Althusser, Lyotard, Deleuze e Derrida – il grande “mattatore” della scena filosofica ottocentesca: la dialettica hegeliana. Descombes riconosce proprio nel cambiamento di accezione della parola “dialettica”, intesa ancora in modo peggiorativo dai neo-kantiani e dai bergsoniani prima del 1930, il segno di un cambiamento generazionale. Essa riacquista interesse anche in seguito al celebre corso sulla Fenomenologia dello spirito 126, tenuto da Alexandre Kojève all’École pratique des hautes études dal 1933 al 1939127. Negli anni successivi il prestigio della dialettica è talmente alto, afferma Descombes, da spingere a postularne l’impossibilità di una definizione, se non per via di negazione, ossia, ripetendo il gesto della teologia negativa, dicendo ciò che essa non è. Così, lo stesso Sartre afferma, nella Critique de la raison dialectique, che: « La dialectique elle-même [...] ne saurait faire l'objet des concepts, parce que son mouvement les engendre et les dissout tous »128.

Il passaggio alla generazione successiva della filosofia francese, quella degli anni ‘60- ‘70, sarà così caratterizzata, secondo una struttura propriamente edipica, dal sacrificio dell’idolo hegeliano. Così Gilles Deleuze nel 1968 raggruppa la “differenza ontologica” di Heiddeger, lo “strutturalismo” ed il “nouveau roman” tra i segni di un superamento dell’hegelianismo: « Tous ces signes peuvent être mis au compte d’un anti-hégélianisme généralisé: la différence et la répétition ont pris la place de l’identique et du négatif, de

126 G.W.Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, ed. con testo a fronte, trad. di Vincenzo Cicero, Milano,

Bompiani, 1995.

127 Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996. 128 Jean-Paul Sartre, Critique de la raison dialectique, Paris, Gallimard, 1960, p. 106.

l'identité et de la contradiction »129. Solo due anni dopo, Michel Foucault, nel corso della celebre Lezione inaugurale tenuta al Collège de France nel 1970, affermerà da parte sua che: « Toute notre époque, que ce soit par la logique ou par l'épistémologie, que ce soit par Marx ou par Nietzsche, essaie d'échapper à Hegel »130. Ma qual’è il significato di questa rottura che, come avremo modo di vedere, non riguarda solamente l’ambito ristretto e specifico del discorso filosofico e del linguaggio metafisico, ma che investe in modo ben più ampio i mutamenti culturali ed epistemologici, ma anche storici e politici, di questi anni? Quale visione della Storia, dell’Occidente e dell’Uomo è racchiusa nel pensiero del grande filosofo idealista, che un’intera generazione vuole criticare e decostruire ? E soprattutto, in nome di cosa? Qual’è, se esiste, il “nuovo” che avanza?

La dialettica hegeliana, che la si esalti o la si critichi, spiega chiaramente Descombes, porta con sé un progetto di allargamento della ragione, di superamento del dualismo cartesiano razionale/irrazionale, “Même/Autre”, verso una ragione più ampia e totalizzante:

Une pensée non dialectique s'en tiendrait à l'opposition du rationnel et de l'irrationnel, mais une pensée qui se veut dialectique a pour définition d'amorcer un mouvement de la raison vers ce qui lui est foncièrement étranger, vers l'autre: toute la question est alors de savoir si, dans ce mouvement, c'est l'autre qui aura été ramené au même, ou bien si, pour embrasser simultanément le rationnel et l’irrationnel, le même et l'autre, la raison aura dû se métamorphoser, perdre son identité initiale, cesser d'être la

même et se faire autre avec l'autre.131

L’interpretazione della dialettica hegeliana offerta da Kojève nel suo celebre corso, e poi ripresa da un'intera generazione di filosofi, è perciò ben lontana dall'indefinibilità postulata da Sartre, ed assume come figura paradigmatica proprio la “dialettica Servo- Padrone”132. L’elemento cardine, fondatore dell’Uomo come soggetto della Storia universale, della Weltgeschichte, è il momento della negazione, per cui il soggetto non può più essere inteso kantianamente come semplice soggetto di una rappresentazione, come un io penso,

129 Gilles Deleuze, Différence et répétition, Paris, P.U.F., 1968, p.1. 130 Michel Foucault, L’ordre du discours, Paris, Gallimard, 1971, p. 74.

131 Vincent Descombes, Le Même et l'Autre. Quarante-cinq ans de philosophie française (1933-1978), Paris, Les

Éditions de Minuit, 1979, p. 25.

132 L’interpretazione di Kojève della dialettica servo-padrone di Hegel sarà fondamentale anche per la riflessione

di Frantz Fanon. Un saggio recente di Susan Buck-Morss ha dimostrato l’importanza delle notizie degli eventi storici della rivoluzione haitiana, per l’elaborazione hegeliana della dialettica servo-padrone nella

Fenomenologia dello spirito: cfr. Susan Buck-Morss, « Hegel e Haiti. Schiavi, filosofi e piantagioni: 1792-

1804 », in Roberto Cagliero e Francesco Ronzon (a cura di), Spettri di Haiti. Dal colonialismo francese

all'imperialismo americano, Verona, ombre corte, 2002. Cfr. anche l’importante studio di Sibylle Fischer, Modernity Disavowed: Haiti and the Cultures of Slavery in the Age of Revolution, Durham and London, Duke

perché la sua identità viene continuamente rimessa in questione dall’alterità dell’universo esteriore. La coscienza, insomma, non è più concepita come una positività assoluta, ma come negazione, ossia come potere e libertà di negare i dati positivi del reale, di opporsi ad esso e di modificarlo, trasformando in tal modo la stessa esistenza ed originando il movimento dialettico della Storia. Appare subito chiaro come questa “negatività”, questa “umanizzazione del Nulla”, non sia per niente un indebolimento, bensì un rafforzamento estremo della coscienza, del soggetto e più in generale dell'Umanesimo:

Si exister, c’est être posé par l'esprit, l’esprit peut, avec la même liberté, poser un être quelconque ou se refuser à poser quoi que ce soit (ou du moins se concevoir par abstraction comme ne posant rien, concevoir sa propre liberté en dehors de toute exercice actuel de cette liberté).133

Proprio su questo aspetto della differenza come negazione si giocherà gran parte della partita filosofica del post-strutturalismo, per il quale si tratterà di aprire la strada ad un pensiero della differenza non-contraddittoria, non-dialettica, insomma, la quale non si riduca ad essere la negazione o il contrario dell’identità della coscienza a sé stessa, pronta quindi, in quanto alterità, ad essere riassorbita nel medesimo, rivelandosi “dialetticamente” identica all'identità. Il movimento dialettico della coscienza, e quindi della conoscenza, appare sempre più come un movimento totalizzante, sospettato per questo di essere la “ragione”, ma anche la “mitologia”, delle metamorfosi storiche dell’imperialismo, del colonialismo e del totalitarismo generate dalla modernità occidentale. Ad esempio, quella che negli anni settanta verrà chiamata “filosofia del desiderio”, di cui l'opera più significativa sarà senz’altro L’anti-

Œdipe di Deleuze e Guattari (1972), cercherà, richiamandosi in prima istanza a Nietzsche, di “renverser le platonisme”, opponendo una concezione affermativa di un desiderio produttivo e creativo all’interpretazione “platonico-cristiana” del desiderio come mancanza, avvilimento e sofferenza.

Luc Ferry e Alain Renaut134 identificano il “tipo-ideale”, nel senso weberiano, della filosofia francese degli anni sessanta riassumendone, in una sorta di modello, le caratteristiche essenziali ed identificando una sorta di paradigma epistemologico comune. Per quanto si possa giudicare, per certi aspetti, estremamente riduttiva la loro interpretazione – volta sostanzialmente alla critica di una stagione intellettuale che essi ritengono definitivamente

133 Dalla voce “néant” del Vocabulaire de la philosophie di Lalande (P.U.F.) cit. da Descombes, op. cit., p. 37. 134 Luc Ferry et Alain Renault, La pensée 68. Essai sur l’anti-humanisme contemporain, Paris, Gallimard, 1988;

esaurita, e quindi ad una riabilitazione di un soggetto di stampo umanistico e liberale – l'identificazione di alcuni nuclei tematici o direttive essenziali del post-strutturalismo potrà risultare comunque utile al nostro proposito. I due filosofi identificano quattro caratteristiche essenziali del “68 pensiero”: 1) il tema della fine della filosofia; 2) il paradigma della genealogia; 3) la dissoluzione dell’idea di verità; 4) la storicizzazione delle categorie e la fine di ogni riferimento all’universale. I singoli elementi di questo modello si connettono reciprocamente, convergendo sostanzialmente in una critica radicale del soggetto e in una filosofia dichiaratamente anti-umanista.

Il tema della fine della filosofia può riassumersi, sostanzialmente, nella convinzione della necessità di una presa di distanza, di una fuoriuscita dalla tradizione del pensiero occidentale, dalla “storia della metafisica” come si è realizzata da Platone ad Hegel ed oltre135, la quale avrebbe ormai esaurito le sue possibilità come linguaggio. E’ un tema che ha conosciuto numerose varianti, ma che sostanzialmente è stato declinato lungo i due crinali del marxismo e della genealogia nietzscheano/heiddegeriana. Come afferma in modo molto chiaro Descombes:

Au début des années 1960, il est beaucoup question d'une « fin de la philosophie ». La ratio occidentale aurait épuisé ses ressources, elle arriverait au bout de sa course. L'expression « fin de la philosophie » est empruntée à Heiddeger, mais elle est en fait utilisée dans des acceptions les plus diverses: les uns veulent dire par là qu’il est temps de passer de la théorie à l'action politique (ce sont les marxistes et les lecteurs de Sartre); les autres font à la philosophie le procès des romantiques contre les classiques (elle aurait présenté comme universellement valide ce qui était l’expression ou la représentation d’une peuplade ou d'une époque particulière). Dans un sens bien peu heiddegerien, « fin de la philosophie » équivaut le plus souvent à l'accusation suivante: la philosophie est l'idéologie de l'ethnie occidentale.136

Se un discorso ideologico, dunque, si definisce come un discorso che presenta una situazione di fatto come fondata di diritto, un privilegio tradizionale come una superiorità naturale, la Ragione, nel momento in cui si presenta come assoluta, come unico cammino

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