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[...] giunti ormai alla fin de siècle, ci troviamo in un momento di passaggio in cui spazio e tempo si intersecano dando vita a immagini in cui differenza e identità, passato e presente, interno ed esterno, inclusione ed esclusione si intrecciano inestricabilmente. In quell’ “oltre” si avverte infatti un turbamento, un senso di disorientamento nella direzione da prendere: un moto esplorativo inquieto, reso efficacemente dall'espressione francese au-delà – qua e là, da entrambi i lati, di qua e di là, avanti e indietro.

Homi Bhabha, I luoghi della cultura L’errance est dure à vivre.

Édouard Glissant, Tout-monde

Il silenzio di Venerdì e le problematiche epistemologiche, etiche, politiche ed estetiche ad esso collegate, si sono rilevati degli elementi centrali nella nostra lettura del testo di Coetzee. Il grande tema della rappresentazione dell’Altro, del soggetto e dell’autorità che rendono possibile e che convalidano questa rappresentazione e la sua scrittura, così come le questioni epistemologiche legate all’opacità ed all’intraducibilità dell’Altro, al suo silenzio ed alla sua presa di parola, saranno alcuni dei nodi e degli interrogativi essenziali su cui cercheremo di articolare il nostro discorso ed il nostro attraversamento delle letterature postcoloniali dell’arcipelago caraibico. La decostruzione postcoloniale del canone occidentale, operata da Coetzee in questo romanzo – come d’altra parte aveva già cominciato a fare in alcune sue opere precedenti come Waiting for the Barbarians (1980) e Life & Times of Michael K. (1983) – non è capace di ri-produrre, come abbiamo visto, un terreno solido su cui articolare un discorso “altro”, un contro-canone che possa rendere conto o svelare in modo a-problematico il senso nascosto del silenzio di Venerdì. La “casa di Venerdì”, quel luogo in cui « i corpi sono segno di sé stessi » e possono quindi parlare e/o significare autonomamente, fondare l’autorità del proprio discorso culturale e della propria rappresentazione, sembra perduta per sempre in fondo agli abissi di una memoria irrecuperabile. Oppure, forse, essa

non è nemmeno mai esistita, semplice proiezione essenzialista di un discorso ancora fondato nell’epistème occidentale e nella metafisica dell’essere, del soggetto e della presenza. Il silenzio di Venerdì in Foe risulta perciò, a tutti gli effetti, un’efficace rappresentazione dell’irrappresentabile, di quel margine che delimita il luogo del subalterno, ossia di colui che, secondo una celebre definizione di Gayatri Spivak, « è necessariamente il limite assoluto del luogo in cui la storia viene trasformata in un racconto ubbidiente ai dettami della logica »65. Insomma, lo spazio segnato dal silenzio del subalterno, è quello spazio che non può accedere a, che è escluso da e intraducibile negli ordinamenti discorsivi e nei codici culturali in cui si costruiscono il discorso egemonico ed il canone letterario, ossia quei criteri storicamente e culturalmente fondati su cui si articola una determinata rappresentazione del “reale”, una rete di linguaggi specifici e, tra questi, il linguaggio letterario.

Quando Susan Barton, verso la fine della terza parte del racconto di Coetzee, afferma, in un gesto quasi disperato, che nonostante tutto – nonostante i tragici limiti della nostra capacità di rappresentarci e di costruire un senso dell'esistere – « we are all substantial, we are all in the same world », Foe, con apparente e freddo distacco le fa notare in modo perentorio: « You have omitted Friday ». Quest’omissione è il segno del limite assoluto del discorso etnocentrico del colonialismo e dell’imperialismo, ed al tempo stesso rivela quel “vuoto al centro” che ne mina l’impalcatura stessa alle fondamenta, un tempo discontinuo e disomogeneo che non ubbidisce ai dettami della logica, un’alterità assoluta che non può essere rappresentata. La critica postcoloniale Rey Chow, in un saggio significativamente intitolato Dove sono finiti tutti i nativi?, enuncia in termini lampanti questa problematica:

Quando contestiamo un discorso dominante facendo “risorgere” la voce/il sé immolato del nativo con le nostre letture [...] entriamo, troppo in fretta, nel luogo altrimenti silenzioso e invisibile del nativo e ci trasformiamo per lui o

65 Gayatri Chakravorty Spivak, « Subaltern studies: decostruire la storiografia » in R. Guha e G.C. Spivak,

Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, Verona, Ombre Corte, 2002, p. 120; Cfr. anche Id., « Can the

Subaltern Speak? », in C. Nelson, L. Grossberg, a cura, Marxism and the Interpretation of Culture, Urbana, University of Illinois Press, 1988, ora in Critica della ragione postcoloniale, cit. Ci soffermeremo ampiamente sul concetto di subalterno e sulle sue implicazioni nella rappresentazione letteraria, in particolare nel capitolo VI. Il concetto di “subalterno” è stato ripreso, nel contesto dei Subaltern Studies in India e poi in America Latina, da Gramsci, il quale lo utilizza nei Quaderni del carcere, in particolare nel Quaderno 25 (1934), dal titolo: « Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni ». Molto sinteticamente, la definizione di “subalterno” in Gramsci è prevalentemente di tipo sottrattivo: appartengono ai gruppi sociali subalterni tutti coloro che non riescono ad articolare un’egemonia e che, per questo, sono sottomessi a meccanismi di coercizione e di consenso da parte delle classi sociali dominanti. Le operazioni politico-culturali dell’egemonia tendono a nascondere, a sopprimere, a cancellare o emarginare la storia dei subalterni, pertanto, come afferma Ranajit Guha, « la subalternità non può essere capita se non come uno dei due poli che costituiscono un rapporto bipolare, nel quale l’altro polo è la dominazione ».

per lei in agenti/testimoni viventi. Questo processo nel quale noi diventiamo visibili, neutralizza anche l’intraducibilità dell’esperienza del nativo e la storia di quella intraducibilità. L’affrettato rifornimento di “contesti” originali e di “specificità” diventa facilmente complice del discorso dominante, che raggiunge l’egemonia proprio con la sua capacità di trasformare, ricodificare, rendere trasparente e in questo modo rappresentare persino quelle esperienze che gli resistono con un’ostinata opacità.66

Quello che risulta davvero importante sottolineare, prima di proseguire il nostro percorso, è che questo “nocciolo di silenzio”, questa intraducibilità che risulta collegata, in modo ambivalente come vedremo, al soggetto postcoloniale, non è un territorio oscuro e di mistero, un “cuore di tenebra” ancestrale, cui l’uomo bianco vorrebbe, ma non può, accedere. Una simile visione – propria ad un’estetica romantica ed esotica che sottende ancora un’ontologia essenzialista – ci ricondurrebbe direttamente all’interno di quegli ordini discorsivi, di quel canone che il discorso postcoloniale spinge così radicalmente a decostruire. In questo modo, rafforzando ancora una volta la nostra autorità, l’altro troverebbe il suo luogo, come negazione, all’interno di una struttura dialettica costruita autoritariamente da noi. Questo silenzio, insomma, non è un nucleo originario, bensì un prodotto di quelle stesse narrative canonizzate che costruiscono il discorso dominante del soggetto autocentrato ed autonomo dell’Occidente imperialista. La canonizzazione, la costruzione di un discorso egemonico, si attua, come vedremo, attraverso un processo ambivalente di “inclusione escludente”, che funziona, almeno in parte, come un dispositivo immunitario67, in cui la voce che l’autor assegna ad alcuni soggetti può essere udita solo in virtù del silenzio che impone ad altri. Questo silenziamento (“silencing”) dell’altro avviene sia attraverso l'esclusione che attraverso l’inclusione, con un gesto ambivalente, che funziona come una sorta di phàrmakon (al tempo stesso veleno e medicina), per cui ogni voce che possiamo udire viene purgata, per il fatto stesso di essere rappresentata in un ordine discorsivo, della sua unicità, opacità ed alterità.

Prima di affrontare queste complesse problematiche che, come appare già chiaramente, intrecciano questioni meramente teoriche ed epistemologiche alle forme ed ai linguaggi della rappresentazione letteraria, cercheremo di rintracciare, in termini essenziali ed in guisa di

66 Rey Chow,« Dove sono finiti tutti i nativi? », in Il sogno di Butterfly. Costellazioni postcoloniali, a cura di

Patrizia Calefato, Roma, Meltemi, 2004, p. 36.

67 Si veda Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002 e J. Derrida, «

La pharmacie de Platon », in La Dissémination, Paris, Seuil, 1972 ; trad. it., La disseminazione, Milano, Jaca Book, 1989. Cfr. anche Alessandro Corio e Andrea Ponso, « “Auto-co-immunità” o la paradossale purezza dell'impuro. Intervista a Roberto Esposito », in Trickster n. 4 (2007), Il contagio, http://trickster.lettere.unipd.it .

introduzione, le radici di un dibattito teorico estremamente articolato, diversificato e disseminato, che va sotto il nome di critica postcoloniale. Cominceremo, quindi, focalizzando la nostra attenzione su quel turbamento, su quel « senso di disorientamento nella direzione da prendere », descritto così efficacemente da Homi Bhabha nel brano riportato in esergo a questo paragrafo. Egli utilizza il termine inglese unhomeliness – traducibile come “estraneità al domestico”68 – per descrivere questa situazione di dépaysement 69 tipica, per identificare una figura paradigmatica del nostro presente, del migrante. Salman Rushdie ha parlato del migrante in termini di “individuo tradotto”: una vivente metafora, una figura dell’attraversamento, presa in una continua elaborazione di nuove strategie del sé, di nuove articolazioni performative di una soggettività situata necessariamente lungo spazi “inter- medi”70, lungo i margini, i confini, le soglie sempre più porose che delimitano i luoghi ancestrali delle identità, di quelle « soggettività originarie e aurorali », che tanta parte hanno giocato nei tracciati storici ed ideologici della modernità occidentale:

Teoricamente innovativo, e politicamente essenziale, è il bisogno di pensare al di là delle tradizionali narrazioni relative a soggettività originarie e aurorali, focalizzandosi invece su quei momenti o processi che si producono negli interstizi, nell’articolarsi delle differenze culturali. Questi spazi “inter- medi” costituiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé – come singoli o gruppo – che danno il via a nuovi segni di identità e luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell'atto stesso in cui si definisce l'idea di società.71

Questa attenzione del critico nei confronti di nuove forme performative e dialogiche di costruzione delle soggettività e delle identità culturali, rivela anche un mutamento fondamentale nelle forme e nei contenuti di quella che, sin dalla celebre espressione coniata da Goethe – la Weltliteratur72 – si è definita letteratura mondiale o, più recentemente per

68 La traduttrice italiana di Bhabha sottolinea come la scelta di questo termine designi « la fine di quel senso di

appartenenza relativo a ciò che è homely, “familiare”, come le mura della propria abitazione », in Homi K. Bhabha, The Location of Culture, London, Routledge,1994; trad. it., I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, p. 22.

69 Cfr. Tzvetan Todorov, L’homme depaysé, Paris, Seuil, 1996; trad. it.: L’uomo spaesato. I percorsi

dell’appartenenza, Roma, Donzelli, 1996.

70 Il termine “inter-medio” traduce in-between, che assume in Bhabha un’accezzione particolare, non indicando

solamente uno spazio ubicato tra due o più luoghi egemoni, bensì una « istanza di “mediazione” (-medio) che risolve il gioco delle differenze attraverso una strategia oppositiva in grado di trascenderle », Bhabha, op. cit., p. 12.

71 Ibid., p. 12.

72 Si veda anche Franco Moretti,

Opere Mondo. Saggio sulla forma epica dal “Faust” a “Cent’anni di solitudine”, Torino, Einaudi, 1994.

quanto riguarda il dibattito “francofono”, littérature-monde73. Mentre all’epoca di Goethe, e poi per buona parte del XX secolo, questa espressione ha mantenuto una solida connotazione eurocentrica, indicando sostanzialmente un approccio comparatistico alle letterature nazionali europee, esso va assumendo oggi una valenza fortemente decentrata e transculturale:

Lo studio della letteratura mondiale potrebbe essere lo studio del modo in cui le culture si riconoscono attraverso le loro proiezioni di “alterità”. Se un tempo la trasmissione delle tradizioni nazionali era la tematica principale di una letteratura mondiale, oggi forse possiamo ipotizzare che le storie transnazionali di migranti, colonizzati e rifugiati politici – queste condizioni marginali e di frontiera – siano il terreno della letteratura mondiale.74

Homi Bhabha descrive questa condizione antropologica, caratterizzata da « bizzarri spostamenti socioculturali », in un capitolo introduttivo de I luoghi della cultura, significativamente intitolato « Unhomely Lives: The Literature of Recognition ». « Vite non domestiche », quindi, sono quelle esistenze caratterizzate dalla perdita del confine che, normalmente, separa lo spazio privato dallo spazio pubblico, cancellazione che produce un senso di ansietà e di turbamento: « I recessi dello spazio domestico diventano mete delle più contorte invasioni della storia » ed « in questo dislocarsi i confini tra casa e mondo si confondono e, misteriosamente, il privato e il pubblico diventano ognuno parte dell’altro, inducendoci a uno sguardo tanto diviso quanto disorientato »75. Non a caso, il critico indiano fa riferimento al celebre concetto freudiano di Unheimlich (il “perturbante”, ciò che letteralmente “non ha patria”, ciò che è stato represso dalla sfera psichica conscia e che « dovrebbe restare [...] segreto e nascosto e che è invece affiorato »76). Il perturbante è dunque, secondo Freud, il ritorno del rimosso: « […] il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è famigliare »; « […] è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato »; « […] trae origine da qualcosa di familiare che è stato rimosso »77.

Questa condizione di profondo e tragico turbamento per il riaffiorare, nello spazio domestico e privato, di una dimensione collettiva e terribile della storia, è rappresentato nel

73 Michel LeBris et Jean Rouaud (sous la direction de), Pour une littérature-monde, Paris, Gallimard, 2007. 74 Bhabha, op. cit., p. 26.

75 Ibid., p. 22.

76 Sigmund Freud, Das Unheimliche, pubblicato per la prima volta in “Imago”, 5; Standard Edition vol. IX,

1955, The uncanny, London, Hogarth; trad. it. 1977, Il perturbante, in Opere, Torino, Bollati Boringhieri, vol. IX.

romanzo della scrittrice afro-americana Toni Morrison, Beloved78, dove la scrittura lascia emergere, nella forma di un fantasma “troppo umano” che ritorna nella vita della protagonista Sethe e delle donne che abitano il 124 di Bluestone Road, l’indecifrabile linguaggio della morte nera e rabbiosa, i « pensieri inesprimibili e inespressi »79 di un trauma storico collettivo, quello della schiavitù, che ha trovato nell’infanticidio una delle sue espressioni estreme di disperazione e di rivolta. Come afferma la voce narrante, il ricordo dell’infanticidio compiuto da Sethe emerge attraverso « le eventuali lacune – le cose che i fuggiaschi non dicevano, le domande che non facevano [...] la gente non nominata, non menzionata »80 e questo momento di estraneità al domestico « riconduce le ambivalenze

traumatiche di una storia personale, psichica alle più ampie scissioni dell’esistenza politica »81. Viene a crearsi, così, un’intimità interstiziale, uno spazio inter-medio tra privato e pubblico, psichico e collettivo, passato e presente, che caratterizza gran parte della produzione letteraria postcoloniale e che, sempre secondo Bhabha, rende evidente la responsabilità politica dello scrittore e del critico di « dar conto in modo esaustivo, […] dei passati non nominati e non rappresentati che infestano il presente storico »82, proprio nel momento in cui, paradossalmente, le tracce di questo passato sono ormai cancellate ed esso risulta inattingibile al tempo umano:

Ora ogni traccia è scomparsa e ciò che è stato dimenticato non sono solo le impronte, ma anche l'acqua e quello che c’è la sotto. Il resto è atmosfera. Non l’alito di chi è dimenticata e inspiegata, ma il vento nei grondoni, o il ghiaccio che in primavera si scioglie troppo in fretta. Solo atmosfera.83

Questa dimensione della scrittura, tanto nelle sue modalità teorico-critiche che in quelle più propriamente letterarie e narrative, è ben presente, per quanto in forme complesse e differenziate, nelle letterature caraibiche, che saranno oggetto della nostra indagine. La condizione di “estraneità al domestico” si produce, infatti, quando gli individui e le comunità vedono sgretolarsi i confini tradizionali, stabili ed omogenei, che caratterizzavano la percezione condivisa delle loro identità e dei loro modi di vita. Édouard Glissant, uno dei maggiorni scrittori dell’arcipelago caraibico, teorico della creolizzazione e della Relazione, ha

78 Toni Morrison, Beloved, London, Chatto & Windus, 1987; trad. it. Amatissima, Piacenza, Frassinelli, 1988. 79 Ibid., p. 279.

80 Ibid., p. 129. Cfr. anche Id., « Unspeakable things unspoken », in Michigan Quaterly Review, vol. 28,1 (winter

1989).

81 Bhabha, op. cit., p. 24. 82 Ibid., p. 26.

rappresentato ed analizzato questa condizione attraverso tutta la sua produzione narrativa, poetica e teorica. Glissant sostiene ad esempio, fin da Le discours antillais84, che il Martinicano o l’Antillese non si sente mai « chez soi », nemmeno quando si trova nel suo luogo natale.85 Glissant ha utilizzato, per descrivere questa condizione di spaesamento esistenziale ed antropologico, la parola errance, una condizione complessa e spesso dolorosa, come vedremo, che non può essere ridotta né al concetto moderno ed illuminista di cosmopolitismo, né tantomeno all’esaltazione postmoderna del nomadismo, come ebbrezza di un movimento globale su uno spazio liscio e senza più confini. Come in Bhabha, insomma, anche in Glissant l’erranza porta con sé un carico di ansietà e di turbamento, connessi sia col trauma di un passato storico represso – il trauma della deportazione e della schiavitù, che non ha trovato una voce né una rappresentazione collettivamente condivise – sia con l'esperienza dislocata e transculturale del presente e dello spazio pubblico ibrido che ne deriva.

Celia Britton, in un suo saggio su Glissant e la critica postcoloniale86, sottolinea correttamente come Bhabha prenda in considerazione solo un aspetto della duplice definizione di “perturbante” proposta da Freud, ossia la sua dimensione temporale, che si presta meglio ad essere tradotta dal piano individuale, proprio della psicoanalisi freudiana, a quello collettivo della critica postcoloniale. L’elemento posto in secondo piano da Bhabha risulta tuttavia essenziale per comprendere il concetto di Unheimlich, trattandosi della paradossale compresenza nel suo significato del “familiare” e del “segreto”. Secondo Freud, infatti, risulta perturbante proprio qualcosa che un tempo era familiare e prossimo, ma che è stato represso e che ritorna dunque nella vita psichica come ignoto e segreto. Il perturbante è, quindi, spaventoso non perché ignoto, ma proprio perché al tempo stesso si rivela strano e “segretamente familiare”87. Questa dimensione del “segretamente familiare” è ben presente,

84 Édouard Glissant, Le discours antillais, Paris, Éditions du Seuil, 1981.

85 « Il n’y a ni possession de la terre, ni complicité avec la terre, ni espoir en la terre. La prodigalité (ou

l’apparente insouciance) dont semblaient faire preuve les Martiniquais relève de ce sentiment obscur d’être littéralement de passage sur leur terre », ibid., p. 149.

86 Celia Britton, Édouard Glissant and Postcolonial Theory: Strategies of Language and Resistance,

Charlottesville: University of Virginia Press, 1999; cfr. anche Id., Race and the unconscious: freudianism in

French Caribbean thought, Oxford, Legenda, 2002.

87 « Recuperando anche il secondo significato di heimlich, che rinvia a ciò che è nascosto o segreto, Freud

afferma che quando ciò che doveva rimanere nascosto e segreto (heimlich) è invece affiorato (Un-heimlich), il proprio mondo interiore subisce una scossa, e ciò che prima era familiare sorge insolito: “questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, ma è invece un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi e a essa estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione. Il rapporto con la rimozione ci chiarisce ora anche la definizione di Shelling, secondo la quale il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato” (Freud 1919, p. 102) »; da “Perturbante”, in Umberto Galimberti (a cura di), Dizionario di psicologia, Torino, UTET, 2006, p. 681.

come vedremo nella seconda e nella terza parte di questo lavoro, nella narrativa di Glissant e si connette con le tematiche dell’alienazione culturale, della « dépossession », della follia e del « délir verbal », analizzate soprattutto nella produzione teorica degli anni ‘70, confluita poi ne Le discours antillais (1981) e nei romanzi dello stesso periodo, in particolare Malemort (1975) e La case du commandeur (1981).

Dato il carattere introduttivo di questi capitoli iniziali e prima di tracciare una sommaria genealogia teorica dei concetti e delle problematiche che svilupperemo in questa ricerca, ci soffermeremo, per ora, sul capitolo iniziale di un romanzo successivo di Glissant, Tout-monde (1993), dove il tema dell’erranza, dell’estraneità al domestico e della Relazione trovano una complessa ed articolata rappresentazione, sufficientemente esplicativa di quella dimensione post/coloniale che intendiamo analizzare. Il primo capitolo di Tout-monde che, per il momento, continuiamo a definire, con un termine palesemente inadeguato, un “romanzo”, si intitola Banians, “Baniani”. Si tratta di alberi maestosi con radici aeree, che raggiungono dimensioni enormi, diffusi nelle regioni tropicali e nell’arcipelago caraibico. La vicenda si svolge, però, in un luogo dove questi alberi non crescono. E’ un luogo a noi più famigliare, dove crescono le agavi, che ritroviamo nei versi di Eugenio Montale, vertiginosamente aggrappate alle scogliere che si gettano a picco nel mare della Liguria, in un piccolo paesino delle Cinque Terre a nord di La Spezia, Vernazza, anch’esso aggrappato ad un’insenatura

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