Kymlicka torna ad affrontare la questione di fondo, ovvero il dibattito sulla possibile erosione della solidarietà nazionale (in ambito liberale, afferma l'autore, si preferisce parlare di “cittadinanza”) da parte delle politiche rivolte in modo speciale ai gruppi minoritari, quando ammette che “la solidarietà essenziale per uno stato sociale richiede ai cittadini un forte senso di identità e appartenenza comune, così che siano disposti a sacrificarsi l'uno per l'altro”107. Egli
riconosce che “c'è ampia evidenza in tutto il mondo che le differenze nell'identità etnica e nazionale possano, se enfatizzate e politicizzate, formare una barriera verso una solidarietà più ampia”108. Questo è tanto più vero nel campo dell'assistenza sociale, per via dell'urgenza dei
bisogni in gioco e della vulnerabilità delle persone coinvolte.
La controversia redistribuzione-riconoscimento è particolarmente accesa nel dibattito sociopolitico interno alle cosiddette democrazie occidentali in quanto riguarda la progettazione e applicazione delle politiche sociali all'interno di società dalla crescente compositezza etnica e culturale, e che annoverano tra i fruitori del sistema di welfare quote consistenti di immigrati stranieri.
Nell'introduzione al volume Multiculturalism and the welfare state. Recognition and
redistribution in contemporary democracies109, Keith Banting e Will Kymlicka prendono in
esame la minaccia percepita nei confronti dei sistemi di welfare rappresentata dalla diversità culturale e dalle politiche multiculturaliste (MCPs). Il dilemma che cercano di analizzare è quello che vede confrontarsi i detrattori delle MCPs, i quali sostengono che le politiche a favore del multiculturalismo erodono lo stato sociale, e i loro sostenitori, che sconfessano questa ipotesi.
107 Ivi, p. 77.
108 Ivi, p. 173. John Rawls arriva ad affermare che le rivendicazioni avanzate sulla base dell'appartenenza a un
gruppo sociale o etnico siano incompatibili con l'idea stessa di cittadinanza (Rawls John, The domain of the
political and overlapping consensus, in “New York University Law Review”, 64/2, 1989, cit. in Kymlicka Will, Multicultural citizenship, cit., p. 174).
109 Banting Keith, Kymlycka Will (a cura di), Multiculturalism and the welfare state: recognition and redistribution
Gli autori affermano che negli ultimi trent'anni si è verificato un cambiamento radicale nelle modalità in cui molte democrazie occidentali hanno affrontato il crescente aumento dell'eterogeneità culturale, muovendo progressivamente da un approccio assimilatorio e marginalizzante ad una prospettiva di accoglimento e valorizzazione delle diversità. Le MCPs hanno in comune il fatto di “andare oltre la protezione dei diritti civili e politici garantiti a ogni individuo” per “estenderli anche a un certo livello di riconoscimento pubblico e supporto per le minoranze etnoculturali, al fine di mantenere ed esprimere le loro identità e pratiche distintive”110.
La discussione in merito ricalca ancora una volta la diatriba liberals-communitarians. In ambito filosofico, i critici delle politiche multiculturaliste sostengono che queste contraddicono i principi di libertà individuale, in quanto privilegiano i “diritti di gruppo” rispetto ai diritti individuali, e i principi di eguaglianza, dal momento che creano differenze di trattamento degli individui sulla base della razza o dell'appartenenza etnica. I difensori delle MCPs obiettano che, al contrario, queste politiche promuovono i diritti individuali e l'eguaglianza, rimuovendo le barriere razziali ed etniche che limitano le possibilità di scelta di alcuni gruppi di persone.
Dalla prospettiva delle scienze sociali, i critici delle MPCs puntano il dito sui possibili, inattesi effetti delle politiche multiculturaliste, accusate di indebolire lo stato sociale. Una delle accuse è quella di “rallentare l'incorporazione delle minoranze etniche nel flusso economico e sociale”111, promuovendone l'isolamento e la segregazione, fino talvolta a creare
involontariamente spazi per l'operato di movimenti religiosi e politici di stampo estremista. Kymlicka e Banting distinguono tra l'ipotesi che sia l'eterogeneità etnica112 in sé a
ostacolare le politiche redistributive, e quella che il conflitto sia tra politiche di riconoscimento e di redistribuzione. La seconda ipotesi, chiamata dagli autori “recognition/redistribution trade-off
hypothesis”, che potremmo tradurre con “ipotesi della compensazione tra riconoscimento e
redistribuzione”, postula che l'approccio multiculturale alla diversità, adottato da molte democrazie occidentali in luogo delle azioni che tendono a ignorare o eliminare le differenze, acuisca i problemi causati dalla presenza delle differenze stesse. Posto che la migrazione verso i Paesi cosiddetti occidentali non sembra per il momento accennare a rallentare, e che il tasso di 110 Banting Keith, Kymlycka Will, Introduction. Multiculturalism and the welfare state: setting the context, in (a
cura di), in Banting Keith, Kymlycka Will, Multiculturalism and the welfare state: recognition and
redistribution in contemporary democracies, cit., p. 1.
111 Ivi, p. 2.
112 Gli autori usano la formula “ethnic/racial diversity”. Si è scelto di omettere il termine “razziale” in quanto non
più in uso in ambito europeo (si veda ancora la nota 42). Si pone però il problema dell'ambiguità semantica del termine “cultura”, quando utilizzato in un'accezione che, per staticità, rigidità e trasmissibilità, sembra aver sostituito in alcuni discorsi il termine “razza”.
natalità delle persone immigrate è in media superiore a quello dei cittadini autoctoni, assumere come vera l'ipotesi che le politiche multiculturaliste erodano lo stato sociale renderebbe l'espressione “stato sociale multiculturale” una contraddizione in termini. Lo stato redistributivo ha subito negli ultimi decenni una notevole pressione da parte di un gran numero di cambiamenti economici che gli autori attribuiscono alla globalizzazione, ai mutamenti tecnologici, alle tendenze demografiche, all'invecchiamento della popolazione e alla deriva delle ideologie. Il timore che le sfide lanciate dalla diversità etnica e la risposta multiculturale possano rendere la situazione ancora più problematica è stato denominato “il dilemma del progressista”113. Le forze
politiche socialdemocratiche, tradizionalmente non nazionaliste e guidate da un senso di solidarietà internazionale che impedisce loro di opporsi ai flussi migratori e di proporre politiche di gestione assimilatorie, si troverebbero a dover fronteggiare il conflitto tra le idee multiculturaliste e il rischio che la difesa delle categorie economicamente svantaggiate, di cui tali forze politiche sono i naturali paladini, sia da quelle compromessa.
Kymlicka e Banting si propongono proprio di valutare se il “dilemma del progressista” sia fondato su basi reali, ovvero se “il perseguimento della giustizia sociale per le minoranze etnoculturali attraverso le politiche multiculturaliste stia, inintenzionalmente, indebolendo la capacità della società di perseguire l'aspetto più tradizionale della giustizia sociale relativo all'ineguaglianza e allo svantaggio economico”114. In altre parole, se le emergenti politiche di
riconoscimento sottraggano inevitabilmente spazio alle tradizionali politiche di redistribuzione. Gli autori prendono in esame i diversi meccanismi secondo cui le politiche di riconoscimento confliggerebbero con le politiche di redistribuzione. Il primo è da essi chiamato “crowding-out effect”, che potremmo tradurre con “effetto di esclusione”: secondo i fautori di questo argomento, “le MCPs indeboliscono i movimenti redistributivi deviando tempo, energia e denaro dalla redistribuzione al riconoscimento. Le persone che sarebbero coinvolte attivamente nella promozione della redistribuzione economica impiegano invece il loro tempo a favore di istanze multiculturaliste”115. Il riferimento è specificamente all'attivismo civile, ma lo stesso
ragionamento può essere applicato alle istituzioni pubbliche: dal momento che gli stanziamenti a disposizione per le politiche redistributive sono limitati, e che le politiche di riconoscimento sono talvolta in carico ai medesimi servizi che si occupano di quelle, sembrerebbe evidente che 113 Goodhart David, Too diverse?, in “Prospect Magazine”, febbraio 2004; Pearce Nick, Diversity versus solidarity:
a new progressive dilemma, in “Renewal: a journal of labour politics”, 12(3), 2004.
114 Banting Keith, Kymlycka Will, Introduction. Multiculturalism and the welfare state: setting the context, cit., p.
10.
le risorse impegnate nelle seconde siano inevitabilmente sottratte alle prime. È la radicata convinzione, come si mostrerà, delle persone utenti dei servizi socioassistenziali che vedono in alcuni gruppi assistiti, a cui sono o diventano ostili, dei pericolosi competitori.
Banting e Kymlicka obiettano che le affermazioni di cui sopra partono dall'assunto che esista un numero stabilito di persone disposte a investire tempo e risorse in istanze di giustizia sociale, e che queste persone debbano scegliere se impegnarsi in azioni a favore del riconoscimento o della redistribuzione. In realtà, è generalmente diffuso un sentimento di sfiducia nella capacità della società civile di ottenere cambiamenti significativi nella struttura socioeconomica116, e l'impegno a favore delle istanze multiculturaliste potrebbe avere, in certi
casi, rinvigorito e dato nuovo slancio alla mobilitazione dal basso. Si può parlare in realtà di una costellazione di valori progressisti, in cui le istanze tradizionali di equità sociale ed economica si accompagnano alla valorizzazione delle diversità e al desiderio di creare ponti tra diversi gruppi etnici117. La condivisione di valori comuni crea inoltre le basi per una messa in rete tra
organizzazioni differenti, e la collaborazione in vista di obiettivi comuni. Allo stesso modo, le istituzioni pubbliche potrebbero, disponendo di valori-guida solidi e di risorse umane competenti, progettare politiche di intervento che combinino istanze multiculturaliste e solidariste capaci di moltiplicare gli effetti positivi innescando circoli virtuosi.
La seconda argomentazione, denominata dagli autori “effetto di corrosione” (“corroding
effect”), postula che “le MCPs indeboliscono la redistribuzione erodendo la fiducia e la
solidarietà tra i cittadini, e dunque erodendo il supporto popolare alla redistribuzione […] enfatizzando le differenze tra i cittadini, piuttosto che ciò che li accomuna”118. Il supporto allo
stato sociale dei cittadini in condizione di vantaggio sarebbe permesso dal fatto che questi vedono comunque in qualche modo i cittadini svantaggiati, destinatari delle politiche redistributive, come membri del proprio gruppo identitario. Le politiche multiculturaliste, 116 In Italia, dopo che negli anni '90 si era registrata una crescita vertiginosa di forme di associazionismo “dal basso”
sui temi della giustizia sociale, della pace e della solidarietà internazionale, i primi anni del 2000 hanno visto un progressivo ripiegamento su azioni locali e meno visibili a livello di opinione pubblica: lo spartiacque è individuabile nei tragici giorni del G8 di Genova (2001), quando la violenza di Stato e la mistificazione operata dagli organi di stampa si abbatterono sui movimenti pacifisti e sull'entusiasmo che li sosteneva. Si vedano in proposito le seguenti opere di Lorenzo Guadagnucci, giornalista e testimone dei tragici avvenimenti della scuola Diaz: Distratti dalla libertà. Napoli, Genova, Cosenza, Milano. E se accadesse di nuovo?, Milano, Terre di Mezzo, 2003; La seduzione autoritaria. Diritti civili e repressione del dissenso in Italia,Civezzano (TN), Nonluoghi libere edizioni, 2005; Noi della Diaz. La «notte dei manganelli» al G8 di Genova. Una democrazia
umiliata. Tutte le verità sui processi, Milano, Terre di Mezzo, 2008; Vittorio Agnoletto, Lorenzo Guadagnucci. L'eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova, Milano, Feltrinelli, 2011.
117 Sulla costruzione di ponti come metafora della realizzazione di connessioni tra culture diverse, si veda Langer
Alexander, La scelta della convivenza, Roma, Edizioni e/o, 1995.
118 Banting Keith, Kymlycka Will, Introduction. Multiculturalism and the welfare state: setting the context, cit., p.
dividendo la società in gruppi identitariamente separati, renderebbero i cittadini meno propensi a condividere le risorse con chi non viene riconosciuto come “uno di loro”. Inoltre, favorendo la frammentazione delle masse svantaggiate in gruppi caratterizzati da rivendicazioni differenti, ostacolerebbero la formazione di coalizioni inter-etniche finalizzate a politiche redistributive più generali. È facilmente osservabile, ed è emerso anche durante la presente ricerca, come gli utenti “autoctoni” dei servizi sociali provino risentimento e ostilità nei confronti degli utenti immigrati – e massimamente nei confronti delle comunità rom immigrate – vedendo in essi dei competitori per le (scarse) risorse pubbliche destinate alla redistribuzione del reddito tramite sussidi ed erogazioni in favore delle persone in situazione di difficoltà economica; l'ostilità è ancora maggiore nei confronti degli stanziamenti di fondi destinati a particolari gruppi etnici, come per esempio quelli previsti per la Sardegna dalla Legge Regionale n. 9/1988 (“Tutela dell'etnia e della cultura dei nomadi”)119.
Una particolare attenzione è posta nei confronti delle politiche educative multiculturaliste: Barry120 le distingue in due categorie, una che comprende percorsi scolastici
comuni i quali includono informazioni sui gruppi che coesistono sul territorio nazionale, la seconda che prevede la creazione di scuole o classi separate sulla base dell'appartenenza etnica, con curricula differenziati. Quest'ultima scelta sarebbe particolarmente dannosa per la formazione di fiducia e solidarietà interetniche.
Kymlicka e Banting controbattono alle affermazioni sopra riportate notando che queste poggiano sull'idea che prima dell'adozione delle MCPs fosse possibile riscontrare livelli elevati di fiducia e solidarietà interetniche, soggette a diminuire a seguito dell'adozione di politiche multiculturaliste. Sottolineano quindi che queste ultime non sono la causa di, ma la risposta alla carenza di coesione interetnica. La paura delle minoranze etniche da parte dei gruppi dominanti ha storicamente dato impulso ad azioni volte ad assimilarle, escluderle, sfruttarle o togliere loro potere (“disempower them”), e di conseguenza le minoranze hanno reagito maturando sfiducia e risentimento nei confronti dei gruppi dominanti. È una descrizione calzante dei processi circolari che hanno in parte caratterizzato la storia dei rapporti tra i gruppi rom e i popoli europei che hanno incontrato nel loro percorso attraverso l'Europa, e che ha riprodotto nel tempo la separazione tra i “granelli di polvere”121 rom dispersi sul territorio europeo e le comunità
119 La L.R. 9/88 sarà citata molte volte in questo lavoro. Per una sua sintetica trattazione, si veda il par. 2.2. Il testo
integrale è riportato in Appendice.
120 Barry Brian, Culture and equality: an egalitarian critique of nulticulturalism, Cambridge, Polity press, 2001. 121 L'interazione tra i gruppi rom e le comunità autoctone europee, a partire dal XIV secolo, ha generato da una parte
strategie volte al controllo, all'assimilazione o all'espulsione dei nuovi arrivati, dall'altra strategie di resistenza e adattamento che hanno portato alla dispersione dei gruppi in una configurazione “a polvere”, i cui granelli,
circostanti.
Si può affermare dunque che le politiche miranti a riconoscere e valorizzare le differenze etniche possono, a seconda del contesto sociale esistente, della storia delle relazioni tra i gruppi e delle scelte strategiche effettuate, agire nel senso di marcare le distanze e i confini identitari o al contrario seminare fiducia e collaborazione tra i gruppi minoritari e tra essi e i gruppi dominanti.
Ancora, la terza argomentazione (“misdiagnosis effect”, traducibile con “effetto della maladiagnosi”) suggerisce che le MCPs portino ad una errata comprensione dei problemi che le minoranze devono affrontare, riportandoli tendenzialmente alla sfera culturale anche dove le problematiche possono avere origine differente. Appiah122 fece notare che, negli Stati Uniti, “non
è la cultura dei neri che i razzisti disdegnano, ma i neri”, per cui valorizzare la tradizione culturale afroamericana, tramite la celebrazione di Kwanzaa nelle scuole o l'istituzione del “Martin Luther King day” come festa nazionale, non avrebbe avuto effetto sulla repulsione provata nei confronti delle persone afroamericane. Analogamente, ci si potrebbe chiedere se i sentimenti di repulsione nei confronti delle persone rom potrebbero essere contrastati attraverso la diffusione di narrazioni facenti riferimento a un'affascinante “storia del popolo rom”.
Ma soprattutto, i sostenitori delle teorie del “misdiagnosis effect” riportano l'attenzione sul conflitto filosofico e sociale descritto da Nancy Fraser, ritenendo che concentrarsi sulle differenze etniche e razziali sposti l'attenzione dalla dimensione di classe, e in questo modo renda meno probabile l'alleanza tra diversi gruppi etnici appartenenti alla medesima classe sociale. Da questo punto di vista, il vero problema non è il misconoscimento, ma la marginalizzazione economica123, e la soluzione sta nel favorire l'integrazione delle persone
immigrate nel mondo del lavoro e della formazione, piuttosto che favorire una maggior visibilità per il loro patrimonio culturale.
In realtà, come fanno notare Kymlicka e Banting, non sempre il bisogno di maggior riconoscimento del valore delle proprie peculiarità culturali mette in ombra situazioni di svantaggio materiale, come dimostrano gli esempi delle comunità ebraiche negli USA o dei catalani e dei québécois in Spagna e Canada. Ancora una volta, inoltre, gli autori obiettano che ritenere le MCPs una minaccia per l'attenzione agli aspetti “pratici” della diseguaglianza sociale
formati da famiglie allargate o gruppi di famiglie, erano e sono variamente interconnessi tramite reti di parentela. Nei secoli, l'intrecciarsi di queste strategie ha mantenuto una generale separazione tra la galassia dei mondi rom - in cui le persone non rom hanno incluso comunità nomadi autoctone anch'esse considerate “zingare” per stile di vita - e l'universo delle persone non rom. Si veda a proposito Piasere Leonardo, I rom d'Europa, cit.
122 Appiah Antony K., The multicultural misunderstanding, “New York review of books”, 44(15), 1997. 123 Cfr. su questo tema Wieviorka Michel, La differenza culturale, cit.
presume che “il senso di giustizia della gente sia a somma zero”124. Non è pacifico che prestare
attenzione alle componenti culturali e simboliche della diseguaglianza ostacoli la comprensione dei fattori socioeconomici, anzi, spesso le persone sensibili e informate sulle realtà etniche e culturali lo sono anche sulle questioni economiche e sociali che concernono i gruppi oggetto della loro attenzione.
Le teorie marxiste si fondavano sull'idea che l'ineguaglianza di classe fosse alla base di tutte le ingiustizie, e che tutte le forme di diseguaglianza fossero epifenomeni di essa, suscettibili di essere abbattute con l'abbattimento delle differenze di classe. Quello che si rimprovera ai sostenitori del multiculturalismo è una visione simmetrica e rovesciata della realtà, in base alla quale tutte le diseguaglianze, comprese quelle socioeconomiche, deriverebbero dalle differenze culturali. In realtà, essi contestano la stessa idea di una monocausalità dei processi storici, così come sottolineano l'estrema variabilità dell'importanza relativa dei fattori etnici, di classe e culturali nella determinazione delle diseguaglianze all'interno dei diversi sistemi sociali, nonché il loro alto grado di sovrapposizione.
Nel discutere le argomentazioni sopra descritte, Kymlicka e Banting sottolineano in primo luogo come queste sembrino essere avvalorate dalla constatazione che, indiscutibilmente, l'avanzata delle politiche multiculturaliste abbia largamente coinciso con una tendenza al ridimensionamento di molti programmi sociali. La questione è se i due fenomeni siano realmente correlati, o non rappresentino piuttosto aspetti differenti, ma scarsamente interrelati, dell'evoluzione della situazione internazionale. La revisione del corpus di ricerche disponibili sulle relazioni tra politiche del riconoscimento e della redistribuzione, tra politiche multiculturaliste e stato sociale, portano gli autori a sostenere che non esiste una conferma empirica che gli obiettivi redistributivi propri del welfare state subiscano gli effetti corrosivi delle politiche multiculturaliste messe in atto per favorire il riconoscimento delle differenze culturali. Sembra piuttosto che siano le modalità con cui queste vengono progettate e attuate, in relazione alle condizioni di contesto e processuali in cui vanno ad inserirsi, a dare luogo ad effetti positivi o negativi nei confronti dei fenomeni su cui si intende agire125.
124 Banting Keith, Kymlycka Will, Introduction. Multiculturalism and the welfare state: setting the context, cit., p.
19.
125 Kymlicka Will, Banting Keith, Immigration, multiculturalism, and the welfare state, in “Ethics and international