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1 La rivoluzione ai nostri tempi

3.3 Nativi digitali

Nel 2001, Mark Prensky pubblica il suo articolo “Digital Natives, Digital Immigrants” nel quale usa la definizione “nativi digitali” per fare una distinzione di tipo generazionale rispetto all’uso delle nuove tecnologie: i nativi sono immersi nel digitale sin dalla nascita (per loro è la norma), mentre gli immigrati sono coloro che hanno dovuto adottare le tecnologie e adattarsi pian piano, in età avanzata. In altre parole, hanno imparato col tempo ad abitare la rete. Prensky indica il 1985 come l'anno della grande svolta, a partire dal quale i nuovi nati rientrano di diritto nella categoria dei millennials. Ad essi egli rapporta gli immigrati digitali, detti anche baby boomers, che sono cresciuti grazie e con la televisione e il cinema, sottolineando come le nuove generazioni siano da considerarsi dei “madrelingua” relativamente al linguaggio digitale di computer, videogiochi e Internet. Quella proposta da Prensky, tuttavia, si è rivelata una definizione rigida e piuttosto statica e non applicabile tout court, poiché non tiene conto di alcune variabili, come la cultura e l’educazione familiare, la distribuzione geografica e la possibilità di accesso alla banda larga (digital divide). In breve, del contesto in cui si cresce e, non ultima, della curiosità. A distanza di qualche anno infatti, lo stesso Prensky supera la vecchia contrapposizione di tipo anagrafico e introduce un nuovo profilo: quello del saggio digitale (digital wisdom) come risultato dell’interazione tra la mente umana ed i nuovi strumenti che ha a disposizione. La saggezza digitale di cui parla è un duplice concetto, poiché fa riferimento sia alla saggezza derivante dall’utilizzo del digitale per accedere all’abilità cognitiva al di là della nostra capacità innata, sia alla saggezza riferita all’utilizzo prudente della tecnologia per accrescere le nostre potenzialità.

1. Quello del saggio digitale (digital wisdom). Si tratta di un utente, giovane o anziano che sia, capace di un uso critico e responsabile delle tecnologie digitali;

2. Quello dello “smanettone digitale” (digital skilness). È colui che possiede le competenze tecniche già attribuite al nativo: rapido, esperto, dotato di grande dimestichezza rispetto ai diversi supporti;

3. Quello dello stupido digitale (digital stupidity). È colui che delle tecnologie fa usi impropri, dannosi, trasgressivi o anche colui che rifiuta a priori di avvicinarsi ad esse ritenendole fonte di tutti i mali.

La “conoscenza” e l’ “uso” hanno preso due direzioni diverse. Conoscere è un esercizio faticoso che implica ascolto, silenzio e concentrazione. Usare qualcosa invece, può essere anche molto semplice. Le interfacce commerciali prediligono l’uso, cercando di mantenere un carico cognitivo basso, si definiscono infatti “intuitive”, “usabili”, “user friendly”. L’azione dell’utente deve poter essere “automatica” cioè il più possibile immediata, come l’esecuzione di una procedura nota al punto di non richiedere esitazioni.

Mentre riflettere rallenta i movimenti e raffredda le emozioni, i social hanno bisogno di velocità per spingere al massimo le interazioni; il profitto infatti si basa sull’ottenimento di quanti più dati possibili sull’identità e i legami sociali degli utenti. L’impulso continuo di sollecitazioni e la gratificazione tramite punteggio (stelline, condivisioni, like, ecc.) ci mantiene disponibili al controllo costante delle notifiche.

Rispetto al passato, la comprensione di come funzionano i dispositivi e le tecnologie di uso quotidiano sta avvenendo in modo minore o non sta avvenendo affatto. I nativi digitali crescono senza saper smontare, vedere, “smanettare”, scoprire, testare, essere hacker, inteso nel senso pedagogico del termine. L'evoluzione della tecnologia in forme sempre più user friendly non gli permette di avere le possibilità che hanno avuto gli immigrati digitali, obbligati ad imparare, a trovare soluzioni per far funzionare e per migliorare qualunque cosa informatica e tecnologica. La tecnologia di oggi rende i nativi digitali semplici utenti. Tra gli stereotipi più diffusi sulle nuove generazioni c’è, infatti, quello che le vorrebbe altamente competenti con la tecnologia proprio in quanto esposte quotidianamente, fin dalla nascita, alle innovazioni della rivoluzione informatica ma, quella che sta nascendo oggi, è una generazione di falsi nativi digitali, senza alcuna competenza informatica. Intorno a questa si sta costruendo, giorno dopo giorno, prodotto dopo prodotto, applicazione dopo applicazione, un mondo virtuale chiuso e gestito da altri, dal quale diventa sempre più difficile uscire per diventare competenti, per comprendere le dinamiche

di questo mondo. Nonostante si dia per scontato che i ragazzi e le ragazze vivano immersi/e nelle tecnologie, il reale utilizzo di queste ultime è ancora piuttosto superficiale e si limita per lo più a giochi, messaging, navigazione web. Le differenze di competenze tecnologiche esistenti all’interno della generazione dei più giovani sembrano essere più o meno le stesse esistenti tra i giovani e le persone adulte.

Gli stili di comunicazione, i modi di pensare degli adolescenti sono differenti dai nostri. I valori che orientano gli stili comunicativi dei “nativi” sono una maggiore espressione di sé e personalizzazione, la condivisione costante di informazione (sharing) continuamente riferita al proprio gruppo di pari. Le modalità di approccio alla conoscenza sono caratterizzate dall’utilizzo di un codice digitale, dalla condivisione e dalla creazione della conoscenza (MP3 e Wikipedia), dall’apprendere attraverso il gioco e l’esplorazione, dall’esternalizzazione dell’apprendimento, dalla comunicazione in opposizione alla riflessione, dalla mancanza dell’autorità del testo. La conoscenza passa attraverso il connettersi, il navigare e l’esplorare.

La nozione di nativo digitale, inoltre, ha delle importanti conseguenze indesiderate, come sostiene Danah boyd: “Non solo è carica di significato, ma nasconde anche la distribuzione impari delle abilità tecnologiche e dell'alfabetismo riguardo ai media fra i giovani, presentando un ritratto impreciso dei giovani come preparati uniformemente per l'era digitale ed ignorando il presunto livello di privilegio richiesto per essere nativi. Peggio ancora, non facendo il lavoro necessario per aiutare i giovani a sviluppare delle ampie competenze digitali, gli insegnanti ed il pubblico finiscono per riprodurre le disuguaglianze, perché spesso i giovani più privilegiati hanno più opportunità di sviluppare queste abilità al di fuori delle aule scolastiche ”27 . Questo ci fa comprendere come, dietro

al concetto di nativo digitale, rischino di scomparire le differenze di status socioeconomico che condizionano inevitabilmente qualità e possibilità di accesso alle nuove tecnologie e con esso difficoltà nello sviluppo di competenze digitali.

Altra caratteristica distintiva per indicare i nativi digitali è il multitasking, sia come forma di apprendimento, sia come forma di comunicazione tra pari: si parla al telefono, si ascolta la musica, si naviga sul web, si chatta con amici. Coloro che fanno parte della generazione gutenberghiana rappresentano un modello di audience e di pubblico passivo, non creatori attivi di contenuto, mentre invece i nativi digitali appartengono e rappresentano il nuovo

paradigma di media digitali partecipativi; fin dalla nascita infatti i giovani partecipano e creano all’interno del flusso mediale digitale.

Utilizzare l’espressione mutazione antropologica può sembrare forte ma sono queste le parole con le quali molti autori hanno presentato la questione del rapporto tra generazioni e tecnologie digitali negli ultimi anni.