• Non ci sono risultati.

Come è stato già ampiamente esplicato, la Grande Guerra si caratterizza per un cambiamento epocale nelle modalità di combattimento: termina l’epoca degli scontri a campo aperto, dove si dispiegano eserciti valorosi, e nasce la guerra di logoramento, dove prevale invece la passività dei soldati, costretti a rimanere nascosti nelle trincee che impediscono la vista del nemico. Questo mutamento delle dinamiche di conduzione della guerra incide anche sui rapporti con il nemico, poiché quest’ultimo diventa invisibile. I soldati infatti non combattono più faccia a faccia, ma attaccano e si difendono senza mai abbandonare la trincea e quindi senza vedere il nemico. Entrambi gli autori, Stuparich e Lussu, fanno riferimento a questa guerra di talpe, che obbliga i soldati a un’inerzia insostenibile, rannicchiati per mesi in cunicoli scavati nel terreno. Lo scrittore sardo, attraverso il punto di vista dell’ufficiale protagonista e narratore di Un anno sull’Altipiano, definisce le trincee «inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili»276 proprio perché sono apparentemente prive di esseri umani. Giani, nel suo diario Guerra del ’15, racconta i primi momenti in trincea, nei quali comincia a percepire la presenza del nemico che però ancora non ha incontrato «nasce la sensazione del nemico forse vicino, forse addirittura nascosto oltre quei campi di granturco»,277 e rivela la difficoltà di rimanere schiacciati l’uno contro l’altro nelle trincee, immobili, senza poter vedere l’ambiente che si sviluppa oltre quei cunicoli di terra «È penosa questa vita di talpe: non si vede nulla se non i compagni più vicini, il tetto che ci ripara e un piccolo tratto di campagna dietro di noi».278

L’invisibilità del nemico viene denunciata proprio da Lussu, in uno dei primi capitoli del romanzo, attraverso le parole del tenente colonnello di Stoccaredo, il quale combatte al fronte da oltre un anno senza aver mai visto il nemico: «È da oltre un anno che io faccio la guerra, un po’ su tutti i fronti, e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure

276

EMILIO LUSSU, Un anno sull’Altipiano, I ed. 1945, Torino, Einaudi, 2014, p. 135. 277

GIANI STUPARICH, Guerra del ’15, I ed. 1931, Macerata, Quodlibet, 2015, p. 26. 278

110 vedersi! È orribile!».279 Il nemico quindi non si vede, però se ne percepisce la presenza, attraverso i rumori che produce scavando le trincee durante la notte o attaccando con le armi. L’udito diventa così un elemento fondamentale in questa guerra, per percepire i movimenti del nemico e poterlo anticipare.280 Durante un bombardamento Giani si accascia a terra e spia la trincea nemica dalla feritoia, pronto a sparare col fucile alla vista del nemico, ma di lui non vi è traccia «Tutto, nella luce del sole, tranquillo, non un moto, non un essere vivente sul terreno sconvolto, […] Da nessuna parte il nemico, nessun uomo avanza».281 La presenza degli austriaci si percepisce solamente attraverso i fischi delle pallottole e gli sbuffi delle granate, ma il nemico rimane invisibile agli occhi di Giani, tanto che il soldato triestino lo immagina preciso nella sua mente, nella foga dell’azione militare, mentre avanza con la baionetta e uno sguardo duro «Mai avevo sentito la presenza del nemico con tanta crudezza».282

Nel caso di Stuparich, il primo incontro con il nemico risale a prima del conflitto, poiché abitando in una terra di confine, Trieste, nella quale convivono civiltà diverse, ha avuto modo di confrontarsi con lo straniero, ossia l’austriaco contro il quale si trova poi a combattere nel conflitto. Giunto al fronte però, Stuparich si trova di fronte a un paradosso, perché viene considerato egli stesso come un nemico, a causa delle sue origini triestine; il soldato italiano, ma triestino si sente straniero all’interno del suo esercito, nonostante si sia arruolato per difendere lo stato italiano dallo straniero.

L’invisibilità del nemico, se da una parte suscita una grande curiosità nei combattenti italiani, spingendoli a ricercare le tracce del nemico per incontrarlo, come gli oggetti perduti al fronte o i cadaveri giacenti a terra, dall’altra favorisce l’odio verso questo, che viene ucciso senza alcun rimorso. Lo straniero appare quindi un nemico, nel momento in cui rimane invisibile o mostra la sua potenza militare, come accade per esempio a Caporetto.283 In questa occasione infatti il nemico avanza sul territorio italiano con tutta la sua forza e la sua abilità militare sconfiggendo l’esercito italiano e acuendo, così, un sentimento di odio nei suoi confronti. Perfino il romanzo Ritorneranno, pervaso da un

279

EMILIO LUSSU, Un anno sull’Altipiano, cit., p. 37. 280

GIOVANNI CAPECCHI, Lo straniero nemico e fratello nella letteratura italiana della Grande Guerra in Lo straniero nemico e fratello. Letteratura italiana e Grande Guerra, Bologna, Clueb, 2013, p. 160.

281

G. STUPARICH, Guerra del ’15, cit., p. 63. 282

Ibidem. 283

G. CAPECCHI, Lo straniero nemico e fratello nella letteratura italiana della Grande Guerra ,cit., p. 160.

111 senso religioso della vita e dal prevalere dell’amore sull’odio, registra un riferimento a questi sentimenti negativi verso il nemico, acutizzatisi dopo la disfatta di Caporetto. L’odio verso il nemico austriaco, che conquista il territorio italiano, viene esternato da Sandro, che allontanatosi dal fronte riflette sull’accaduto «Non provava anche lui nella propria carne l’odio contro quegli uomini che calpestavano da conquistatori il terreno imbevuto del sangue di Marco? Che depredavano le belle campagne del Friuli e del Veneto? […] Il suo impulso […] l’avrebbe spinto a ributtarsi con rabbia nella guerra, a uccidere, a vendicare».284

Entrambi gli autori mostrano come i sentimenti verso il nemico cambino nel momento in cui avviene l’incontro con lui: in questo esatto momento, quando il nemico si palesa abbandonando l’anonimità, diventa fratello. Vedere il nemico significa prendere atto della sua umanità, scoprire che non è altro che un uomo, un essere umano che vive e combatte come tutti gli uomini al fronte, soggetto alla stessa sorte degli altri combattenti e perciò ci si identifica in lui. Sia Stuparich che Lussu, incontrando per la prima volta gli austriaci, si rendono conto che sono «uomini e soldati come noi».285 Già dopo pochi mesi in trincea, Giani si rende conto della presenza del nemico, che non è più una realtà vaga e immaginaria, ma «esiste, si precisa, è fatto come noi».286 Esprime la stessa considerazione anche il protagonista di Un anno sull’Altipiano, quando, osservando i nemici nella loro vita quotidiana al fronte, rimane stupito nel constatare che gli austriaci svolgono le stesse identiche azioni dell’esercito italiano «Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell’ora stessa, i nostri stessi compagni».287

Ciò accade perché la violenza della guerra getta i soldati in uno stato di estraniamento rispetto alla propria personalità, nel quale dimenticano leggi, valori e abitudini della propria vita passata, considerando se stessi come oggetti e negando, di conseguenza, una dignità umana anche al nemico.288 L’ufficiale sardo, scorgendo i movimenti nemici in trincea, rimane sconvolto nel vedere gli austriaci bere il caffè, svolgere dei semplici gesti quotidiani come tutti gli esseri umani.

284

G. STUPARICH, Ritorneranno, I ed. 1941, Milano, Garzanti, 2015, p. 301. 285

E. LUSSU, Un anno sull’Altipiano, cit., p. 135. 286

G. STUPARICH, Guerra del ’15, cit., p. 26. 287

E. LUSSU, Un anno sull’Altipiano, cit., p. 135. 288

112 Non c’è dunque nulla di diverso tra soldati austriaci e soldati italiani, la vita in trincea procede nella stessa identica maniera in entrambi i fronti. Gli assalti, la passività, i momenti di riposo, la fatica e la sofferenza accomunano tutti gli uomini al fronte, anche il nemico, che quindi comincia ad essere compreso anziché odiato. Ci si rende conto che il nemico è un essere umano come noi, che prova i nostri stessi sentimenti e le nostre stesse paure e in quanto tale diventa difficile eliminarlo, se ci viene ordinato, perché si crea una relazione umana che trasforma il nemico in fratello ai nostri occhi. Questo è ciò che accade all’ufficiale sardo, impiegato sull’altipiano di Asiago, il quale, osservando il nemico con il fucile in mano, pronto a sparare, si arresta esitante, allentando la presa dall’arma. Fissando il giovane ufficiale austriaco, egli ne può distinguere i tratti del viso e il colore degli occhi perché si trova a una distanza così ravvicinata che sarebbe impossibile sbagliare il tiro. Basterebbe un solo colpo per farlo stramazzare al suolo, ma il protagonista si accorge di non voler uccidere un uomo senza motivo, la consapevolezza che la vita di quel giovane essere umano dipenda dalla sua volontà di sparare o meno, lo rende esitante poiché comprende di avere di fronte un uomo, tale e quale a lui, che non può essere eliminato come fosse una bestia. Egli ha il dovere di sparare al nemico, ma qui non si tratta di uccidere degli uomini durante un’operazione bellica, sparare ad un uomo in questo modo significa assassinarlo:

«No, non v’era dubbio, io avevo il dovere di tirare. E intanto, io non tiravo. […] Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! […] Cominciai i pensare che forse non avrei tirato. […] Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo».289

Mentre la distanza acuisce l’ostilità, l’incontro rende fratelli, perché trasforma il nemico da bersaglio lontano a uomo somigliante, anch’egli vittima di questa guerra atroce. 290 Anche il soldato Giani Stuparich, in un passo di Guerra del ’15, mostra la stessa titubanza dell’ufficiale sardo, poiché, mentre nel tumulto di un assalto appare lecito sparare agli avversari per salvarsi la pelle, diverso è invece colpire un uomo, solo

289

Ivi, pp. 137-37. 290

G. CAPECCHI, Lo straniero nemico e fratello nella letteratura italiana della Grande Guerra in Lo straniero nemico e fratello. Letteratura italiana e Grande Guerra, cit., p. 169.

113 e indifeso, senza nessuna colpa «ora tremo dentro di me al pensiero che un’ombra mi si rizzi davanti, un uomo, nel cui caldo petto io dovrei infiggere la mia dura baionetta: no, per non uccidere e per non essere ucciso, io fuggirò, gettando l’allarme con un grido disperato, […] mi mescolerò con gli altri, […] ma solo no, solo è terribile».291

Il timore di uccidere è così forte in Giani, che immagina nella sua mente il momento dell’incontro con il nemico, ipotizzando la sua reazione. Nel diario di Stuparich non si riscontra nessun sentimento di odio, neppure verso il nemico, il quale viene invece compatito dal soldato triestino, perché prevale la presa di coscienza della precarietà della condizione umana in guerra che accomuna tutti gli uomini al fronte, creando, tra loro, un senso di fraternità nella sofferenza. Il nemico è quindi un proprio simile, un uomo che condivide con tutti gli altri il medesimo destino, indipendentemente dall’esercito per cui parteggia.

Nel romanzo di Lussu, la voce narrante, descrivendo le vicende della brigata Sassari nei mesi invernali, accenna all’usanza dei nemici di rispettare le festività più solenni, perciò a Natale interrompono i combattimenti. In moltissimi diari e memorie, relativi alla Grande Guerra, si riscontrano sporadici episodi di fraternizzazione con il nemico proprio in concomitanza con le feste religiose principali come il Natale o la Pasqua. In queste occasioni, solitamente, la sospensione delle ostilità avviene spontaneamente da parte di entrambi gli schieramenti rivali, nei quali affiora un sentimento di solidarietà verso i nemici, derivato dalla consapevolezza di condividere la medesima condizione di precarietà.292 Questi episodi di fraternizzazione hanno una risonanza anche a livello emotivo, perché risollevano gli animi degli uomini e contribuiscono a scacciare l’idea del nemico crudele e aggressivo diffusa attraverso alla propaganda. A volte la curiosità spinge i soldati anche oltre, arrivando a conversare con il nemico o barattando qualche prodotto come pane e tabacco. Bisogna però ricordare che i casi di fraternizzazione col nemico risultano piuttosto rari rispetto alle tregue dei combattimenti, le quali si verificano con maggiore frequenza.293

L’opera di Lussu risulta molto interessante da questo punto di vista perché in essa vi si nota una sorta di rovesciamento del concetto di nemico, tradizionalmente inteso.

291

G. STUPARICH, Guerra del ’15, cit., p. 292

BRUNA BIANCHI, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Roma, Bulzoni Editore, 2001, p. 340.

293

114 Mentre, infatti, ci si identifica con l’austriaco, il nemico nel romanzo Un anno sull’Altipiano diventa l’alta gerarchia militare, che manda al massacro i suoi soldati ed è incapace di comprendere le reali esigenze di chi combatte al fronte. In questo modo trova spazio il motivo del nemico interno, rappresentato dai comandanti, attraverso il quale, come è stato già ampiamente detto, l’autore denuncia l’incapacità di coloro che conducono la guerra. Sono quindi i generali ad essere definiti austriaci, perché sono loro i veri nemici dei soldati, come afferma più volte nel romanzo l’ufficiale Ottolenghi, molto amato dai suoi soldati «Dov’è il nemico? Questa è la questione. Gli austriaci? No, evidentemente. I nostri naturali nemici sono i nostri generali».294 Dalle parole di Ottolenghi emerge chiaramente la convinzione che i veri nemici siano i generali, mentre i soldati, obbligati a combattere una guerra che non hanno voluto, sviluppano un sentimento di solidarietà con gli avversari austriaci, in quanto non hanno nessuna ragione di odio nei loro confronti, ma al contrario sono accomunati dalla stessa sofferenza.

La figura del nemico, durante il conflitto, si identifica in diversi soggetti perché può corrispondere, come abbiamo visto, allo straniero o agli alti comandi, al soldato triestino visto con diffidenza dai compagni, ma il nemico si può identificare anche con i cittadini che non combattono al fronte e rimangono in città. Si crea infatti una distanza incolmabile tra il soldato che combatte in trincea, rischiando la vita ogni giorno e i cittadini che rimangono in paese, continuando indifferenti la loro vita. Lussu testimonia questa distanza attraverso il racconto del ritorno in Sardegna dell’ufficiale protagonista, il quale, una volta tornato, si sente a disagio anche vicino ai suoi familiari, ignari di quello che accade veramente al fronte. Questo motivo viene però approfondito maggiormente da Stuparich, il quale nel romanzo Ritorneranno, narrando il ritorno di Sandro dalla trincea, mostra, attraverso i pensieri di Allegra, l’incompatibilità tra chi ha fatto la guerra e chi invece l’ha vissuta soltanto attraverso le testimonianze dei reduci. Quando Sandro torna dalla guerra, rimasto cieco, viene accudito da Allegra, la fidanzata di suo fratello Marco, che lo aiuta a riprendersi dalla perdita di entrambi i fratelli e dai traumi subiti al fronte, convincendolo poi a ricongiungersi con la madre. Un giorno, Sandro riceve la visita dell’amico Filippo, arruolatosi ma rimasto lontano dal fronte, il quale è incapace di comprendere la sofferenza dell’amico, martire di guerra. Allegra che

294

115 ben conosce la tragica vicenda di Sandro, percepisce il divario che separa questi due uomini, uno consumato dalla guerra nel corpo e nell’animo, l’altro che si fa bello nella sua elegante divisa di ufficiale «Mai, come in quel giorno, Allegra aveva sentito che l’umanità era divisa fra quelli ch’erano stati colpiti dall’ala funesta della guerra, e quelli che della guerra conoscevano ancora soltanto le bandiere vivaci e le uniformi splendenti. Un abisso li separava».295

295

116