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Nicola Pagliara, il saggio amico di sempre

Ho conosciuto Nicola Pagliara, da sempre, almeno così mi sembra.

Non trascorrevamo molto tempo insieme, perché egli non era un perdi- tempo come lo ero io. Mi raccontava che si alzava sempre alle cinque del mat- tino per studiare il tedesco, l’inglese e chissà quante altre lingue! E ironizzava sulla mia lentezza nell’azione della quale, invece, egli talvolta era un vero campione. Ma quando stavamo insieme era un piacere! Veloci messaggi di idee nuove, le nostre storie, i giudizi, le conoscenze, i viaggi: un continuo divenire di mutuo accrescimento. Si giocava così tra persone le cui ancore di salvezza erano: lealtà e amicizia, amicizia, saperi e conoscenze offerti da un compagno più grande.

Un giorno, passando per il Corso Umberto, mi fermai davanti un negozio ri- vestito di marmi colorati che faceva brutta mostra di sé per la sua invadenza. «Chi poteva essere stato a realizzare tale meraviglia?» chiesi al negoziante. «Ma que- sto è un Pagliara - rispose orgoglioso, aggiungendo però a bassa voce - badi bene, è una imitazione di Pagliara!». Non sapevo se sorridere o inquietarmi, e allora pensai a Victor Hugo che ripeteva: «Quando un leone imita un leone diventa una scimmia».

Ma non spariamo sul povero copista!

In quel momento, però, compresi che Nicola Pagliara era diventato veramente famoso, conosciuto e popolare, era diventato un brand, un marchio ormai tanto noto che andava imitato e contraffatto dovunque, come si fa con le false borse Louis Vuitton e con i falsi Rolex. Borse prive di contenuto, certamente, a diffe- renza di Pagliara che di contenuti ne aveva da vendere.

Per me è stato sempre un architetto surrealista ma, scusate l’ossimoro, pro- fondamente concreto e materiale. Abbracciare una pietra, un marmo, era per lui un atto di innamoramento profondo, quasi come abbracciare una donna. Il suo surrealismo lo portava a restare affascinato ascoltando la breve ma intensa lirica di Donizetti (1835) Canzone Marinara: «Me voglio fa ‘na casa miezzo ‘o mare fra- vecata de penne de pavune, d’oro e d’argiento li scaline fare ‘e prete preziuse li barcune». Ma come si fa a costruire una casa con le penne di un pavone?

È possibile solo in una città di favola, come raccontava Stendhal.

Ma cosa ci resta della vita se non costruissimo i nostri progetti sulle utopie? Occorreva allora rifarsi a una proposta, più concreta e più materiale, come

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terra, del Regno di Napoli, restava affascinato, le ascoltava con passione ma all’improvviso riconduceva il di- scorso alle pressanti politiche del domani.

Quando festeggiammo i suoi ot- tanta anni, per alleggerire quel leg- gero velo di malinconia che sem- brava trasparire dagli occhi, gli dissi che si trattava in fondo di festeg- giare il 4° compleanno di un amico ventenne, quatre-vingt, quattro volte venti, come dicono i francesi. Di- ventò raggiante come un leone per la metafora, perché giovane lo era an- cora davvero.

Ma cosa ci nasconde Pagliara dietro le sue architetture che per anni ci hanno raccontato, attraverso sapienti e luminose composizioni spaziali, la storia e la vita delle pie- tre, del ferro, del legno, dei colori in un grande romanzo ricco di suspense?

Un programma, una finalità, un messaggio sociale mascherato dal culto del successo, un viaggio marcato con una serie di totem per una meta misteriosa?

Ma infine com’è l’architettura di Pagliara? L’architettura di Nicola Pagliara può avere molti difetti, anzi, l’invidioso ne ha trovati moltissimi, ma certamente ha una qualità speciale e rara: quella di non annoiare mai.

Ora, maturato negli anni, mi sorprendo ogni tanto di avere sentimenti da ragazzo, sentimenti di lealtà e amicizia verso un compagno più grande, più saggio, più bravo, sentimenti che avrei volentieri scambiato, giocando ancora oggi con lui.

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quella di Eulalia Torricelli da Forlì che «aveva tre castelli: uno per mangiare, uno per dormire e uno per amare» (un leggero val- zer del dopoguerra [Oliviero, Redi e Nisa 1949)]), castelli non fatti con le penne di pavone, ma sicuramente tutti realizzati in pie- tra con particolare attenzione per il terzo, dedicato all’amore.

Letteratura, poesia, cinema erano riferimenti quotidiani. Le sequenze cinematografiche, Il mestiere delle armi di Olmi, come Il mestiere dell’architetto, erano raccontate e illustrate agli stu- denti con una anatomia delle im- magini, della sequenza dei tempi e con maniacale precisione da re- gista. Era questo il vero modo per far capire la qualità spaziale di una architettura a uno stu- dente. Le lezioni erano integrate dai suoi infiniti scritti per la didattica, manualetti efficienti come le sue Dieci le- zioni di architettura, titolo aulico come i manuali del Rinascimento e con sotto- titoli narrativi come in un romanzo di Cervantes.

Il suo quotidiano confronto era lèggere e studiare la Storia, che rimaneva sem- pre “una immensa nebulosa”. Nel periodico da lui diretto negli anni ’70, “Il Drago”, scrive: «Spolvero il suolo con attenzione, cercando le tracce di chi mi ha preceduto, come se potessi rammagliare con il tempo un discorso per tacitare la neb- bia di una infinita solitudine… “Il Drago” muore. Spazio ai Giovani Leoni».

Un giorno, nei nostri dialoghi talvolta dell’assurdo, parafrasando Woody Al- len, di cui era innamoratissimo, mi confidava di aver scelto di fare l’architetto e non lo storico dell’arte perché aveva una certa difficoltà a memorizzare le date. E ancora: «esistono due cose importanti al mondo: una è l’Architettura e l’altra... non mi ricordo!».

La sua intelligente e affettuosa ironia, che manifestava con tutti i sui veri col- laboratori, era proverbiale. Mentre gli raccontavo di storie passate, della nostra

Copertina del periodico «Il Drago», da Lui diretto negli