EDOARDO GREBLO
N
on c’è dubbio che nel corso del tempol’immagine del rifugiato sia decisamen-te mutata. Se si guarda al passato, essa richiama alla mente la figura dell’oppositore politico perseguita-to per la sua scelta esistenziale di intransigente opposizione politi-ca. Basti pensare alla storia del nostro paese, e cioè agli antifascisti esiliati in Francia e poi diventati una componente essenziale della classe dirigente che ha costruito la nostra democrazia. Uno di que-sti, costretto a lavorare da muratore per sopravvivere, una volta rimpatriato è salito alla carica più alta della Repubblica. Era San-dro Pertini.1 Oggi, invece, all’immagine del rifugiato corrisponde quella di una vittima anonima delle circostanze, indistinguibile da altre migliaia di vittime non meno anonime e tutte condannate a rimanere imprigionate nella gabbia dell’inazione e della passività. A mutare è anche, di conseguenza, il problema del diritto di asi-lo: mentre in passato poteva ancora riguardare singoli casi indivi-duali, oggi tocca invece intere popolazioni, che cercano di supera-re gli ostacoli, i muri e gli sbarramenti esupera-retti dagli Stati per impe-dire lo spostamento di esseri umani percepiti come un’unica mas-sa indistinta e perciò naturalmente pericolomas-sa. Ora, le circostanze drammatiche che costringono milioni di uomini, donne e bambi-ni a fuggire da paesi flagellati da tiranbambi-nie, corruzione, cleptocrazie,
1. S. Allievi, G. Dalla Zuanna, Tutto quello che non vi hanno mai detto
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colpi di Stato, guerre civili, dittatori, signori della guerra e funzio-nari corrotti non possono e non devono essere sottovalutate. Ciò nonostante, fare sistematicamente cadere l’accento soltanto sugli scenari di trauma e devastazione può avere un effetto paradossal-mente controproducente, perché porta a concepire i doveri di ac-coglienza e di assistenza umanitaria quali atti gratuiti di generosità, quando, al contrario, dovrebbero essere considerati come il modo giuridicamente vincolante di onorare un impegno politico e giuri-dico tanto solennemente sottoscritto e retoricamente proclamato quanto concretamente disatteso.
Non a caso, i rifugiati suscitano commozione, indignazione e rivolta morale quando la loro sofferenza risponde al modello del rifugiato-vittima, e alimentano paura e allarme sociale quando cercano di recuperare una qualche parvenza di soggettività auto-noma. Ogni disponibilità umanitaria viene infatti immediatamen-te meno non appena essi rinunciano a esibire “il comportamento passivo considerato normale per le vittime”2 e cercano di sottrarsi alla invisibilità politica cui sono condannati per il fatto di essere, letteralmente, dei fuori-legge, perché non più sottomessi a quel-la oppressiva degli Stati di provenienza e perché dichiarati illega-li da quella che incontrano negillega-li Stati in cui approdano. I rifugiati – ai quali, come ai profughi e agli sfollati interni, non viene rico-nosciuto il diritto di organizzarsi, ma solo di sopravvivere – sono così costretti a cadere vittime del paradosso rilevato a suo tempo da Hannah Arendt, e cioè che per essere rispettati nei diritti de-vono diventare oggetto di repressione – a riprova, secondo Gior-gio Agamben, dell’inefficacia pratica dei diritti umani fondamen-tali quando si tratta di proteggere le condizioni minime di esisten-za dell’uomo genericamente vivente.
2. J. van Dijk, Free the Victim: A Critique of the Western Conception of Victimhood, “International Review of Victimology”, 16, 2009, p. 15. Cfr. anche D. Turton,
Conceptual-ising Forced Migration. Refugee Studies Centre Working Paper Series, 12, University of
Ox-ford, Oxford 2003; E. Mavroudi, C. Nagel, Global Migration. Patterns, Processes, and
Po-litics, Routledge, London-New York 2016, p. 190; P. Mares, “Distance makes the heart
grow fonder: Media images of refugees and asylum seekers”, in E. Newman, J. van Selm (a cura di), Refugees and Forced Displacement: International Security, Human Vulnerability,
1. In alcuni testi che hanno fatto scuola e che si sono rivelati estremamente influenti,3 Agamben ha individuato nel rifugiato la figura che, invece di incarnare i diritti dell’uomo, ne segna la crisi irreversibile: “Se i rifugiati rappresentano […], nell’ordinamento dello Stato-nazione moderno, un elemento così inquietante, è
in-3. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, 20052, in particolare pp. 145-149; Id., “Al di là dei diritti dell’uomo”, in Mezzi senza fine. Note sulla
po-litica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 20-29. Per una rassegna, peraltro incompleta, degli
autori che hanno commentato o ripreso le tesi di Agamben, si veda A. Dal Lago, Normalità
del-lo stato di eccezione. A proposito di “Homo sacer”, “aut aut”, 271-272, 1996, pp. 87-92; J. Edkins, Sovereign Power, Zones of Indistinction, and the Camp, “Alternatives: Global, Local, Political”,
1, 2000, pp. 3-25; F. Jenkins, Bare Life: Asylum-Seekers, Australian Politics and Agamben’s
Cri-tique of Violence, “Australian Journal of Human Rights”, 1, 2004, pp. 79-95; D. Bülent, From Refugee Camps to Gated Communities: Biopolitics and the End of the City, “Citizenship Studies”,
1, 2004, pp. 83-106; P.K. Rajaram, C. Grundy-Warr, The Irregular Migrant as Homo Sacer:
Mi-gration and Detention in Australia, Malaysia, and Thailand, “International MiMi-gration”,1, 2004,
pp. 33-63; J. Edkins, V. Pin-Fat, Through the Wire: Relations of Power and Relations of Violence, “Millennium: Journal of International Studies”, 1, 2005, pp. 1-24; D. Bülent, C. Bagge Lausten,
The Culture of Exception: Sociology Facing the Camp, Routledge, London 2005, in particolare il
cap. 1; R. Puggioni, “Resisting sovereign power: camps in-between exception and dissent”, in J. Huysmans, A. Dobson e R. Prokhovnik (a cura di), The Politics of Protection: Sites of
Insecuri-ty and Political Agency, Routledge, London 2005, pp. 68-83; P. Nyers, Rethinking Refugees: Be-yond States of Emergency, Routledge, London 2006; M. Rovelli, Lager italiani, Rizzoli, Milano
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