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Ognuno del resto ha i suoi occhi, la sua strumentazione, il suo mese.

Introduzione

Il romanzo L'anno nudo (Golyj god) di Boris Pil'njak uscì a Berlino nel 1921. Il dibattito che ne seguì1 è di estremo interesse, contraddittorio e vivace. Dopo una prima recensione favorevole di Osinskij, che vide in esso la prima rappresentazione letteraria della rivoluzione (Osinskij 1922), e dopo un autorevole intervento di Voronskij che giustificò il grande "caos" del romanzo in virtù del fatto che la rivoluzione aveva sconvolto il modo di vivere "nel suo insieme, mettendo tutto sottosopra" e aveva quindi "ragione" l'ar-tista, quando tentava di cogliere la realtà nel modo "più ampio pos-sibile", dando un "quadro completo, compatto" dello "sconvol-gimento" e della "catastrofe" (Voronskij 1922),2 la critica sovietica contemporanea iniziò un vero e proprio balletto intellettuale, cer-cando di scoprire, se Pil'njak fosse favorevole, pur fra mille dubbi, alla rivoluzione o decisamente contrario. Il dibattito durò a lungo, quasi un decennio, mentre uscivano altre edizioni del romanzo. Prevalse la tendenza negativa: Derevenskij accusò Pil'njak di aver fornito un quadro deformato della rivoluzione e della vita rurale (Derevenskij 1925), Braun andò più oltre, definendo Pil'njak

* "L'anno nudo", romanzo di Boris Pil'njak (con un saggio sulla teoria del genere grottesco di Aleksander Skaza. Sassari: Dessì, 1982. 5-98.

1 Per la bibliografia contemporanea all'uscita delle varie edizioni del ro-manzo cf. Bor. Pil'njak. Mastera sovremennoj literatury 1928: 105-117. Per una bibliografia critica sul romanzo L'anno nudo cf. Novikov 1978a: 676-686.

ologo" dei "nichilisti borghesi" e dei "materialisti primitivi" (Braun 1923),3 Gorbačev affermò che l'autore, "guardando la rivoluzione, diventava cieco all'occhio sinistro" (Gorbačev 1928: 65), mentre Polonskij arrivò quasi alla diffamazione e alla calunnia, quando nel 1927 definì Pil'njak "un romantico piccolo borghese" che ave-va visto la rivoluzione "dalla coda", senza "aver visto il fronte" e senza conoscere "la vera lotta" (Polonskij 1927).4 E Gor'kij, i cui giudizi dovevano in seguito avere un peso determinante nelle valu-tazioni ufficiali della critica sovietica, definì Pil'njak un "nichi-lista" che mostra la più completa "indifferenza nei confronti di ciò che di più prezioso e vivo c'è nell'arte – l'Uomo", considerandolo alla stregua di una manifestazione patologica (javlenie boleznen-noe) nello sviluppo della letteratura russa (M. Gor'kij i sovetskie pisateli 1963: 482, 311). Il destino di Pil'njak è cosa nota. Anche dopo la sua riabilitazione però non si può dire che il giudizio sulla sua opera sia decisamente mutato. Buznik, per esempio, sostiene che "le innovazioni stilistico-formali" presenti nel romanzo L'anno nudo non riescono a sostituire "l'assenza di una fedele compren-sione della gente e degli avvenimenti, dell'uomo e della rivolu-zione", anzi, esse non fanno altro che "sottolineare l'eclettismo ca-otico delle sue opinioni" (Buznik 1975: 102). E Novikov, che ha recentemente curato un'edizione di opere scelte di Pil'njak, e che pure cerca in qualche maniera di individuare ciò che di positivo dovrebbe esserci nel romanzo, non può sottrarsi ai crismi della valutazione ufficiale, quando afferma che l'autore non è stato in grado di capire "la forza costruttiva della rivoluzione e il significato della lotta di classe" (Novikov 1978: 6). E non si può certo dire che la critica occidentale abbia trattato il romanzo di Pil'njak con maggiore serenità di giudizio, anzi, spesso ripete le valutazioni della critica sovietica, oppure è a essa perfettamente speculare, quando, ribaltando le poche posizioni favorevoli a Pil'-njak apparse in Urss, afferma innanzitutto, come nel caso di Slo-nim, che egli "fondamentalmente (…) non rappresentava la

3 Cito da Novikov 1978a: 679. 4 Cito da Novikov 1978a: 684-685.

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talità rivoluzionaria e non era comunista" (Slonim 1969: 66),5 qua-si rinfacciandogli nel contempo una scarsa chiarezza in questa sua presunta posizione ideologica. La contraddittorietà delle recen-sioni, specialmente per ciò che riguarda "l'ideologia" di Pil'njak, sia di quelle contemporanee all'uscita del romanzo nella prima me-tà degli anni venti, sia quelle attuali, ricorda molto da vicino il de-stino del romanzo Invidia (Zavist') di Jurij Oleša, pubblicato nel 1927. Qui, in un'opposizione quasi paradossale, alcuni critici vi-dero in esso l'esaltazione dell'uomo nuovo sovietico, altri invece ravvisarono nel romanzo uno scetticismo e un'ironia profonda nei confronti della nuova società che si stava costruendo (cf. Strada 1969). E similmente si può dire di Leonov, quando, nello stesso anno, pubblicò Il ladro (Vor) e fu violentemente bersagliato dalla critica che non gli perdonò di aver tenuto un atteggiamento com-piacente o perlomeno neutrale nei confronti dell'illusoria rivolta di Mit'ka Vekšin, ladro per protesta. E Leonov riscrisse il romanzo, trent'anni più tardi, trasformandolo completamente, con grande soddisfazione della critica sovietica e suscitando contemporane-amente la sdegnata reazione della critica occidentale che nella se-conda versione vide un ripiegamento dello scrittore sulla linea del realismo socialista (riconoscimento degli errori del ladro e sua ef-fettiva rinascita); del resto (ma è la stessa cosa), questa stessa critica aveva voluto vedere nella prima versione una critica vio-lenta del periodo sovietico durante la Nep. Bene o male però, e do-vendo parare i "pro" e i "contra", a seconda del punto di vista ideo-logico, essi furono tutti pubblicati in Urss, a differenza, per

5 Gleb Struve è invece stranamente d'accordo con la critica sovietica, quando afferma che "l'opera di Pil'njak può essere considerata insod-disfacente, oltre che per scarso senso della forma, anche per (…) la com-posizione confusa (…) resa ancora più oscura da una approssimativa 'filosofia della storia' a cui la narrazione è in buona parte subordinata" (Struve 1977: 54-55). Anche Ettore Lo Gatto non si discosta molto da questa valutazione, quando afferma "che l'arte di Pil'njak non era meno assurda della teoria che n'era alla base" (Lo Gatto 1968: 203), rivedendo, in parte, un suo giudizio positivo, espresso molti anni prima (Lo Gatto 1928: 96-102).

pio, della Guardia bianca (Belaja gvardija) di Bulgakov, bloccata dopo un'effimera apparizione parziale nel 1925 (riapparsa nel pe-riodo del disgelo). E anche qui la storia si ripete, tant'è vero che c'è qualcuno che ravvisa nella vecchia casa dei Turbin una specie di baluardo ideologico-politico contro il caos rivoluzionario e chi in-vece non riesce a perdonare all'autore il fatto di aver raffigurato con troppa clemenza i veri o presunti nemici della rivoluzione. E, per finire, ricordiamo il romanzo Čevengur di Platonov (ancora inedito in Urss, a parte il racconto introduttivo), dove il concetto un po' ingenuo secondo cui "domani qui ci sarà il socialismo" vie-ne interpretato come pura sfiducia dell'autore vie-nelle possibilità cre-ative del sistema (Geller 1972).6

Credo che un simile rapporto con la letteratura sia altamente improduttivo. I romanzi che abbiamo citato (ma non sono, ovvia-mente, i soli) hanno subito ciò che, adoperando un termine di Lu-kács, si potrebbe definire "la distruzione della ragione". Chiusi ne-gli stretti schematismi del momento contemporaneo, tirati in ballo ogni qualvolta la letteratura (e l'arte in genere) viene "usata" per dimostrare qualcosa (il "che cosa" è relativamente importante), essi subiscono il destino di rimanere eternamente "incompleti" nel-la ricezione del lettore e di essere quindi, per dirnel-la con Umberto Eco, "opera aperta". E qui sta la loro grandezza. Non a caso Pa-sternak affermava che la vera arte non può mai essere parziale e contro la tendenziosità in letteratura si era espresso anche Pil'njak (e prima di lui Andrej Belyj). La tendenziosità, semmai, è del let-tore (con tutto il suo diritto di cercare, all'infuori del proprio oriz-zonte intellettuale, la semplice conferma di una propria visione del mondo, eliminando o violentando tutto ciò che non rientra in que-sta sua particolare prospettiva).

Le cose parlano sempre più dell'arte che non della vita ed esistere è già un'arte. Baudek misurava la vita con l'arte, come del resto fa

6 Nell'edizione dell'Ymca-Press (Platonov 1972) manca stranamente la prima parte del romanzo (Proischoždenie mastera), già pubblicata in Urss nel 1928. La traduzione italiana è invece integrale (cf. Platonov 1975).

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ogni artista (Pil'njak 1922: 74).7

Sono parole di Pil'njak, tratte dal romanzo che ci accingiamo ad analizzare. La vita è il rappresentante (izobražaemoe), l'arte è il rappresentato (izobražennoe), in mezzo la parola "misurava" (me-ril).8 Come dire che ci sono almeno tre elementi fondamentali da tenere in considerazione: la realtà esterna, la realtà del mondo po-etico e il punto di vista dell'autore nei confronti dell'una e dell'al-tra. In seguito sarà possibile tentare di definire il sistema a cui il romanzo eventualmente appartiene e tentare di stabilire la novità, l'epigonismo o l'evoluzione di questo sistema nei confronti della tradizione letteraria precedente.

La realtà esterna

La Russia, l'Europa, la rivoluzione: sono questi i momenti effettivamente storici verso i quali l'autore si orienta per formare la "base esterna" del suo mondo poetico. La rivoluzione dovrebbe spazzare via innanzitutto l'aspetto "europeizzato" della cultura rus-sa, rivitalizzandone l'aspetto prettamente autoctono. Nella prospet-tiva storica di Pil'njak questi tre momenti fondamentali della storia russa equivalgono a modelli culturali diversi in continuo rapporto dialettico ed essi sono concepiti artisticamente non come processi storici a lungo termine, di cui vanno ricercate le cause, le eventuali colpe ed errori che hanno portato la Russia a un determinato stadio del suo sviluppo (anche se per Pil'njak l'idea che lo snaturamento della cultura russa derivi da Pietro il Grande è espressa qui e altrove in modo abbastanza evidente), bensì come momento effet-tivamente contemporaneo, la cui caratteristica principale è data

7 Tutte le citazioni che compaiono nel nostro saggio sono tratte dall'edi-zione suddetta e nel prosieguo del testo indicheremo fra parentesi la pa-gina da cui la citazione è tratta. Per la traduzione ci siamo serviti, in parte (in quanto incompleta), dell'edizione italiana: Pil'njak 1976).

8 Qui e oltre, con il termine "rappresentante" si intende il mondo che si vuole mettere in parola, con "rappresentato" il mondo messo in parola.

proprio dalla presenza simultanea dei modelli culturali suddetti. Ciò che si vuole in sostanza sottolineare, è il fatto che nella nostra analisi non si pone in discussione l'interpretazione storica del mo-mento contemporaneo operata da Pil'njak (giusta o sbagliata che sia), ma semplicemente il rapporto che esiste fra il modo di "vede-re la storia" dell'auto"vede-re e la sua esp"vede-ressione artistica.

La questione che pretende essere la storia russa una specie di ap-pendice ritardata della storia europea è cosa nota. Altrettanto nota è la questione opposta che pretende invece una specificità esclu-sivamente interna nella tradizione storico-culturale della Russia. Fra queste due tendenze interpretative si inserisce il tentativo per molti versi chiarificatore operato ultimamente da Lotman e Uspen-skij (Lotman – UspenUspen-skij 1980). La validità di questo tentativo consiste nel fatto che i due studiosi inseriscono questo problema in una prospettiva molto più ampia, riducendo allo stesso tempo il di-scorso a un problema di ordine tipologico generale. Ed è per que-sto che lo schema tipologico dello sviluppo culturale in Russia, tracciato dai due studiosi, pur fermandosi nell'analisi alla fine del XVIII secolo, offre spunti di riflessione stimolanti che vanno ben aldilà del periodo esaminato.

Secondo Lotman e Uspenskij ogni cambiamento si presenta in Russia come uno stacco netto rispetto allo stadio precedente, ve-nendo a mancare ciò che nella cultura occidentale era rap-presentato dalla cosiddetta "fascia intermedia" (la cultura russa co-nosce in sostanza soltanto il paradiso e l'inferno, ma non il pur-gatorio). Ogni cambiamento radicale veniva dunque recepito come un vero e proprio ribaltamento escatologico rispetto alla cultura precedente e di conseguenza l'avversione verso la "nuova" cultura si manifestava con un più forte attaccamento alla cultura "vec-chia". Quando la cultura "nuova" veniva a sua volta spodestata da un'altra cultura "nuova", quest'ultima veniva recepita come ritorno alle origini tradite dalla cultura appena spodestata. Si aveva in sostanza una continua convivenza di diversi tipi di cultura ("vec-chio" vs. "nuovo"), in cui il "nuovo" si ricollegava, in parte, non già alla tradizione culturale appena superata, ma a quella imme-diatamente precedente. Così, per esempio, l'avversione all'euro-peizzazione forzata della Russia voluta da Pietro il Grande con-sisteva nel valorizzare quel tipo di modello culturale che lo zar

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Pietro aveva ritenuto opportuno eliminare, ritenendolo antiquato e non idoneo allo sviluppo di una nazione moderna. Il rafforzamento parallelo di queste due tendenze fa sì che il modello culturale pre-petrino non sia scomparso nemmeno quando l'età di Pietro si era saldamente rafforzata ed era penetrata in tutti gli angoli (special-mente quegli amministrativi) della società russa. Ed è così che questa continua "dualità" della cultura russa si trasforma di fatto in una "trialità" in cui convergono modelli culturali arcaici, vecchi (rispetto al modello culturale "nuovo") e nuovi.

Questi modelli non sono evidentemente gerarchicamente equiva-lenti, spesso l'uno o l'altro sono presenti in forma latente e incapaci di manifestarsi in pieno in un periodo di relativa tranquillità, pronti però a scoppiare, non appena il paese vive un periodo di "crisi" profonda che rimette tutto in discussione. In questi momenti di cri-si le tendenze contrapposte acquistano vigore. Lo schema proposto da Lotman e Uspenskij può dunque essere espresso in termini gra-fici nel modo seguente (dove il momento di crisi è sottolineato dalla contemporanea presenza di modelli culturali diversi in piena espansione):

arcaico vecchio nuovo arcaico vecchio nuovo

arcaico vecchio nuovo

Alla fine del loro articolo Lotman e Uspenskij avvertono che la peculiarità della cultura russa dell'epoca da noi presa in conside-razione consiste nel fatto che oggettivamente il legame col passato è stato avvertito in modo più profondo, quando soggettivamente era predominante l'idea di una totale frattura col passato, e, al con-trario, che l'orientamento verso il passato comportava l'elimina-zione dalla memoria di una tradil'elimina-zione reale e l'assunl'elimina-zione delle strutture chimeriche del passato (idem, 405-406).

E credo che qui non sia difficile scorgere la validità di queste proposte di orientamento generale anche per i successivi "periodi di crisi" che caratterizzarono l'evolversi della cultura russa.

per molti versi il tipo di divisione della cultura russa in un mo-mento di crisi proposto da Lotman e Uspenskij. Ciò naturalmente non significa che l'autore si limiti a una rappresentazione mec-canica o, per meglio dire, storicamente "prospettica" del rappresen-tante, al contrario, il passaggio dalla realtà esterna a quella interna dell'opera poetica è estremamente complesso e a volte anche con-traddittorio (il che, come vedremo, non va interpretato come una caratteristica negativa del romanzo). Fra il rappresentante e il rap-presentato c'è ampio spazio per tutta una serie di elementi e con-siderazioni che determinano chiaramente il rapporto di Pil'njak col mondo che sta rappresentando. Il dato importante che risulta co-munque dall'analisi del romanzo consiste nel fatto che nessuno dei modelli culturali presenti nell'Anno nudo ha una sua vita indi-pendente. Ognuno di essi è strettamente legato all'altro, pena il fal-limento e la disgregazione. Nel romanzo Čevengur Platonov sotto-linea il fatto che tutti i personaggi, a eccezione di Saša Dvanov, so-no "senza padre" e perciò falliscoso-no, nel romanzo di Pil'njak essere "senza padre" significa non accorgersi che esiste una storia (pre-sente e passata) con cui è necessario confrontarsi. Il conflitto per-ciò, più che fra i modelli culturali contrapposti simultaneamente fra loro, esiste allo stesso loro interno e la ricerca di una soluzione o di una "via d'uscita" non consiste perciò nell'eliminazione di uno o più modelli culturali esistenti, bensì nella ricerca di quel minimo comune denominatore unificante i tre modelli culturali. Quanto poi questa soluzione sia concretamente realizzabile, è un altro discorso che entra già nel problema della poetica del romanzo.

Vediamo in primo luogo quali modelli culturali entrano con-temporaneamente nel mondo poetico di Pil'njak. In linea generale essi possono essere divisi nei tre gruppi di cui si diceva sopra: a) il mondo della "vita naturale" e il mondo delle sette con la sua innata antistatalità [modello arcaico]; b) il mondo europeizzato della Russia prerivoluzionaria [modello vecchio]; c) le "giubbe di cuo-io", ovvero il mondo dei rivoluzionari [modello nuovo]. Fin dal ca-pitolo introduttivo l'esistenza contemporanea di questi modelli cul-turali è chiaramente espressa. Il modello dominante nella descri-zione della città di Ordynin è quello "vecchio". L'europeizzadescri-zione

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della città, tanto più forzata in quanto si tratta di una città di pro-vincia che segue pedissequamente le indicazioni della capitale Pietroburgo, ma non è capace di mediare la propria tradizione con quella "nuova" (in questo senso il cronotopo del capitolo è abba-stanza esplicito, con degli spazi spesso chiaramente stabiliti e non intercambiabili), è riscontrabile fin dal primo commento alla "de-liberazione del Tribunale degli Orfani di Ordynin", in cui si sot-tolinea che "la deliberazione era scritta su carta azzurra, con penna d'oca, con ricercati ghirigori" (6) ("ghirigori" che, come vedremo, sono un motivo costante del romanzo). E poi ci sono i funzionari che devono firmare i "registri" a dimostrazione della loro ronda notturna, ma che in realtà si fanno portare in ufficio, la mattina do-po, i tavoli a cui quegli stessi registri venivano legati (6). Un'evi-dente allusione alla cultura europeizzata si ha inoltre nello storpia-mento delle parole straniere, in modo che advokaty diventa ablo-katy (9), fino ai libri tutti "traduzione dal francese" (26) del libraio Varygin.9 E, sopra tutto e tutti, questo mondo immobile dei mer-canti ("Duecento anni annoverava l'illustre famiglia di mermer-canti di Ratčin") (6), mercanti che dicevano parole convenzionali per non farsi capire dal cliente, in quanto "se non prendi false misure – se non inganni – non vendi" (9). Eppure, in questa città addormentata, "dai cortili e dagli androni" (16-17) guardava un'altra Russia, quel-la che rifiutava l'ufficialità e che viveva ancora secondo modelli culturali arcaici. Così, per esempio, i signori della città "al sabato si recavano al bagno" e, dopo, "correvano nudi e veloci sino al foro per immergersi una volta, due, nell'acqua diaccia" (8).10 Oppure,

9 Ci sembra interessante sottolineare il fatto che nell'edizione del romanzo del 1929, inserito nella raccolta delle opere di Pil'njak in base alla quale è stato pubblicato anche il recente libro di opere scelte (Pil'njak 1978), il modello culturale europeo si ritrova anche nel francese dello studente Ogonek il Classico che cerca di mendicare qualche copeco dall'inse-gnante Blanmanžov con uno sdolcinato "Vous comprenez?" (Idem, 37). Questo, secondo noi, sottolinea ancor più il legame che, anche dal punto di vista "storico", collega questo personaggio marginale con Boris Or-dynin e Ivan Spiridonovič Archipov (vedi oltre).

10 Sul significato culturale della "sauna" cf. Lotman – Uspenskij 1980: 380-381.

altro esempio di vita anti-ufficiale non-cristiana (cf. Lotman – Uspenskij 1980: 397-398), il padrone Ivan Emel'janovič "aveva una moglie grassa (…), ma in letto con sé (…) non prendeva lei, bensì Mašucha, la governante" (10), la stessa che poi il padrone penserà bene di mandare dal figlio Donat a passare la notte per fargli dimenticare un amore "solo" platonico. E non è un caso che l'arcivescovo Silvestr annoti nella sua "Storia della Grande Russia, della religione e della rivoluzione", dove già il titolo da l'idea della contemporanea presenza di più modelli culturali, la bestialità degli abitanti di Ordynin:

Vivevano nelle foreste come belve, divoravano ogni cosa impura, usavano il turpiloquio di fronte ai padri e alle spose; non v'erano fra loro matrimoni, ma giochi pagani fra i villaggi (16).

E poi c'è il modello nuovo, la rivoluzione che arriva, a sor-presa, da fuori: "E il primo treno che si fermò proprio vicino a Ordynin fu un treno rivoluzionario" (14). È il modello che do-vrebbe scoprire tutte le forme latenti dell'addormentata città di Or-dynin:

Per l'antica città, per il morto Cremlino andavano con bandiere,

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