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A n g e l o M a i n a r d i , CASANOVA. L'ULTIMO MISTERO,

pp. 310, € 18, Tre Editori, Roma 2010

La citazione wildiana da cui il libro parte ("Il vero mistero del mondo è il visibile, non l'invi-sibile") già suggerisce il senso di una ricerca: sfuggendo le vie modaiole degli enigmi a buon mercato e forte di anni di appassionata immersione nel tema, l'autore dedica questo seguito ideale del Demone di Casanova (sem-pre Tre Editori, 2004) all'ambizioso obiettivo di scandagliare l'ultimo e misterioso periodo di vita del grande libertino: la vita esteriore di bi-bliotecario al castello boemo di Dux, ma so-prattutto quella interiore testimoniata da lette-re (sue, o più spesso di altri) e opelette-re di gene-re molto vario. La scommessa è felicemente vinta, e il saggio, intrigante,

do-cumentatissimo, di stile eccel-lente quanto profondo e ricco di suggestioni, si fa divorare: un ritratto che non si consuma nella celebrazione più o meno complice, non tace gli aspetti oscuri del personaggio (uno fra tutti, la disinvoltura sessua-le con sessua-le bambine), ma ne sot-tolinea la vastità di interessi e ne ripercorre passo dopo pas-so le battaglie intellettuali. Sco-priamo cosi che l'immagine di un malinconico e protratto cre-puscolo di Casanova (genial-mente riproposta tra l'altro da Schnitzler e Fellini) non rispon-de alla verità storica, e che nonostante alcuni problemi

Dux non rappresenta affatto un luogo di deso-lato esilio; scopriamo quanto Casanova sia at-tento a ciò che accade in Europa; compren-diamo il senso dei misteri che egli stesso in-tesse, attraverso le ambiguità e i silenzi inca-stonati nell'autobiografia, e il rapporto genera-le con la scrittura. E arriviamo a intuire, senza corteggiare soluzioni improbabili, che una chiave per interpretare talune ostilità e fatti "strani" nei suoi ultimi anni - e fino al mistero della tomba - va ravvisata nella grande parti-ta che si gioca all'epoca tra massoni e anti-massoni, sull'onda di confuse paure delle grandi monarchie per effetto del tifone rivolu-zionario. Al di là di saltuari scoraggiamenti, il Casanova che emerge dalla documentazione non è un uomo alla deriva, ma un intellettuale battagliero e vitale; e Mainardi ne incalza il ra-gionare attraverso un corpus monumentale di testi, collocandolo felicemente nel grande af-fresco sulla crisi di un'epoca.

FRANCO PEZZINI

proposto nel 2010 La vergine del sudario a cura di Riccardo Reim, in versione finalmen-te completa. Dove il coinvolgimento di un re-gista come Reim finisce con il richiamare il curriculum di Stoker, impresario al Royal Lyceum Theatre del leggendario divo Henry Irving, e affascinato per tutta la vita dai mec-canismi dello spettacolo. Un dato avvertibile peraltro anche nell'analisi del Dracula, nelle cesure drammaturgiche dei suoi capitoli, nel-l'uso delle strutture di scena (il castello, il manicomio) poi in effetti valorizzate nelle tra-sposizioni: e proprio a tale dimensione si rapporta per questa nuovissima edizione il versatile Luigi Lunari, grazie all'esperienza di una vita fra teatro e televisione. Un'attenzio-ne che emerge sia attraverso un'ottima tra-duzione, tale da valorizzare il ritmo dei dialo-ghi e in generale della narrazione in sogget-tiva (com'è noto a base di diari, lettere e

re-disegni di Franco Matticchio

gistrazioni fonografiche), con un risultato di freschezza che restituisce fiato al testo; sia nell'inquadramento del romanzo, in sede di prefazione, proprio alla luce del teatro.

(F.P.)

Bram Stoker, DRACULA, ed. orig. 1897, a cura di Luigi Lunari, pp. 535, €9, Feltrinelli, Milano 2011 Assidua è la presenza nei cataloghi no-strani di questo mattatore dell'immaginario, emerso dalla letteratura ma assurto a mito planetario grazie alle trasposizioni teatrali e soprattutto cinematografiche. Certo, Dracula rappresenta anche attraverso i suoi limiti let-terari un'incredibile summa di istanze sociali, morali, religiose, politiche, persino economi-che del proprio tempo, ma capace di espri-mere miticamente con tutta la duttilità neces-saria caratteri più generali della modernità: da cui i ritorni ossessivi al suo dramma per l'espressione di inquietudini, angosce, desi-deri delle più varie società novecentesche. Fino al nuovo millennio, al punto da far rico-noscere nell'alterità di colui che non appare allo specchio (o che piuttosto non ricono-sciamo nella nostra immagine riflessa) uno dei miti chiave per avvicinare il moderno Oc-cidente. Va detto che Bram Stoker è da qual-che anno in Italia oggetto di una piccola ri-scoperta anche oltre il novero delle opere più note (si pensi a II passo del serpente, Palo-mar, 2007, o a Doppie identità. I più famosi impostori della storia, Robin, 2009; cfr. "L'in-dice", 2010, n. 9) e con qualche attenzione filologica: per esempio, Castelvecchi ha

ri-M a r y Shelley, FRANKENSTEIN, OVVERO IL ri-

MODER-NO PROMETEO, ed orig. 1818-1831, trad. dall'in-glese di Luca Lamberti, introd. di Nadia Tusini, pp. XXI-248, €8,50, Einaudi, Torino 2011

Benché le edizioni non manchino (come per tutti i classici, ma tanto più quelli spesi in po-polarissime trasposizioni su schermo), una ri-proposta dei Frankenstein è sempre stimolan-te. In particolare quando a introdurre alla let-tura è una voce capace di dar conto della rid-da di ombre in filigrana alla fiaba nera, com'è il caso di questa nuova edizione grazie alla belle pagine introduttive di Nadia Fusini. Se nell'anno di apparizione, 1818, il gotico rap-presenta un genere popolare ma ormai un po' frusto (fino, per intendersi, alle parodiche ab-bazie di Northangere degli incubi), il groviglio etico proposto da un'autrice giovanissima svela una drammatica autenticità tutta nuova. Vi si respira l'eredità ideale dei brillanti intel-lettuali genitori di Mary, ma più in generale tut-to un tut-tortuoso romanzo familiare, segnatut-to da una continua contiguità tra nascita e morte (i figli spenti in fasce - magari ancora senza no-me, come la Creatura ma anche l'autrice alla prima edizione - o destinati a morire prestissi-mo, la scomparsa stessa della madre di Mary poco dopo la nascita): una realtà tanto più spiazzante in un contesto in cui "le donne che scrivevano (...) non figliavano (...). E di certe cose corporali si taceva". Ma al contempo vi appare quella cifra del monster usata sui gior-nali coevi per stigmatizzare le rivolte operaie del 1811-17 contro le macchine, temuti robot strappalavoro, in una dialettica che traghetta in fondo fino a certi odierni impatti occupazio-nali dell'informatizzazione. Se l'edizione qui felicemente presentata è, come al solito, quel-la più matura e levigata apparsa nel 1831, sa-rebbe però bello che i lettori italiani potessero vedersi proporre anche l'Ur-Frankenstein ori-ginario del 1818: sicuramente più rozzo e im-perfetto, ma testimone a caldo degli spettri psichici e sociali di quella notte famosa sul la-go di Ginevra.

(ER)

W a l t e r M o s l e y , UN BACIO ALLA CANNELLA, ed.

orig. 2005, trad. dall'inglese di Carlo Alberto Rizzi, pp. 305, 17, Einaudi, Torino 2010

Decimo romanzo della serie dedicata al de-tective Easy Rawlins, che Einaudi "Stile Libero Noir" ha deciso di proporre al pubblico parten-do dal nono volume, Little Scarlet, già compar-so nella medesima collana (2008). Il mancato ri-spetto dell'ordine di pubblicazione della serie, iniziata nel 1990 con l'acclamatissimo Devil in a Blue Dress (tradotto sempre da Einaudi "Stile Li-bero Noir", Il diavolo in blu, 2011), se può irrita-re il purista non compromette il godimento di questo solidissimo romanzo che si muove dal territorio del noir per scivolare senza difficoltà nella narrativa storica. Mosley, che è stato allie-vo di Edna O'Brien, offre uno spaccato dell'A-merica della metà degli anni sessanta, e lo fa concentrando la propria attenzione non tanto sulla trama, che è ingegnosa mo non esageratamente com-plicata, quanto sui personaggi, sui loro rapporti, sulle loro scel-te. Rawlins, i suoi amici Mouse e Saul Lynx, i sospetti e le vitti-me in quel che pare essere un semplice caso di persone scomparse, diventano i tasselli di un puzzle che ritrae una na-zione a una svolta. Non a caso si è parlato di "poliziesco etico" per descrivere il genere prati-cato da Mosley, un autore con trentatre romanzi all'attivo su un arco di trentaquattro anni, e che non è mai stato intrappolato dalle pastoie del genere. Il fuo-co della narrativa sta nelle scel-te dei personaggi, nella loro ca-pacità di restare aderenti a un codice etico, di ri-nunciare alla lusinga del male. Ed è lo stesso Rawlins che, nelle prime pagine del romanzo, deve compiere una scelta di questo tipo, riba-dendo il proprio ruolo di modello imperfetto al centro della narrativa di Mosley. Un romanzo ec-cellente, per alcuni il migliore dello scrittore.

DAVIDE MANA

Alessia Gazzola, L'ALLIEVA, Longanesi, Milano 2011

pp. 370, € 18,60,

Opera prima presentata con un massiccio battage pubblicitario, il romanzo della giovane Alessia Gazzola si presenta come un espemento interessante, ma non completamente ri-uscito. C'è poco, in L'allieva, che il frequentato-re abituale del genefrequentato-re thriller non abbia già in-contrato altrove: un medico legale nei panni dell'investigatore, un omicidio che coinvolge persone vicine alla protagonista, la descrizione minuziosa di analisi e procedure. Patricia Corn-well è chiaramente un nume tutelare di que-st'opera - la cosa non è in sé un peccato - e l'ambientazione italiana non nuoce particolar-mente alla narrazione. Personaggi e ambienti sono stereotipati e in linea con un certo imma-ginario televisivo, ma questo non costituisce una sostanziale rottura rispetto ai modelli, e dif-ficilmente alienerà gli appassionati del genere. Meno riuscito, forse, e meno giustificato, il ten-tativo di rendere la protagonista simpatica "a prescindere", dotandola di un carattere mutua-to (come la fascetta dell'edimutua-tore non manca di ricordarci) dalla Bridget Jones dei romanzi di Helen Fielding. La trama è perciò costellata dalle sfortune e dalle pessime figure della vo-lenterosa Alice Allevi, medico legale al suo esordio nella professione, e già sottoposta a strapazzamenti che poco hanno a che fare con la medicina forense. Il romanzo soffre per que-sta insolita schizofrenia tra poliziesco, romanzo rosa, noir. La campagna pubblicitaria non la-scia alcun dubbio sul fatto che il romanzo sia diretto, e in maniera poco lusinghiera, a un pubblico trasversale, probabilmente femminile e non esageratamente esigente. Se trama e narrazione restano più che godibili, il perso-naggio della protagonista cammina sulla linea sottile che separa la simpatia che si prova per i cuccioli un po' goffi e l'irritazione quasi fisica che il gigioneggiare a oltranza spesso provoca

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Eric G o b e t t i , NEMA PROBLEMA! JUGOSLAVIE.

DIECI ANNI DI VIAGGI, prefaz. di Daniele Ga-glianone e Luca Rasiello, pp. 155, € 15, Mi-raggi, Torino 2011

Perché ostinarsi a viaggiare negli "an-goli più oscuri" di quelle "terre insangui-nate" che un tempo sono state Jugosla-via? Non sarebbe più facile adeguarsi a quella particella, "ex", che, per paura di ri-manere senza etichette, abbiamo finito per incollare addosso alle nuove nazioni che l'hanno sostituita? Quale ossessione può portare il viaggiatore a ritornare fatal-mente "nel ventre cattivo dell'inferno" di Mostar e di Srebrenica? Nema Problema! risponde a queste domande raccontan-doci dieci anni (2000-2010) di vagabon-daggi del suo autore, Eric Gobetti, attra-verso molte delle nuove giovani "Jugosla-vie": Serbia, Croazia, Bosnia, Montene-gro, fino ai confini dell'Albania. Dieci anni di instancabili scorribande, che portano il lettore nei luoghi più neri della tragedia, ma nello stesso tempo collezionano le fra-gili tracce del nuovo che a fatica va ger-mogliando sul passato: la possibilità, o al-meno il miraggio, di un ennesimo inizio. Il reportage di Gobetti.ci mostra così i se-greti di quell'altrove, lontano e vicinissimo, che inizia sull'altra sponda dell'Adriatico, con le sue frontiere che il tempo cancella e riscrive a ogni generazione, le lingue che suonano tanto simili eppure così di-verse, i pericolosi "giochi dell'identità" che continuano a dividere le sue genti, l'allucinata povertà dei suoi villaggi, i

fan-centrismo per sostituire il giudizio con l'at-teggiamento di chi si mette a guardare, ad ascoltare, a comprendere. E prova a raccontarci che cosa significa vivere in un mondo in eterna contraddizione con se stesso: tra la memoria della tradizione e il desiderio d'Occidente, le spiagge incon-taminate e i campi minati, la dolcezza del-le sue melodie e la furia della viodel-lenza. Un mondo in cui, per citare Vinicio Caposse-la, "la miseria s'intride con i sogni e la pol-vere si alza come uno sparo".

L U I G I M A R F È

tasmi silenziosi di orrori ancora vividi nel-la memoria. Ma anche quell'incredibile amalgama di passione e dismisura, che è forse il più autentico tratto comune di ogni microcosmo balcanico. Una combinazio-ne che, dopo lo shock iniziale, finisce per irretire il viaggiatore nelle sue seduzioni, e lo convince a svestire i panni

dell'etno-creatore del Golem) e Kubin, grande illu-stratore di Poe e temerario esploratore di L'altra parte. Compagni di strada, in fon-do, di Daubler che, cinquantenne, recu-pera quel primo Novecento anti-positivi-stico e irrazionalianti-positivi-stico, affamato di tutto ciò che potesse condurre, nel segno deir'unheimlich", lontano dai sentieri del prevedibile e del noto. Lettura stimolante dunque, Siora Maddalena, che ci fa risco-prire un dimenticato "Italo Svevo" nato al-l'ombra di san Giusto.

FULVIO SENARDI

na, "l'involucro è il messaggio". I matri-moni, la droga, gli aborti, la morte del marito, la rivalità con Marilyn Monroe diventano tasselli di un dramma non più personale, ma collettivo. Ed è proprio nel confronto con Marilyn che Jackie di-chiara, inaspettata, la propria superiori-tà, perché sa di poter diventare exem-plum per le generazioni femminili del dopoguerra, al contrario dell'attrice, che è destinata, invece, a essere vitti-ma della sua stessa luce e carnalità.

F E D E R I C A T U R C O

Theodor Daubler, SLORA MADDALENA, trad. dal tedesco di Marella Magris, con una nota di Aldo Napolitano, introd. di Lorenza Rega, pp. 121, € 15, Istituto Giuliano di Storia Cultura e Docu-mentazione di Trieste e Gorizia, Trieste 2010

Nato a Trieste nel 1876 da una famiglia di lingua tedesca, Daubler vi trascorse vent'anni, prima del trasferimento a Vien-na, assimilandovi quell'amore per le pla-ghe meridionali di sole bruciante e mare azzurro che trasferì in molte delle sue opere: dal capolavoro, L'Aurora boreale (1910), un poema debordante e misterio-sofico, da poco ristampato a Dresda in tre volumi, a quell'ispirato Inno all'Italia che sembra proclamare D'italianità" del poeta, che optò in effetti, nel 1918, per la cittadi-nanza italiana, salvo poi sbarazzarsene dieci anni dopo infastidito dal provinciali-smo di un fasciprovinciali-smo troppo "autarchico".

Grande mediatore culturale fra mondo italiano e tedesco, ammira-tore dei futuristi e seguace dell'e-spressionismo, Daubler pubblica nel 1927 una raccolta di novelle, Bestrickungen (Ammaliamenti), di cui fa parte un racconto di am-bientazione triestina Siora Madda-lena, presentato ora per la prima volta al pubblico italiano, in edizio-ne bilingue. In piena /Verve Sach-lichkeit Daubler evoca, con mossa apertamente polemica, il suo mondo infantile in una città surrea-le, fagocitata dalla fantasia di un io bambino che avverte intorno a sé un formicolare di presenze arcane e contempla, stupito e affascinato, apparizioni spettrali e visitatori oc-culti, di cui è catalizzatore l'inquie-tante Siora Maddalena, più una fi-gura femminile alla Grimm che, semplicemente, la balia della ma-dre. La scrittura eccitata e disar-monica e i temi di una inusuale Trieste "magica" proliferante di "oscure visioni oniriche", e in cui si risolve, quasi a imbu-to rovesciaimbu-to, tutta la trama del racconimbu-to, non rimandano tanto all'espressionismo, quanto piuttosto al romanticismo tedesco, quello che aveva espresso un'ultima me-tamorfosi negli austrotedeschi Meyrink (il

Elfriede Jelinek, JACKIE. ed. orig. 2004, trad. dal tedesco di Luigi Reitani, pp. 52, €8,50, Fo-rum, Udine 2010

Non confessione, ma urlo dai tratti espressionisti il lungo monologo di Jac-queline Kennedy proposto dal Premio Nobel Elfriede Jelinek come

quarta parte della pentalo-gia intitolata Der Tod und das Màdchen l-V, che, nelle intenzioni dell'autrice, rap-presenta la "morte della fan-ciulla" in un mondo domina-to dagli uomini. La Jackie che parla non è però la don-na realmente esistita, quan-to piutquan-tosquan-to una voce rita-gliata dall'immaginario col-lettivo; è il "mito" inteso nel senso barthesiano di siste-ma di comunicazione, mes-saggio, forma, modo di si-gnificare, parola (e d'altra parte lo stesso Barthes vie-ne ironicamente indicato, nella didascalia di apertura, come "collaboratore" dell'o-pera). Attraverso lo stream of consciousness, gli

episo-di principali della vita della donna scor-rono sulla scena restituendone una fi-gura priva di qualunque contestualizza-zione storica, una figura che è puro in-volucro, "forma" appunto, e, pertanto, destinata alla vita eterna, destinata a diventare simbolo nella memoria di tut-ti. Jacqueline può sopravvivere all'im-bruttimento della società grazie al fatto di essere solo "abito", come lei stessa afferma: "Anch'io sono inafferrabile, non sono di carne, sono il suo fodero, sono l'abito!". Nell'interpretare questa dichiarazione, però, non si dimentichi che "abito" non è solo ciò che indossia-mo, ma anche il processo continuo di semiosi in cui confluiscono aspettative, percezioni, pratiche ecc. "Abito" è sia il risultato, sia la condizione della produ-zione sociale del nostro significato, del-la nostra essenza (cfr. Teresa De Laure-tis, 1999). Elfriede Jelinek sembra sug-gerirci, insomma, che, per questa

don-Paula McLain, UNA MOGLIE A PARIGI, ed. orig. 2010, trad. dall'inglese di Simona Fefè, pp. 366, €17, Neri Pozza, Vicenza 2011

Come se il cinema non fosse bastato ad accumulare dettagli lacrimosi e scandali-stici sulla vita di Ernest Hemingway, come

se ancora le tante biografie già apparse non avessero setacciato a sufficienza i dettagli più scabrosi di quest'uomo che, tra l'altro, ha sempre raccontato di sé, compare ora una pesante storia biografi-ca "inventata" del primo matrimonio tra lo scrittore, allora intento al lavoro di Festa mobile, con la neutra Hadley Richardson. Giovanissima, l'autrice la descrive come del tutto rapita dal fascino di un uomo già avanti nella carriera. Stupisce l'accumulo di nomi e di testi, da Stein a Pound, me-scolati a una narrazione del tutto piatta e molto simile alla più corriva chick Ut. Un fenomeno di pura paraletteratura che si nutre di vicende culturalmente significati-ve solo a fini commerciali. Nessun disignificati-verti- diverti-mento, solo elenchi di incontri e tradimen-ti, un taglia e cuci vampiresco che an-drebbe ignorato e non valorizzato come se fossimo davanti a un lavoro di critica letteraria.

CAMILLA VALLETTI

Aglaja Veteranyi, L o SCAFFALE DEGLI ULTIMI RESPIRI,

ed. orig. 2002, trad. dal tedesco di Angela Lorenzini, pp. 129, € 13, Keller, Rovereto 2011

Durante la sua vita, Aglaja Veteranyi è stata molte co-se: attrice girovaga, acrobata, scrittrice di successo, donna dalla scura e delicata sensibilità. Nata in Romania nel 1962 da una coppia di circensi, Aglaja visse i suoi primi quindici anni seguendo i genitori in giro per il mondo. Quando nel 1977 la madre acrobata decise di fissar le ten-de a Zurigo, Aglaja parlava perfettamente il rumeno e lo spagnolo d'Argentina, ma non sapeva né leggere né scri-vere. In pochi anni, dopo aver studiato recitazione a Zuri-go, iniziò a scrivere testi teatrali e romanzi che ottennero presto importanti riconoscimenti di crìtica e di pubblico. Il suo primo libro, tradotto in italiano con il titolo Perché

il bambino cuoce nella polenta (Tufani, 2005), vinse

l'A-dalbert von Chamisso Fòrderpreis e il Kunstpreis Berlin. Nel 2002, poco prima che uscisse il suo secondo ro-manzo, che ora leggiamo grazie alla bella traduzione di

Angela Lorenzini, Veteranyi decise di togliersi la vita abbandonandosi alle acque del lago di Zurigo. Secondo un personaggio del libro, i morti portano a Dio i loro ul-timi respiri, nei quali egli legge tutta la loro vita. Per

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