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Ad ogni crimine, la sua legge; ad ogni criminale la sua pena (M. Foucault,

Sorvegliare e punire)

1. L'onore della donna e l'imbarazzo della legge

L’apporto recato dalla svolta illuministica nella storia dell’infanticidio fu innegabilmente enorme; la campagna per l'abolizione della pena di morte, l’attenzione verso il soggetto criminale, l’inserimento della questione all’interno di un più vasto discorso di riforma della morale e dei costumi, di un ideale di giustizia non solo repressiva ma in grado di migliorare la società intera attraverso una buona ed efficace politica del crimine: tutti questi elementi, prospettive ed aspetti intrecciati conferiscono alla rappresentazione e alla definizione della pratica un rilievo radicalmente mutato, un punto di vista che segna indubbiamente una profonda rottura nel percorso repressivo del crimine attraverso l'evoluzione del diritto occidentale. La riflessione che prenderà corpo nelle leggi dei codici penali ottocenteschi traccerà e descriverà la propria opera come la concretizzazione dello sforzo riformistico, la risposta decisa all’appello lanciato nel secolo precedente dagli uomini illuminati che per primi han posto il loro sguardo sulle condizioni della donna infanticida, sulle circostanze sociali e materiali del delitto, puntando il dito contro gli elementi astratti del diritto caratterizzante la fase della cruda repressione da parte della giustizia degli Stati moderni. Proprio il ministro della giustizia Giuseppe Zanardelli, nel presentare con orgoglio uno degli ultimissimi progetti che porterà al codice del 1889, introduce il proprio discorso sull’infanticidio, invocando il patrocinio di Cesare Beccaria «il primo – come ricorda il guardasigilli - a chiedere un più mite trattamento in favore

della madre, che per salvare il proprio onore, sopprime il neonato illegittimo»178. Non

senza una certa enfasi retorica, la nuova prospettiva sul crimine fornita dal diritto ottocentesco si autorappresenta infatti come la fase di compimento del progresso della civilizzazione dall’«esorbitanza» della repressione dispotica e inefficiente tipica delle leggi d’ancien régime sino al sistema logico e razionale del diritto di punire che prende forma nelle leggi scritte e codificate, garanti dell’applicazione rigorosa e universale della giustizia a tutti i cittadini degli Stati nazionali ora costituiti.

Uno dei principali motori che spinse la legge a modificarsi fu, com’è stato rilevato da alcuni studi della storiografia criminale, l’elevatissimo numero di assoluzioni che costituivano l’esito sempre più diffuso dei processi che vedevano sul banco dell'accusa giovani madri sospettate di aver ucciso il proprio neonato. I giurati si trovavano infatti a giudicare casi di donne nei riguardi delle quali, in molti casi, non si perveniva all’intima convinzione riguardo alla provata colpevolezza, per via delle circostanze segrete in un cui l’atto si consumava e, di conseguenza, delle risposte incerte date dal perito riguardo alle cause della morte della vittima: tali ragioni erano già di per sé sufficienti a mettere in dubbio che l’imputato meritasse effettivamente la pena di morte, o, nella più benevola delle ipotesi, la pena del carcere perpetuo. In aggiunta a tali circostanze che minavano alla ricostruzione fedele della scena del crimine è stato fatto notare come il fenomeno dell'alto numero delle assoluzioni di cui tale crimine ha goduto a partire dalla seconda metà del XVIII secolo sia in effetti indice di un certo sentimento di clemenza e compassione che i giurati, e in generale l'opinione pubblica, manifestavano nei confronti delle storie di donne costrette al delitto per coprire la propria vergogna179. Maria Pia Casarini, in

uno studio relativo ai processi per infanticidio dal 1816 al 1823 presso il tribunale di Bologna fa presente che, nonostante le pene ivi previste corrispondessero a quelle per il parricidio ovvero la carcerazione immediata seguita dalla pena di morte, in realtà tale crimine non conosceva mai questo tipo di esito: molto spesso il processo si

178 Cfr. G. Zanardelli, Relazione ministeriale, cit., p. 243

179 Cfr. D. Vallaud, Le crime d’infanticide et l'indulgence des cours d'assises en France au XIXème

siècle, in «Social Science Information», vol. XXI, 1982, pp. 475-498; R. Lalou, L'infanticide devant les tribunaux français (1825-1910), in «Communications. Dénatalité: L'antériorité française, 1800- 1914», vol. 46, 1988, pp. 175-200; J. M. Donovan, Infanticide and the Juries in France, 1825-1913, in «Journal of Family History», vol. XVI, n. 2, 1991, pp. 159-162.

concludeva con un'assoluzione o, nei più rari casi in cui veniva pronunciata una sentenza di condanna, la pena non superava i dieci anni di carcere180. Tale esito

costituirà un vero e proprio rompicapo per i giuristi lungo tutto il XIX secolo, costretti a scontrarsi con la prova evidente dell’incompatibilità tra i principi saldi della legge e la complessità diversificata dei casi che i giudici si trovano a sentenziare: come mantenere negli animi dei virtuali delinquenti il timore costante della vendetta da parte dello Stato, per un crimine che incontrava sempre più frequentemente la benevolenza di chi lo giudicava181?

Per aggirare in un primo momento tale scoglio, le diverse legislazioni contemplarono accanto alla definizione generica del crimine una fattispecie scusata, contemplata, nella maggior parte dei casi, per la madre della vittima o, talvolta, per coloro che cooperano salvare il di lei onore182. La maggior parte delle leggi europee specifica

inoltre la circostanza del parto illegittimo come elemento necessario per accordare l'attenuante; fa eccezione tuttavia la legge francese la quale si limita ad accordare l’attenuante alla madre, senza ulteriori qualifiche. Alcune leggi pongono un’ulteriore restrizione riguardo alle modalità con cui viene commesso l’atto o le caratteristiche del soggetto attivo: l’uccisione deve avere come finalità quella di evitare lo scandalo derivato dalla gravidanza fuori matrimonio per una donna «di buon nome e fama», gravidanza che la sottopone alla minaccia di veder distrutto il proprio onore, o addirittura, come menziona il codice parmense, la propria vita.

La nota interessante è che tale sistema che prevede fattispecie scusate e circostanze attenuanti viene introdotto e applicato quasi esclusivamente all’infanticidio; emblematico in tal senso è il codice francese, il quale, dopo aver inaugurato il primo decennio della propria giurisdizione con estrema severità, introduce con la legge del 25 giugno 1824, una disposizione speciale che riconosce al giudice la facoltà di 180 Cfr. M. P. Casarini, Maternità e infanticidio a Bologna: fonti e linee di ricerca, in «Quaderni

storici», 49, a. XVII, n. 1, 1982, p. 276

181 Cesare Lombroso commenterà il progetto del Codice Penale concentrandosi specialmente su tale

aspetto e citando a tal proposito, l’insegnamento di Beccaria. La rarità delle condanne, spiega Lombroso, ha come effetto di gettare nel ridicolo la legge stessa e far diventare, o per lo meno far percepire, come ingiusta la condanna inflitta in qualche raro caso. Effetto perverso delle pene non applicate «l’individuo colpito dalla pena ha ben ragione di lagnarsi di essere punito per un fatto, al quale egli è stato spinto potentemente dallo spettacolo dell’impunità degli altri che pure lo commisero» C. Lombroso, Troppo presto. Appunti al nuovo codice penale, Torino, Bocca, 1888, p. 34

abbassare la pena di un grado, laddove concorrono delle circostanze attenuanti, solo per il crimine dell'uccisione dell'infante commesso dalla madre. Si legge infatti nella legge che

la peine portée par l’article 302 du Code Pénal contre la mère coupable d’infanticide pourra être réduite à celle des travaux à perpétuité. Cette réduction de peine n’aura jamais lieu à l’égard d’aucun individu autre que la mère

Tale disposizione permane fino alla legge del 1832 con la quale tale beneficio verrà esteso anche agli altri crimini183. In un certo senso ciò testimonia di come un crimine

quale l'infanticidio, che ricongiunge una questione allo stesso tempo giuridica – legata cioè alla repressione di comportamenti lesivi del diritto - e politica – il governo delle condotte sessuali e delle capacità riproduttive degli individui posti sotto l'imperio della legge, sia emblematico di un dilemma particolare che pone i principi universali del potere repressivo di fronte alla necessità della propria revisione.

Il percorso che ha portato la legge francese a riadattare l'articolo sull'infanticidio è mostrato nel dettaglio dalle riflessioni del giurista di Lovanio Charles Imbert, in uno dei primissimi trattati ottocenteschi dedicati esclusivamente a tale critica. L'opera, pubblicata nel 1822, ovvero due anni prima dell'emanazione della legge che prevede le circostanze attenuanti per la madre che uccide il proprio neonati, si sviluppa sulla linea della critica rivolta all’eccessiva crudeltà con cui il codice francese reprime tale crimine in maniera indistinta, fornendo una casuistica che contempla diverse modalità del protrarsi del delitto, diversi moventi e circostanze, differenti soggetti diversamente colpevoli. Così Imbert elenca, interroga e commenta diversi scenari che possono presentarsi davanti al giudizio della legge: il crimine commesso da un padre di famiglia, che, oppresso dalla povertà e dal grande numero della prole, frustrato dalla speranza del guadagno dopo che il padrone gliel’ha negato, priva l’infante di una vita miserrima seguendo una decisione impulsiva, «dolore multiplici

oppressus, misericordia motus»184, non è forse maggiormente scusabile – si chiede il

giurista- di quello del padre che pianifica il crimine semplicemente sulla base del sospetto del talamo violato? Similmente, il caso della donna onesta che compie il crimine seguendo l’infelice consiglio dettato dalla paura delle ire del padre, della vergogna e la speranza di conservare la stima degli uomini e dei genitori, e dal dolore causato dal parto, non è forse diverso da quello della prostituta che pianifica come eliminare il frutto del proprio corpo corrotto, al fine di poter perpetrare la vita viziosa?185.

È ben evidente come, pur all'interno di un sistema ancora diversificato, che prevede al proprio interno diverse rappresentazioni del crimine dell'uccisione neonato, la fattispecie che si impone all'attenzione è quella che riduce l'infanticidio al crimine commesso dalla madre nubile, o chi per lei, al fine di sopprimere “il frutto della propria colpa”. Tuttavia, come si è voluto sottolineare nel capitolo precedente del presente lavoro, attraverso il persistere della fattispecie aggravata dell'infanticidio, la legge dava prova della consapevolezza che i casi di questo tipo non costituivano la totalità del fenomeno dell'uccisione dei neonati, una pratica che restava diffusa attraverso forme diverse, coinvolgendo diversi attori, non solo femminili, dettati da moventi non sempre riconducibili alle normative della morale sessuale. Uno studio interessante della studiosa americana Brigitte H. Bechtold, basatosi sui documenti forniti dai registri dello stato civile francese della prima metà dell'Ottocento, ha ad esempio mostrato come la pratica di uccidere le figlie femmine fosse ancora largamente diffusa tra le famiglie francesi, in particolar modo presso le famiglie titolari di possedimenti terrieri, ai fini di controllare il numero della prole e garantire l'integrità della trasmissione del patrimonio familiare186. Casi come questi, fa notare

Bechtold, che nulla hanno a che vedere con gli scandali della morale sessuale, emergono difficilmente se si considerano esclusivamente le fonti criminali, per le quali l'infanticidio viene rappresentato in maniera sempre più univoca come il crimine della donna nubile sulla propria prole illegittima. Per il territorio italiano

184 C. Imbert, Dissertatio inauguralis juridica de crimine infanticidii, Lovanii, Typis Henrici Baumans

Bibliopolae, 1822, p. 18

185 Ivi, pp. 18-19

186 Cfr. B. H. Bechtold, Infanticide in 19th Century France: A Quantitative Interpretation, in «Reveiw of Radical Political Economics», n. 33, 2001, pp. 165-187

manca uno studio esaustivo che permetta di ipotizzare quali forme potesse assumere l'uccisione dei neonati durante quest'epoca in cui la legge contemplava ancora diverse fattispecie del crimine: l'attenzione nei confronti dell'infanticidio dettato per salvare l'onore femminile si impone qui come dominante e, costituendo nei propri sviluppi la linea di interpretazione principale, cancella le tracce di eventuali crimini presenti attraverso i diversi livelli della scala sociale.

2. La legge e la natura: un crimine «sui generis»

Con il codice penale toscano del 1853 si assiste ad un importante mutamento all’interno del panorama giuridico italiano ed europeo187. La prima evidente

differenza sta nella scelta operata dal legislatore di far cadere la fattispecie aggravata dell’uccisione del neonato, diversamente dalle altre legislazioni italiane e europee che continuano invece a mantenere la duplice definizione del reato. Con l’articolo 316 del codice toscano l’infanticidio si riduce infatti ad una sola ed unica ipotesi coincidente con la fattispecie scusata, con cui si stabilisce che:

Quella donna che, nel tempo del parto o poco dopo di esso, ha dolosamente o colposamente cagionato la morte della propria prole, illegittimamente concepita, è rea d’infanticidio.

La svolta rispetto al passato non è irrilevante: il crimine stesso, associandosi solo ed

187 Prima del 1853 in Toscana vigevano le norme imposte dalla legge del 30 Novembre 1786 di Pietro

Leopoldo (Leopoldina) con alcune modifiche apportate dal suo successore Ferdinando III. L’infanticidio dunque era punito con l’ultimo supplizio, sebbene già dal Settecento i giudici fossero restii ad applicare pene troppo severe. Il codice penale toscano del 1853 si distingue inoltre perché elimina esplicitamente la pena di morte, sull’esempio della tradizione abolizionista inaugurata da Pietro Leopoldo, smentita però dalle modifiche legislative successive. Proprio per tale ragione la Toscana sarà l’unica regione a conservare la propria legislazione penale anche dopo l’unificazione della penisola, fino alla stesura del codice Zanardelli. Cfr. T. Padovani, La tradizione penalistica toscana nel codice Zanardelli, in S. Vinciguerra, I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova, Cedam, 1993; M. Da Passano, La storia esterna del codice penale toscano (1814-1859) in Istituzioni e società in Toscana nell'età moderna. Atti delle Giornate di studio dedicate a Giuseppe Pansini. Firenze, 4-5 dicembre 1992, Roma, 1994, vol. II, pp. 564-589.

esclusivamente alla donna e alla prole da essa illegittimamente concepita, si denota attraverso una definizione molto restrittiva che sembra far venir meno gli intenti dei legislatori della prima metà del secolo, attenti a mantenere certe distinzioni. Con un colpo di spugna operato dal legislatore toscano si vedono infatti scomparire, oltre alla fattispecie aggravata dell'uccisione dei neonati, tutte quelle figure che prima componevano l’elenco della casuistica descritta e commentata dai giuristi e dalla trattatistica: il padre senza lavoro che uccide il neonato dopo che la moglie è morta di parto, il marito che si vendica della moglie adultera scaricando la sua ira nell’uccisione del figlio, i genitori che, per distrazione o con l’intenzione esplicita di ridurre il numero dei componenti della famiglia, soffocano il neonato sotto le coperte. Il profilo del criminale che resta solo sulla scena si affina definitivamente intorno a quello di un soggetto unico con una caratteristica imprescindibile che ne marca la differenza rispetto a tutti gli altri: per la legge l’infanticida è una donna e, in particolare, una madre.

Pur scegliendo di seguire una linea ben precisa che riduce notevolmente il campo del giudizio, il codice toscano non rinuncia tuttavia ad una certa complessità nella propria valutazione dell’atto criminoso: alla definizione generale seguono infatti ben cinque articoli atti a regolare e misurare la pena a seconda delle possibili circostanze qualificanti l’atto. All’articolo 317 suddiviso nei paragrafi a e b, si distingue e si punisce più severamente la madre che si è risoluta a compiere il delitto prima dell’insorgere dei dolori del parto, sulla scia della dottrina penalistica di derivazione romanistica dell’aggravante dalla premeditazione. Seguono poi altre tre circostanze, peculiari della legislazione toscana, diminuenti la pena: l’aver commesso il delitto «per evitare sovrastanti sevizie» (art. 318), la non vitalità –ovvero l’incapacità di vita extrauterina autonoma- dell’infante ucciso, che riduce la pena da sei mesi a due anni di carcere (art. 319) e infine (art. 320) la figura dell’infanticidio colposo, unica rispetto a tutte le legislazioni, punita solo se il neonato presenta requisiti della vitalità (art. 320)188. Anche sotto questo aspetto, per la complessità con

cui il legislatore ha voluto articolare la norma, il codice toscano rappresenta 188 Questo aspetto verrà sviluppato più nel dettaglio all'interno del capitolo VI

un’eccezione rispetto alle leggi coeve.

Le pene nel codice penale toscano sono, ad ogni modo, notevolmente più basse rispetto alle altre legislazioni ancora vigenti, non solo nel massimo della pena (quindici anni di casa di forza nel caso di infanticidio premeditato) ma altresì nel minimo che può essere anche di pochi mesi: in tutti i suoi elementi l’infanticidio è per il legislatore un omicidio privilegiato, dedotto dal riconoscimento di una minore imputabilità per quell’unico soggetto che la legge designa come possibile autore di tale crimine.

È nelle riflessioni dei commentatori toscani che si ritrovano esplicitati gli ideali e i principi teorici elaborati dai riformatori del secolo precedente, da Beccaria sino a Bentham, i quali impongono una revisione radicale della scala gerarchica dei delitti e delle pene corrispondenti, nonché dei parametri di giudizio di un crimine specifico quale l'infanticidio. Esemplare in tal senso è l'impalcatura giuridica costruita nelle pagine del Programma del corso di diritto criminale, scritto tra il 1860 e il 1863 dal pugno di Francesco Carrara, allievo di Giovanni Carmignani e docente di diritto criminale prima a Lucca e, successivamente, all'università di Pisa. Il giurista toscano, sulla scia del Trattato di legislazione civile e penale di Bentham, assume come principio fondamentale della propria filosofia penale il parametro del danno mediato - o quantità politica - che il delitto produce sulla società, ovvero l'idea secondo la quale i delitti che suscitano un debole allarme sociale nella popolazione debbano meritare una pena particolarmente mite da parte della legge189. Secondo tale

ragionamento, che muove dall’osservazione empirica dei fatti che il legislatore è chiamato a conoscere e governare, il crimine d'infanticidio non può dunque essere posto al vertice della scala gerarchica dei delitti: si tratta di un atto che nella maggior parte dei casi non fa che suscitare pietà e compassione per il colpevole ingenerando un allarme sociale molto basso. Carrara elogia dunque il provvedimento del codice penale toscano nell'aver ridotto notevolmente le pene per tale crimine, criticando 189 «Il danno mediato consiste nella intimidazione sorta nei buoni per la consumazione di un delitto e

nel cattivo esempio, che se ne suscita nei male inclinati. Questo speciale fenomeno è quello che dà un carattere politico a tutti i delitti, e fa sì che per un'offesa immediatamente recata alla sicurezza di un solo, tutti gli altri mediatamente soffrono per la diminuita opinione della propria sicurezza» F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, Lucca, Giusti, 1867 (II ed.), § 53.

aspramente l'eccessivo rigore delle altre legislazioni, il cui effetto, specialmente quando prevedono la minaccia della pena di morte, non può che essere l'inapplicabilità delle sanzioni, e il conseguente incremento del crimine di fatto costretto a restare impunito. Confrontando i dati del crimine in Toscana, dove la pena di morte è espunta dalla legge, con quelli della giustizia d'oltralpe, ancora dotata dell'estremo dell'ultimo supplizio, Carrara fa notare «come gl'infanticidii si moltiplicassero frequentissimi anche in faccia al minacciato patibolo […] non avendo servito il supplizio repugnante al senso morale degli uomini, che a moltiplicare la impunità della delinquenza, e così ad incoraggiare alla medesima190».

La trasformazione nella definizione del delitto si riflette, secondo la teoria del giurista toscano, sia su quella che definisce come la considerazione del soggetto passivo del delitto, ovvero il neonato vittima dell'uccisione, sia sull’elemento del soggetto attivo, cioè la madre colpevole. Rispetto al primo punto infatti Carrara fa presente che «la necessaria tenera età della vittima, la mancanza della famiglia, il minor allarme sociale per l’illegittimità delle vittime designate sono circostanze che comportano la minor quantità politica di tale reato»191. La nuova prospettiva

attraverso cui viene letto il fenomeno ribalta la qualifica aggravata riservata a chi uccideva il neonato non protetto dai legami familiari, al contrario secondo il principio qui considerato ciò che si pone al centro è costituito dall'insieme delle norme che reggono la stabilità dei rapporti familiari vigenti, per i quali, la morte di un infante illegittimo, specie se nelle primissime ora della sua vita, costituisce solo una piccola perdita da compiangere. Similmente anche l'aspetto che caratterizza l'atto

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