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La scoperta del crimine: i segreti del corpo colpevole

Come in un gioco di prestigio scompare infatti il lavoro delle donne e viene occultata l'espropriazione delle risorse e dei mezzi di produzione da loro subita e, con un ribaltamento ideologico della realtà, dominazione e sfruttamento appaiono come fatti ovvii, legati alla diversa 'natura' dei due sessi (P. Tabet, La

grande beffa)

1. Premessa

Dopo aver tentato di ritracciare i momenti salienti della storia plurisecolare dell’infanticidio, sino a ricostruire il contesto giuridico e politico che, alle soglie del XX secolo, si staglia intorno alla questione, è utile intraprendere un’indagine condotta da una prospettiva più ristretta. In questa seconda parte il punto di partenza della ricerca sarà dunque la storia dell’infanticidio, o meglio le storie di infanticidio, seguite attraverso la linea temporale che coincide con lo svolgersi dei processi documentati dalle fonti archivistiche. Il periodo considerato comprende principalmente gli anni a cavallo tra i due secoli, dal 1880 ai primi anni ’20 del Novecento. È questa l’epoca in cui l’entrata in gioco delle scienze psichiatriche all’interno della considerazione e del giudizio dell’imputata di un tale crimine segna una delle svolte fondamentali della storia del diritto penale occidentale. Come si è visto nei capitoli precedenti, questo aspetto dell’evoluzione della pratica giudiziaria

non costituisce certo l’unica direzione delle linee di fuga che compongono il quadro moderno dell’infanticidio; tra queste spicca sicuramente una nuova considerazione dell’infanzia, e in particolare dello statuto dei neonati, che prende piede durante il XIX secolo segnando marcatamente le riflessioni che intellettuali e giuristi oppongono alla posizione assunta dalla legge penale, che nel complesso considera l’infanticidio come un crimine minore. Tracce delle numerose controversie, teoriche e politiche, che hanno alimentato il motore della storia sin qui percorsa, riappaiono spesso nelle vicende individuali narrate dai processi, all’interno dei quali tuttavia la varietà e la complessità sulla quale abbiamo sino ad ora lungamente insistito sembrano appiattirsi su scenari che, per lo meno apparentemente, sono molto simili. Il procedere delle indagini, i racconti degli imputati e dei testimoni, le azioni messe a punto dagli attori, sembrano, a diverse riprese, far convogliare ogni singola storia verso lo schema del reato che il diritto penale ha costruito intorno ad un’univoca definizione del delitto.

Le informazioni che permettono una tale ricostruzione sono deducibili soprattutto attraverso le carte processuali della fase istruttoria, in cui si ritrovano quasi tutti i tasselli fondamentali delle storie individuali degli imputati, elementi che, agli occhi del giudice, permettono di gettare maggior luce sulla dinamica dell’avvenuto delitto, il movente, la modalità, la responsabilità dell’accusato. All’interno del volume troviamo in prima istanza i verbali di denuncia dei carabinieri, o degli ufficiali di pubblica sicurezza, i quali, oltre a dare inizio all’indagine, assolvono anche la funzione di raccogliere e fornire le prime informazioni riguardo alla fama di cui l’accusato gode all’interno della comunità d’appartenenza. A completare il quadro spesso il giudice istruttore, o il pretore, poteva far richiesta al sindaco del comune di appartenenza dell’imputata di compilare il certificato di rito, un formulario in cui si forniscono i dati anagrafici completi così come altri dati che ne vanno a delineare il profilo: la situazione patrimoniale, la professione, il grado di istruzione, il carattere, la condotta morale, informazioni eventuali «che possono influire sull’imputabilità (se sordomuto, imbecille, pazzo e da quando, se dalla nascita, dall’infanzia ecc.)», e, per finire, i connotati fisici356. Tutte le informazioni sono rilevanti per la giustizia, tutto

356 Gli stessi dati sono riportati anche nel Foglietto statistico col quale si accompagna la domanda di

quello che appartiene alla storia dell’imputato, fatti e caratteristiche della sua personalità possono trasformarsi in circostanze legate al delitto, segni da interpretare in vista della formulazione del giudizio finale. A dire il vero tuttavia, nella stragrande maggioranza dei processi visionati non tutte le parti del certificato venivano redatte dal sindaco, in particolare le ultime questioni sopra elencate sono in molti casi lasciate in bianco, segno forse da un lato della sbrigatività con cui le autorità comunali accoglievano la richiesta di collaborazione con la giustizia, dall’altro del fatto che i soggetti condotti davanti al tribunale risultavano fino a tale data poco noti nella dimensione pubblica della vita di paese. Quest’ultima circostanza è in parte confermata dal certificato di penalità, dal quale si rivela che nella maggior parte dei casi gli imputati non presentano alcun precedente. Si tratta dunque perlopiù di individui che incrociano qui per la prima volta il potere delle autorità e della giustizia, vite la cui memoria sarebbe molto probabilmente andata persa, se non fosse per le tracce accidentali e involontarie che tale incontro lascia nei documenti d’archivio357.

Una prima osservazione che emerge da un rapido spoglio delle carte processuali, è che ogni causa vede come imputato una donna, corrispondentemente al profilo criminale unico e sempre meglio delineato dal discorso giuridico. Le donne accusate agiscono nella maggior parte dei casi da sole, o, ad ogni modo, sono le sole a comparire davanti al giudice. Solo talvolta troviamo dei complici, perlopiù figure femminili tra cui la madre dell’imputata, amiche o parenti, persone comunque strettamente legate alla vita della donna. Anche le condizioni sociali che fanno da sfondo alle diverse vicende compongono nel complesso un quadro particolarmente uniforme. Moltissimi dati deducibili dalle fonti permettono di tracciare delle linee comuni che attraversano ciascuna delle singole storie individuali delle imputate. Si tratta solitamente di donne al di sotto dei trent’anni, nubili, originarie della zona rurale dei dintorni di Firenze; esse appartengono alla classe della manodopera salariata che trova di che guadagnarsi da vivere giorno per giorno: trecciaiole,

riguardanti il carattere e la condotta dell’imputato e aggiungono ulteriori dati riguardanti le circostanze del reato.

357Su questo aspetto rimane fondamentale il testo di Michel Foucault La vie des hommes infâmes, in

«Les Cahiers du chemin», n. 29, 1977, pp. 12-29 ora in Id. Dits et écrits, vol. II, Paris, Gallimard, 2001, pp. 237-253

canapaie, o semplicemente “atte a casa”, perifrasi usata in modo generico per indicare l’insieme di mansioni variabili, non altrimenti qualificate, legate al sostentamento del complesso familiare. La maggior parte di loro svolge in generale attività e occupazioni relative alla vita dei campi e al lavoro quotidiano dei braccianti, una classe sociale che conosce una forte espansione demografica nel corso della seconda metà del diciannovesimo secolo358. Altre, al momento

dell’accusa, svolgono il mestiere di domestiche presso famiglie fiorentine benestanti; non era raro, d’altronde, che lo spostamento verso la città e la conseguente sistemazione a servizio avvenisse proprio in seguito alla scoperta della gravidanza, allo scopo di nascondere il fatto agli occhi delle persone della comunità d’origine359.

Non stupisce dunque che ciascuna di esse sia qualificata come nullatenente e per la stragrande maggioranza analfabeta. Spiccano due casi, che si distaccano leggermente dalla norma: quello di Antonietta Silvestrini del 1903, che di professione è maestra elementare in una scuola del capoluogo, e quello di Annunziata Rosi, del 1916, infermiera presso l’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova; le loro professioni, pur portandole al di fuori delle mura domestiche, non permettono tuttavia di qualificarle come aventi una condizione economica benestante.

Le carte processuali non rivelano molto di più intorno alle attività che le imputate svolgevano nel quotidiano; si può tuttavia rappresentare concisamente la loro situazione come quella di corpi a continua disposizione della produzione di forza- lavoro che si svolge nelle case, proprie o altrui, e nei campi; corpi a cui viene assegnato un ruolo e uno spazio specifici in funzione del genere che li connota. Esse svolgono infatti, secondo quanto è riferito, mestieri prettamente femminili, come il lavorare la paglia o occuparsi delle faccende di casa; a volte occupate nel lavoro diretto dei campi le imputate si dedicano perlopiù ad attività e mansioni confinate 358 Cfr. C. M. Mazzini, La Toscana agricola: sulle condizioni dell' agricoltura e degli agricoltori nelle

provincie di Firenze, Arezzo, Siena, Lucca, Pisa e Livorno, Firenze, Giani, 1884; D. J. Kertzer, Famiglia contadina e urbanizzazione, Bologna, Il Mulino, 1981; G. Biagioli, L 'agricoltura toscana dell’Ottocento e l’economia del padule , in A. Prosperi ( a cura di ) Il padule di Fucecchio. La lunga storia di un ambiente «naturale », Roma , Ed. di Storia e Letteratura, 1995

359 Cfr. A. Arru, Lavorare in casa d’altri: servi e serve domestici a Roma nell’800, in «Annali della

Fondazione Lelio e Lisli Basso ISSOCO», Roma, vol. II Subalterni in tempo di modernizzazione. Nove studi sulla società romana nell’Ottocento, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 95-160 e M. Pelaja, Mestieri femminili e luoghi comuni. Le domestiche a Roma a metà Ottocento, in «Quaderni storici», a. XXIII, n. 68, 1988, pp. 497-518.

alle zone limitrofe della casa, uno spazio riservato ad una realtà composta essenzialmente di donne360.

A partire da questa prima osservazione sommaria dei documenti è possibile formulare qualche riflessione, anche attraverso la comparazione con altri studi che si sono dedicati all'analisi del crimine d'infanticidio sulla base di documenti coevi e di epoche appartenenti allo stesso secolo. L'infanticidio, così come il profilo e l'immagine dell'infanticida tratteggiata dal processo che la giudica, appare un crimine per molti aspetti monotono; innanzitutto per via della connotazione sessuata che lo contraddistingue: le imputate sono nella stragrande maggioranza donne che compaiono per lo più sole sulla scena del crimine. Oltre a questo aspetto macroscopico, che segna una rottura incisiva rispetto alla fenomenologia del crimine descritto per l'età moderna, in cui il banco degli imputati poteva altresì ospitare una gamma più vasta di presunti complici, dal marito all'amante della madre della vittima, soggetti appartenenti a diversi gradini della scala sociale dalla nobiltà alle classi popolari, sino alla classe degli uomini del clero361, si possono evidenziare altri

tratti degni di nota: l'infanticidio è spesso designato come un crimine di campagna, circostanza che, in un contesto storico di urbanizzazione della popolazione e delle strutture sociali, contribuisce a dipingere il fatto come un episodio marginale, periferico rispetto allo sviluppo dei comportamenti e dei costumi sociali aventi luogo nelle città. Emblematici sotto tale aspetto sono gli studi di Annik Tillier e Maria Pia Casarini concentratisi sul crimine durante la prima metà dell'800: le vicende narrate si intrecciano qui con la quotidianità, le pratiche e le credenze di una cultura a tratti desueta, fortemente ancorata alla tradizione e alle strutture più conservatrici della società, quali il sistema patriarcale e le rigide regole sociali, pressoché ritualizzate e

360 Cfr. L. A. Tilly, J.W. Scott, Donne, lavoro e famiglia nell'evoluzione della società capitalistica,

Bari, De Donato editore, 1981; A. Groppi (a cura di), Il lavoro delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1996; S. Ortaggi, Industrializzazione e condizione femminile tra Ottocento e Novecento, Milano, Fondazione G. Feltrinelli, 1997.

361 Si veda a proposito A. Prosperi, Dare l'anima, cit., Ciò è segnalato anche dallo studio di Elena

Taddia, il quale prende in considerazione anche diversi episodi di infanticidio da parte di genitori o di figure ecclesiastiche coinvolte in tali scandali, (E. Taddia, L'infanticidio a Genova, cit., pp. 254-270). Sul convolgimento delle famiglie nobili e di uomini appartenenti al clero nelle storie di infanticidio si veda anche J. M. Ferraro, Nefarious crimes, contested justice: illicit sex and infanticide in the Republic of Venice, 1557-1789, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2008, pp. 86-115; 158- 199.

fortemente influenzate dalla morale cattolica, attraverso cui si strutturano le relazioni tra i sessi, gli scambi matrimoniali e i processi di filiazione362.

Gli studi che hanno considerato l'infanticidio nell'epoca successiva alla metà del XIX secolo hanno posto all'attenzione soprattutto la figura dell'infanticida serva, colei che, spesso proveniente dai villaggi della periferia, si sposta verso i grandi centri urbani per dedicarsi ai lavori più umili e subordinati nella scala sociale. Ne emerge così una figura completamente oppressa dai cambiamenti sociali, cristallizzati nel senso di spaesamento di una giovane che, sradicata dai propri luoghi e le proprie tradizioni d'origine, si ritrova inesperta e indifesa ad affrontare nuove realtà, a confrontarsi con la crudeltà delle relazioni individualistiche della morale urbana e borghese e con la miseria che ne impedisce un cammino di emancipazione. Così il delitto si rivela l'esito inevitabile di una sofferenza dettata in primissimo luogo dalle condizioni sociali di soggetti subalterni, sia dal punto di vista delle relazioni sessuali, in un contesto in cui la donna resta emarginata dalla dimensione pubblica, sia dal punto di vista dei rapporti di classe363.

Si tratta di aspetti senza dubbio irrilevanti, d'altronde ben presenti agli stessi interpreti dei fatti dell'epoca - giuristi, medici, giornalisti - per i quali l'analisi sociologica del contesto di vita delle imputate si rivelava uno strumento utile di maggior comprensione del crimine e delle sue circostanze. Tuttavia i dati nel complesso uniformi che rivelano le fonti, se assunti come unica chiave interpretativa, rischiano di mettere in ombra alcuni elementi di rottura, nonché il modo in cui le stesse pratiche di lettura del crimine contribuiscono a delineare un modello

362 Cfr. M. P. Casarini, Maternità e infanticidio a Bologna: fonti e linee di ricerca, in «Quaderni

storici», 49, a. XVII, n. 1, 1982, pp. 275-284 e Id. Il buon matrimonio. Tre casi d’infanticidio nell’800, in «Memoria», n. 7, 1982, pp. 27-36. Gli studi di Casarinini si rivela molto interessanti in particolar modo per quanto riguarda le rappresentazioni del corpo femminile. Tale aspetto verrà approfondito in seguito, nel capitolo VII. Per quanto riguarda lo studio di Annik Tillier invece già il titolo è molto significativo: Des criminelles au village analizza l'infanticidio in una regione circoscritta della Francia, la Bretagna, mettendo in luce i rapporti tra gli aspetti propri della vita dei piccoli paesi, la quotidianità lavorativa, il controllo sociale sulle donne, l'importanza delle credenze religiose, con i momenti centrali del delitto e del giudizio su di esso (A. Tillier, Des criminelles au village, cit., in particolare pp. 11-13, 153-200).

363 Emblematico in tal senso è l'articolo di Margherita Pelaja, il quale mette in luce la contraddizione

tra le condizioni sociali delle infanticide e l'imperativo morale della maternità a cui sono obbligate a rispondere (M. Pelaja, Istinto di vita e amore materno, cit.,). Interessante è anche il saggio di Diana De Rosa il quale ricompone sotto forma di racconto le storie e le biografie di alcune donne infanticide spinte per la miseria dall'entroterra slavo verso Trieste, il grande porto dell'Austria imperiale che convoglia i lavoratori di tutte le zone limitrofe (Cfr. D. De Rosa, Il baule di Giovanna, cit.,).

appiattito, e talvolta banale, del potenziale critico e dirompente del gesto delle madre infanticida, rispetto al quadro normativo che la isola come un soggetto emarginato dalla propria realtà sociale.

2. Il corpo sociale della donna: l'onore

Dalle carte che compongono il fascicolo processuale si evince bene come uno degli obiettivi principali dell'indagine consista nel sondare, le caratteristiche morali dell'imputata in quanto base su cui formulare il successivo giudizio. Tale aspetto viene dedotto dai giudici attraverso gli interrogatori, le testimonianze e, talvolta, il certificato di moralità prodotto dal sindaco, una scheda in cui l'autorità cittadina del luogo di origine della donna riporta gli elementi principali della reputazione di questa così come percepita dalla comunità d'appartenenza. Il punto fondamentale su cui si fonda il giudizio sulla moralità delle imputate è la loro condotta sessuale rispetto alle norme della morale vigente: la donna di buona fama, la donna onesta coincide infatti, attraverso una sorta di metonimia che associa alla virtù sessuale l'intera personalità sociale, la donna dai costumi illibati, pudica, che conserva il patrimonio dell'onore, consistente nella verginità prematrimoniale, integro e incontaminato dalle dicerie di paese. Non sono molte le imputate che soddisfano tale ideale, il che lascia ben ipotizzare che le rigide norme imposte da un sistema morale di derivazione cattolica, fondato sulla relazione coniugale come unico luogo in cui i rapporti sessuali sono ammessi, fossero spesso disattese dai singoli individui364.

In alcuni casi emerge chiaramente come, tra le forme di sostentamento per la vita quotidiana alcune delle imputate ricorrono alla possibilità di cedere il proprio corpo a prestazioni di tipo sessuale su compenso; gli stessi commentatori del diritto mostrano di ben sapere che tale pratica conosceva una certa diffusione presso la popolazione femminile delle classi sociali più disagiate:

364Ciò è constatato e confermato anche dallo studio di Rossella Selmini sui casi di infanticidio

analizzati per un periodo pressoché coevo presso l'archivio del Tribunale di Bologna Cfr. R. Selmini, Profili per uno studio storico sull'infanticidio, cit., pp. 70-81

non son rari i casi di oneste fanciulle che cedono alle lusinghe di un seduttore, non per desiderio di piacere o di lusso, ma per il bisogno urgente, che le spinge a provvedere in qualsiasi modo ai bisogni della vita quotidiana, che ogni giorno si fa più dura e difficile per tutti365.

Nei verbali di denuncia dei carabinieri vengono riportati, tra le prime informazioni, tutti i sospetti intorno all’esercizio di eventuali forme di prostituzione, come nel caso di Maria Romanelli (1903), che, secondo la relazione del maresciallo «aveva rapporti carnali con più uomini e riscuoteva ogni volta mercede»366, o in quelli ancora più

espliciti di Agostina Pinzauti (1900) e Antonia Biancalani (1920), le cui attività suscitano negli inquirenti un interesse sicuramente maggiore rispetto al resto dei lavori svolti comunemente dalle donne della medesima classe sociale.

L’aspetto interessate che si nota percorrendo tali vicende consiste in una certa tendenza a non utilizzare il termine esplicito che le identifica come prostitute, o per lo meno a rinunciare a tale denominazione nel corso dello svolgimento del processo. Agostina Pinzauti (1900), una ragazza sedicenne di Dicomano, viene sospettata di aver ucciso il proprio neonato di sesso maschile subito dopo averlo dato alla luce. Il fatto perviene alle autorità attraverso le dicerie di paese, le quali rivelano altresì della condotta sessualmente disonesta della giovane accusata. Nel verbale iniziale di denuncia dei carabinieri, la Pinzauti viene infatti subito definita come prostituta, fatto che viene confermato dal seguito delle indagini, da cui si viene inoltre a sapere che la giovane è legata da un rapporto di sfruttamento da parte della di lei complice nel delitto Enrichetta Serotti, una donna di età più adulta, che «teneva presso di sé la Pinzauti e la faceva prostituire ritraendone lucro»367. Nei restanti atti del processo tale

terminologia tuttavia scompare; qualificata nel certificato di rito come semplice bracciante, l’attenzione si allontana pian piano da quanto riferito in prima istanza dai carabinieri, tralasciando i dettagli riguardo ai rapporti sessuali avuti in precedenza e l’aspetto economico che li caratterizza. Durante l’udienza finale si riassume la sua condotta e la qualifica delle sue attività attraverso una perifrasi che annulla ogni 365 F. Carfora, Infanticidio, cit., p. 719

366 ASF, AP, PA, 1903, fasc. 7, v. i., c. 56 367 ASF, AP, PA , 1900, fasc. 17 , v. cass., c. 28

riferimento allo scandalo sessuale: «si dette alla mala vita per istigazione della Serotti che la conduceva nei paesi vicini a cantare il maggio»368.

L’etichetta di prostituta non rappresentava di certo una carta a favore della donna accusata di avere ucciso il proprio neonato; la capacità di disporre del proprio corpo per trarne beneficio economico privava la prostituta di un altro patrimonio fondamentale, riservato specificatamente alle donne: il patrimonio dell’onore. La conferma dunque che l’imputata si desse a tale pratica, oltre aconferire una valenza fortemente negativa alla sua moralità, così da poter influenzare fortemente il giudizio dei giurati, di fatto poteva escluderla a priori dal beneficio della causa honoris, l’elemento necessario perché si applicasse il capo d’accusa d’infanticidio piuttosto che quello d’omicidio, implicante una pena più severa. Non è un caso che tale controversia fosse oggetto di ragionamento da parte dei giuristi dell’epoca; se Carrara non nutriva dubbi a proposito - «è assurdo ammettere il titolo eccezionale per la donna che sia pubblica meretrice»369 - in pochi decenni la giurisprudenza costringe

la dottrina a rivedere le proprie posizioni. La presunzione d’innocenza e l’atteggiamento benevolo dei giudici tipici dei processi d’infanticidio implicano irrimediabilmente una certa revisione dei rapporti tra il soggetto imputato che cede il

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