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Il presente lavoro, seppur non certamente aiutato dal contesto politico che ha fatto da sfondo ai tempi della ricerca, si è proposto di rivitalizzare il delicato e complesso tema del bicameralismo perfetto, che contraddistingue il sistema parlamentare italiano e che da diverso tempo è “nel mirino” degli intenti riformistici, in quanto ritenuto elemento obsoleto dell’ordinamento costituzionale, il quale andrebbe attualizzato nell’ottica del pluralismo territoriale e, soprattutto, della partizione della potestà legislativa, alla luce della riforma del 2001.

Tuttavia, pur partendo da una esigenza di riforma avvertita come necessaria su due fronti, vale a dire sia nel corso delle diverse legislature, sia dalle diverse forze politiche rappresentate in Parlamento, nonostante questa condivisione – seppur teorica – di intenti, ebbene nessun disegno di revisione costituzionale in punto di bicameralismo e di differenziazione tra le due Camere è mai stato portato a compimento.

Ora, il continuo avvicendarsi di tentativi di riforma – più o meno organici ed articolati – ed il loro successivo accantonamento (eccezion fatta per il referendum del 2006 con il quale è stata respinta una legge costituzionale da parte degli elettori, sicché non si può in questo parlare di accantonamento, quanto di mancata condivisione dal basso) si sono indubbiamente ripercossi sull’andamento del presente elaborato, in un primo momento spinto da quello che pareva essere un approdo ormai prossimo (quello del Senato federale, al centro del dibattito politico all’inizio del percorso di ricerca), ma successivamente sottoposto ad un’improvvisa battuta d’arresto, allorché i propositi di revisione parevano essersi nuovamente arenati.

Nondimeno il lavoro di ricerca ha vissuto un ulteriore rinvigorimento nel corso del 2012 allorché, del tutto inaspettatamente, veniva partorito in seno alla Commissione Affari costituzionali del Senato un disegno di legge articolato, di ampio respiro e,

soprattutto condiviso dalla rappresentanza politica in Parlamento, avente ad oggetto proprio la riforma della composizione e del funzionamento delle due Camere: ad oggi, dopo l’approvazione di un testo da parte del Senato, il disegno di legge costituzionale giace in Commissione presso la Camera dei Deputati; sicuramente gli avvenimenti politici occorsi nel frattempo, quali la crisi dell’esecutivo e le imminenti elezioni politiche, hanno contribuito a distogliere l’attenzione da quella che poteva e, a maggior ragione, potrà rappresentare una svolta decisiva per il sistema bicamerale italiano.

Ecco, dunque, come lasciato sullo sfondo il recentissimo tentativo di approdare ad un’organica revisione del bicameralismo, la ricerca si sia sviluppata su due fronti: uno di tipo ricognitivo e l’altro, invece, di “natura esplorativa”.

Se da un lato, infatti, si è cercato di ricostruire fedelmente – dal punto di vista cronologico – e puntualmente il quadro dei numerosi progetti di riforma elaborati nel corso delle diverse legislature a far data dall’entrata in vigore della Carta costituzionale, sì da cogliere quegli elementi che in essi si sono ripresentati, alla stregua di una funzione costante in ambito matematico, quali aspetti che debbono imprescindibilmente essere contemplati allorché si addivenga ad una revisione dell’assetto bicamerale; dall’altro, per contro, la ricerca si è cimentata in una direzione già percorsa a più riprese dalla dottrina, più che dal legislatore, per vero, vale a dire l’ipotesi di integrare la Commissione bicamerale per le questioni regionali, in attuazione del disposto di cui all’articolo 11 della l.c. n. 3/2001.

Una soluzione che racchiude in sé una certa contraddittorietà, giacché tesa a rafforzare – con la rappresentanza regionale e locale – un organo bicamerale, così insistendo su quel bicameralismo paritario, che negli intenti dei riformatori, andrebbe invece essere superato, inglobando le realtà regionali in seno all’organo legislativo nazionale.

In effetti, integrare una Commissione bicamerale, avente natura sostanzialmente consultiva, non avrebbe di primo acchito alcun riflesso sul circuito della rappresentanza e della rappresentatività nel procedimento legislativo, giacché non andrebbe ad incidere in alcun modo sulla partecipazione degli enti territoriali alla predisposizione di una legislazione che tenga in debito conto gli interessi periferici, sì da contemperarli con quelli nazionali.

Ma a conclusione del presente lavoro v’è da chiedersi se è davvero la riforma della seconda Camera la strada atta a garantire la maggior rappresentatività delle istanze regionali; in altre parole, non può automaticamente escludersi che, ove l’esigenza sia quella di adeguare l’iter legis agli apporti di matrice regionale, allora tale obiettivo ben può essere perseguito, medio tempore, mediante il rafforzamento di un organo avente natura spiccatamente consultiva, adottando al contempo alcuni accorgimenti di tipo funzionale, che diano il giusto peso ai pareri resi dalla Commissione per le questioni regionali (integrata), magari obbligando l’Assemblea a motivare adeguatamente l’assunzione di una decisione che si discosta dalle risultanze dell’attività istruttoria svolta in Commissione.

Pare, dunque, una strada ancora praticabile, e ciò ancor più ove si consideri che sinora i diversi tentativi di addivenire ad un’organica revisione del bicameralismo sono stati tutti puntualmente accantonati.

Ma vi è di più.

Da quanto sin qui descritto l’idea di rendere il Senato una sorta di Camera delle Regioni non pare sic et simpliciter la soluzione ottimale, considerata come l’unica idonea a garantire quell’effettiva rappresentatività della componente regionale e reclamata all’unisono dagli intenti riformatori: molteplici ragioni depongono, infatti, per l’abbandono di questo aulico obiettivo che non nasconde limiti alla sua attuazione, sì da prediligere la strada del rafforzamento della Commissione per le