Dove sta la verità per i Greci? e c’è una verità ‘nuda’ in Platone? La prima domanda è di quelle difficili, da lasciare ai filosofi. Heidegger im-putò a Platone il peccato originale di aver voltato le spalle all’essere1: avrebbe cioè contaminato l’immacolata verità parmenidea con il sogget-tivismo socratico e sofistico, escludendo così l’uomo da quella specie di eden che in un suo corso Heidegger chiamò “esperienza greca dell’essere”2. Un approccio, quello di Heidegger, che seppure in termi-ni deprecativi rimanda a un diffuso paradigma evoluziotermi-nistico: la verità, da proprietà delle cose, comincerebbe con Platone a divenire proprietà del discorso, come sarà poi in Aristotele, superando così il logos “noeti-co e trans-linguisti“noeti-co” degli eleati3.
Non entro nella questione, se non per ricordare che in questa ricostru-zione dai tratti marcatamente teleologici qualcosa non torna. Senza cer-care soluzioni univoche che poco si adattano alla poliedrica realtà del dialogo platonico, spesso si ha l’impressione che per Platone la verità ri-sieda non nelle cose, non nei discorsi, ma nell’anima, ed è possibile ten-tare una ricostruzione coerente proprio in questa direzione4. Qui entra in gioco anche l’idea di una verità ‘nuda’, perché la materia, l’ambizione, la posizione sociale, insomma tutto ciò che caratterizza l’anima incarna-ta fa velo alla verità che essa ha sperimenincarna-tato nel mondo iperuranio, nel tempo – che nella rappresentazione platonica ha tratti inevitabilmente mitologici – dell’esistenza prenatale. Vedremo che la nudità è proprio la
1 Cfr. in proposito P. Di Giovanni, Platone e l’antiplatonismo di oggi, Palumbo, Palermo 1982. Inutile dire che l’approccio di Heidegger a Platone è un fenomeno cangiante e complesso, e quel che qui accenno concerne solo gli anni immediatamente successivi alla famosa Kehre.
2 M. Heidegger, Parmenide, trad. it. Adelphi, Milano 1999.
3 V. Sainati, Tra Parmenide e Protagora, «Filosofia» 66, 1965, pp. 49-110. 4 Cfr. F. trabattoni, Scrivere nell’anima: verità, dialettica e persuasione in
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via d’accesso alla verità, come mostra la missione confutatoria di Socra-te, che espone e mette a nudo i suoi interlocutori.
Nel Gorgia Socrate incrocia le spade con il più irriducibile e fascino-so degli interlocutori, il misteriofascino-so Callicle, di cui nulla sappiamo se non quel che leggiamo in Platone. Questo diretto progenitore del super-uomo di Nietzsche fu un giovane che morì troppo presto, o forse si tratta di una figura immaginaria, un ‘collage’ dei modelli di cittadino timocratico, de-mocratico e tirannico rifusi in una sorta di alter ego luciferino del filoso-fo5. Come Socrate, anche se su un versante ideologica mente opposto, Callicle desidera arrivare al cuore delle cose, al di là di ogni infingimen-to o sovrastruttura esteriore. rispetinfingimen-to ai miti confratelli con cui si chiu-dono Repubblica e Fedone, è forse per questo che il mito escatologico posto alla fine del Gorgia si distingue proprio per un’enfasi sulla ‘nudi-tà’. Vediamo in che modo Socrate cerca di affabulare il suo irriducibile avversario con una storia dai tratti a un tempo tradizionali e innovatori:
Udite udite, signori – come dicono i cantori: ecco una bella storia. tu la considererai una fiaba, credo; per me invece è una storia, perché quello che sto per raccontarti ha un contenuto di verità, secondo me. Come narra Ome-ro, zeus, Posidone e Plutone, quando ereditarono il potere dal padre, se lo divisero tra loro. Ai tempi di Crono valeva per gli uomini una legge che an-cora adesso gli dèi mantengono in vigore: quando un uomo moriva, se ave-va vissuto in modo giusto e pio andaave-va ad abitare nelle Isole dei beati, in pie-na felicità e lontano da ogni male, mentre se aveva vissuto in modo ingiusto ed empio doveva trasferirsi in un carcere di pena e di espiazione, chiamato tartaro. Ai tempi di Crono, e ancora durante i primi anni del regno di zeus, erano dei vivi a giudicare dei vivi, e il giudizio avveniva nel giorno stesso in cui il giudicato doveva morire: e perciò i giudizi erano spesso inesatti. Così Plutone e i sorveglianti delle Isole dei beati andarono da zeus e gli dissero che in tutte e due le sedi arrivavano spesso le persone sbagliate. Allora zeus disse: “Ci penserò io a farla finita con le sentenze ingiuste. Finché i giudizi si faranno su gente ancor viva e vestita, è logico che ci saranno un sacco di errori. Molti di quelli che hanno un’anima malvagia si presentano in tribu-nale con addosso un bel corpo e con un abito di nobiltà e di ricchezza; e al momento del giudizio arrivano frotte di testimoni e assicurano che hanno vissuto onestamente. È chiaro che i giudici si fanno abbagliare da queste cose, tanto più che anche loro giudicano vestiti e indossano, sopra l’anima, gli occhi, le orecchie e l’intero corpo. tutti questi ingombri, sia i loro sia quelli dei giudicati, fanno velo ai giudici. Per prima cosa, dunque, –
prose-5 M. Bonazzi - A. Capra, Callicle e Serse: democrazia e tirannide nel Gorgia, in S. Simonetta (a cura di), Potere sovrano: simboli, limiti, abusi, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 217-233.
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guì zeus – bisogna impedire che gli uomini conoscano prima il momento della loro morte: perché adesso lo sanno in anticipo. Prometeo è già stato in-caricato di provvedere in questo senso. Poi bisogna giudicarli spogli di tutti questi velami: ossia, bisogna giudicarli da morti. e anche il giudice deve es-sere nudo, e quindi morto: perché la sentenza sia giusta anche il giudice deve giudicare, con la sua anima nuda, l’anima nuda dell’inquisito; e questo deve essere appena morto e deve aver lasciato sulla terra tutti i suoi orna-menti. Io mi ero già reso conto del problema, prima ancora che voi veniste, e ho nominato giudici tre dei miei figli: due originari dell’Asia, Minosse e radamanto, e uno originario dell’europa, eaco. Questi tre, quando saranno morti, siederanno come giudici in mezzo al prato, vicino al crocicchio da cui partono le due vie che portano una alle Isole dei beati e l’altra al tartaro. ra-damanto giudicherà quelli che provengono dall’Asia, eaco quelli dell’euro-pa; Minosse avrà il compito di giudice d’appello, nel caso che gli altri due abbiano dei dubbi. Così ogni uomo avrò il giudizio più corretto possibile sulla via da seguire”. Questa è la storia che mi è stata raccontata, Callicle: e io sono convinto che sia vera6.
La storia è un mito, ma un mito vero secondo Socrate. Non nei detta-gli e nei nomi, si capisce, ma per i concetti che esprime: la verità dell’a-nima emerge dalla nudità. Specularmente, è molto difficile parlare dell’anima qui e ora, nella vita presente, perché l’anima è per l’appunto incarnata, quindi rivestita, anzi addirittura incrostata, secondo l’immagi-ne cui Socrate ricorre l’immagi-nella Repubblica:
Finora abbiamo sì detto il vero intorno all’anima, ma nella condizione in cui ci appare nel momento presente. L’abbiamo osservata nella stessa con-dizione in cui si trova Glauco marino agli occhi di chi lo vede: non è più fa-cile scorgerne la natura originaria, perché le parti antiche del suo corpo sono in parte spezzate, in parte corrose e del tutto sfigurate dalle onde, mentre al-tre vi sono concresciute – conchiglie, alghe, pieal-tre – sicché assomiglia piut-tosto a una sorta di bestia che alla sua natura di prima. e anche l’anima, noi la osserviamo ridotta in questa condizione da una miriade di mali. Ma c’è una direzione verso la quale occorre volgere lo sguardo [...] Verso il suo amore per il sapere, [...] e pensare come essa potrebbe diventare se prose-guisse questo impulso, quando fosse portata con questo sforzo fuori dall’a-bisso marino in cui ora si trova: verrebbero allora frantumate le pietre e le conchiglie che ora, perché banchetta con la terra, le sono cresciute attorno, selvatiche e in gran numero, terrose e pietrose, per via di quei banchetti che si dicono “felici”. e allora si potrà conoscerne la vera natura7.
6 Gorgia 523a-524b (trad. G. zanetto).
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Non sarà certo possibile, si capisce, guadagnare il punto di vista pri-vilegiato dei giudici infernali del Gorgia: mai avremo la possibilità di contemplare la nudità e la verità dell’anima su questa terra. Ma l’impor-tante è tenderci, ed è quello che Socrate ha fatto per tutta la vita. Lo si vede bene nella descrizione della ‘sofistica nobile’, che – così pensa la maggior parte degli studiosi – pare proprio coincidere con l’attività di Socrate:
Vedi, capita talvolta che uno, credendo di dire gran cosa, dica in realtà cose prive di senso. Quelli allora [si riferisce a quanti praticano l’arte di con-futare], poiché si accorgono da subito di trovarsi di fronte a gente che vaneg-gia, facilmente ne mettono alla prova le opinioni, e, ponendole assieme una accanto all’altra per mezzo dei discorsi, le mettono a confronto e mostrano chiaramente come esse si contraddicano. [...] L’interlocutore allora, veden-do ciò, si adira con se stesso e si dimostra più mite verso gli altri, e in que-sto modo si libera delle opinioni presuntuose e cristallizzate; è questa la li-berazione più dolce per quelli che ascoltano, e più sicura per chi la subisce. Coloro che purificano gente di questa fatta [...] ritengono che l’anima non possa trarre alcun giovamento dalle conoscenze che le sono offerte, prima che qualcuno esponga alla confutazione (ἐλέγχων) chi presume di sapere, e costui – esposto (ἐλεγχόμενος) – non sia portato alla vergogna, libero da opinioni che impediscono la conoscenza e puro, convinto di sapere quelle sole cose che effettivamente sa, non di più8.
Purificare, esporre, disincrostare, insomma tendere alla nudità, e – quindi – alla verità: questa la prerogativa dell’elenchos socratico. Nel modo più chiaro, l’immagine prende corpo (è proprio il caso di dirlo) nel
Protagora:
Per questa via, dissi, potremo forse chiarire la questione. Ad esempio, se uno volesse esaminare la salute di un uomo o la sua attitudine a qualche at-tività fisica dal suo aspetto e ne scorgesse soltanto il volto e le estremità, ti direbbe: “Rivela (ἀποκαλύψας) il petto e mostrami la schiena, affinché possa esaminarti più chiaramente”. Anch’io desidero qualcosa di simile per il mio esame. Dopo aver visto, da quanto mi dici, che cosa pensi sul bene e sul piacevole, io devo ancora chiederti: “Protagora, rivelami (ἀποκάλυψον) anche questo lato del tuo pensiero: che cosa pensi della scienza?”9.
Denudare il corpo per offrirlo all’esame del medico, denudare il pen-siero (l’anima) per offrirla all’esame della ragione: sono due operazioni
8 Sofista 230b-d (trad. M. Vitali).
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accostate nel segno dell’analogia. Le vie della verità sono naturalmente anche altre – nel Simposio, ad esempio, è uno straordinario gioco di ma-schere dionisiache a rivelare l’anima di Socrate, in una geniale ripropo-sizione del tradizionalissimo in vino veritas10. Ma indubbiamente, la via della confutazione socratica che ripulisce, scarnifica, smaschera e denu-da proietta sulla scena del dialogo platonico una precoce, potente nozio-ne di Nuda Veritas.
10 Ne ho parlato a Vicenza nella Sala di Apollo di Palazzo Leoni Montanari nell’intervento da cui nascono queste pagine, e il titolo era per l’appunto La
verità tra Socrate e Dioniso. Di questo secondo aspetto ‘dionisiaco’, che non
tratto qui, ho poi scritto in A. Capra, Aristophanes’ Iconic Socrates, in F. de Luise, Ch. Moore and A. Stavru (eds.), A Companion to Socrates and the
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