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trAGICHe VerItà

Nel documento MIMESIS / classici contro (pagine 103-123)

1. Verità e menzogna

Quando pronunciamo il termine ‘verità’ ricorriamo al calco di una pa-rola latina, non greca. ‘Verità’ è fuori di dubbio la traduzione di ἀλήθεια, e tuttavia ἀλήθεια non è veritas, per il semplice fatto che il sistema lin-guistico di riferimento è differente, e a quel sistema, al sistema del greco – e non al nostro né a quello latino – ἀλήθεια va ad adattarsi. Nel dizio-nario etimologico di riferimento del greco antico, del francese Pierre Chantraine, ci viene spiegato che la parola che designa la verità deriva dall’aggettivo ἀληθής, «vero, detto di cose e di fatti che non si nascon-dono»: e quindi «“vérité” par opposition à mensonge, implique qu’on ne cache rien»1. Se volessimo fare un mero calcolo percentuale, scopriremo che nelle tragedie superstiti il sostantivo ἀλήθεια compare non tantissi-mo, vale a dire una cinquantina di volte; sono invece molto più numerosi i termini connessi con ψεῦδος, ‘menzogna’. Eppure, nonostante l’appa-rente scarsa incidenza numerica, il ‘tema della verità’ è indissolubilmen-te associato a un genere letindissolubilmen-terario-indissolubilmen-teatrale come il dramma attico. Possia-mo anche condensare poche storie in poche battute, nell’impossibilità di una catalogazione completa: Clitemestra mente ad Agamennone nell’o-monimo dramma di eschilo e lo uccide nella stanza da bagno; Oreste in-ganna elettra e sua madre fingendosi morto nei drammi della vendetta contro la stessa Clitemestra; Fedra impiccandosi lascia in una lettera una falsa accusa contro Ippolito insinuando che il figliastro l’ha insidiata2; e sempre in euripide elena ed ecuba sostengono due ‘punti di vista’ che entrambe percepiscono come l’unica verità, nell’Ecuba; Odisseo, che fin da Omero non è mai stato un ‘campione di verità’, nel Filottete di Sofo-cle costringe Neottolemo a mentire. Ciascuno di noi sarebbe probabil-mente in grado di ricordarsi di avvenimenti e trame nei quali verità e

fal-1 Si veda il Dictionnaire Étymologique de la Langue Grecque, s.v. λανθάνω. 2 Sulle lettere usate a teatro si veda da ultima Ceccarelli 2013, pp. 183ss.

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sità, sincerità e inganno si connettono al plot (non solo o non direi tanto a livello lessicale, ma soprattutto sul piano della situazione drammatica), ma ad ogni modo in molti dei casi citati c’è in gioco una procedura d’in-ganno, il nascondimento di qualcosa: un personaggio che imbroglia un altro personaggio mentendogli; siamo nell’ambito di ciò che non è ἀ-λήθεια, se ‘verità’ in greco – così Chantraine – «implica che non si na-sconda nulla». Dobbiamo però fin da subito rimarcare un aspetto che per la nostra cultura può risultare scomodo, e che ci dà anche segno della di-stanza di mentalità che ci separa dai Greci (anche solo, viceversa, ad an-dare rapidamente col pensiero a uno dei dieci Comandamenti della tradi-zione veterotestamentaria): in Grecia mentire è lecito. Non dire la verità non costituisce necessariamente e sempre un atto condannabile sotto il profilo morale, politico e giuridico. e proprio Odisseo ne è la prova: in fondo l’inizio della storia greca, la guerra contro troia, termina con un gesto fraudolento tramato da un eroe della sua statura. e nel Filottete di Sofocle, alla domanda che Neottolemo gli rivolge, «non ti sembra vergo-gnoso mentire?», la risposta di Odisseo sarà oggettivamente inoppugna-bile: «no, se mentire dà la salvezza»3. Non sono sempre censurabili men-zogna e inganno e non è censurabile nemmeno la reticenza, perché – lo afferma Pindaro4 – a volte non è vantaggioso che la verità (ἀλάθεια) mo-stri il suo vero volto: è meglio il silenzio.

Achille in un passo del nono libro dell’Iliade proprio di fronte a Odis-seo – e ben consapevole di chi ha davanti – ci fornisce una definizione molto netta, a suo modo semplice, della verità: «io detesto le porte dell’Ade, come detesto l’uomo che nasconde una cosa nel suo animo e ne dice un’altra»5. È una struttura semplice, binaria, quella immaginata da Achille, e costruita anche a livello linguistico come coppia oppositi-va («nascondere una cosa/dirne un’altra»: ἕτερον/ἄλλο). Una frase

si-3 Soph. Phil. 108-109 Νε. οὐκ αἰσχρὸν ἡγῇ δῆτα τὸ ψευδῆ λέγειν; / Οδ.

οὔκ, εἰ τὸ σωθῆναί γε τὸ ψεῦδος ϕέρει (cfr. Schein 2013, p. 20, che collega la Realpolitik di Odisseo all’affermazione di Diodoto in tucidide 3.43.2 sul fatto che mentire è, appunto, ‘politicamente’ normale). Più in generale sui discorsi ingannatori cfr. Fuchs 1993.

4 Pind. Nem. 5.16-18 οὔ τοι ἅπασα κερδίων / ϕαίνοισα πρόσωπον ἀλάθει’

ἀτρεκές· / καὶ τὸ σιγᾶν πολλάκις ἐστὶ σοϕώ- / τατον ἀνθρώπῳ νοῆσαι. Per Pindaro ricca bibliografia in Park 2013.

5 Hom. Il. 9.312-313 ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν / ὅς χ’

ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ ϕρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ. Su questo passo cfr. ora Mitsis 2010 (con le considerazioni di Starobinski 1974, 9-12: «rien ne frappe davantage que l’opposition entre la chose dite et celle que l’on cache au fond de soi», p. 9).

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mile Odisseo non l’avrebbe mai pronunciata. e secondo esiodo addirit-tura le Muse possono dire – e anche ispirare ai poeti – molte menzogne «simili a cose vere»6.

Costringiamoci ora a un salto che oblitera secoli di letteratura e di ri-flessione filosofica (a partire dall’importanza che Aletheia assume nel pensiero di Parmenide). Dovremo anche soprassedere sulla complessa teoria della verità sviluppata dai filosofi del IV secolo, accontentandoci, in forma di battuta, di un passaggio della Metafisica nel quale Aristote-le definisce il vero e il falso, τὸ ἀληθὲς καὶ ψεῦδος: «dire che una cosa che esiste non è, oppure che una cosa che non esiste è, è falso; dire che una cosa che è esiste e che una cosa che non è non esiste, è vero…» (si noti che la verità ha a che fare con il fatto di essere detta)7.

Se circoscriviamo la nostra attenzione al teatro tragico di V secolo trasferendo fino a lì questo modello binario, ci rendiamo conto che in molti casi esso non funziona più. Anzitutto perché la consapevolezza di chi fa poesia è nel corso di qualche secolo sensibilmente mutata. toglia-mo di mezzo fin da subito un concetto ambiguo che spesso aleggia sot-to forma di definizione: non esiste una “verità del misot-to”. Nella tragedia greca – e più in generale nella letteratura antica – non si dà un mito più

vero di altri: ci sono storie che vengono di volta in volta raccontate, e che

nella maggior parte dei casi si attengono a un plot definito dalla tradizio-ne. Ma sappiamo anche che proprio gli autori maggiori, eschilo, Sofo-cle ed euripide, amano la variazione, e mutano e modificano i miti: An-tigone che non muore e si sposa, in euripide, Medea che in certe versioni non uccide i propri figli, e così via. Dunque ciascuna tragedia contiene idealmente una sua verità mitica. Per esiodo la verità poetica non era mai intellegibile al di fuori di un sistema di rappresentazione re-ligiosa: l’ispirazione che derivava dalle Muse aveva valore iniziatico e quasi sciamanico, mentre la decostruzione e il riassemblamento del ma-teriale mitico in forma di dialogo e di canto che il poeta tragico mette in atto è ormai un’operazione completamente mediata dal soggetto. e in

6 Cfr. Hes. Theog. 27-28 ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, / ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι (sulla difficoltà interpretativa dei versi si veda Pucci 2007, pp. 60-69). In generale per il concetto di verità nella letteratura arcaica non si può non rinviare all’ormai classico Detienne 1977.

7 Aristot. Metaph. 4.7.1011b 25-28 δῆλον δὲ πρῶτον μὲν ὁρισαμένοις τί τὸ

ἀληθὲς καὶ ψεῦδος. τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές, ὥστε καὶ ὁ λέγων εἶναι ἢ μὴ ἀληθεύσει ἢ ψεύσεται (si potrà vedere l’analisi di Crivelli 2004).

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essa peraltro proprio il soggetto poetante diventa invisibile, perché un poeta tragico a teatro non si vede, e non parla in prima persona: fa par-lare gli attori. ed è così, anche in virtù di questa plurivocità, che i punti di vista si moltiplicano. La verità dei personaggi sulla scena si pone an-zitutto in costante contrasto con ciò che gli dèi sanno di loro, e con ciò che il pubblico conosce delle loro storie, e ancora con ciò che il coro sa o non sa (o vuole/non vuole sapere). Il dramma attico porta quindi in scena nei modi più vari il conflitto non sempre risolto fra consapevolez-za, errore, sincerità, o menzogna del singolo, e ἀλήθεια. E per conver-so un termine come ψεῦδος e i suoi derivati valgono sì come ‘bugia’, ‘menzogna’, ma anche come ‘falsità’, intesa genericamente come cosa non rispondente al vero, non necessariamente premeditata8. Vedremo poi che edipo è, dal suo punto di vista, sincero, ma non potremo dire la stessa cosa di personaggi come Odisseo che imbroglia Filottete, Clite-mestra che inganna Agamennone, oppure Oreste che si finge morto in nome di una per lui necessaria vendetta.

La politicità del dramma attico non riposa tanto sui suoi enunciati esplicitamente ‘politici’, ma sulla possibilità di recuperare e interroga-re i valori fondanti della comunità e altinterroga-re questioni universali, proiet-tando di volta in volta negli spazi del mito e al di fuori delle consuete dinamiche della contemporanea vita ateniese, in un perenne gioco an-tinomico, adesione e dissenso, celebrazione e biasimo. Vengono così sottoposte a vaglio domande come queste: che cos’è giusto? Quale comportamento genera vergogna? Cos’è pio? e che cos’è il vero? e che cos’è reale rispetto al vero? Si può nascondere la verità, si può ignorarla? Direi che sotto questo profilo il lettore e lo spettatore d’og-gi possono rilevare nel teatro trad’og-gico una forte impronta identitaria tra figure femminili. Di Clitemestra sappiamo; Deianira nelle Trachinie tiene nascosta l’intenzione di mandare un filtro d’amore a eracle per riconquistarlo9, Medea esorta le donne del coro al silenzio per poter at-tuare i suoi piani in segreto (Medea 260-263), come anche Fedra nell’Ippolito (vv. 710-712). Sono tutte manifestazioni sintomatiche di comportamenti socialmente orientati e caratteristici di una «civiltà di vergogna» in seno alla quale la stima sociale e la pubblica esecrazione sono tenuti in grandissimo conto, indipendentemente dal grado di col-pabilità.

8 Studio del lessico in Levet 2008 (e cfr. anche Cole 1983).

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2. Le verità degli indovini

Se le donne – ma anche gli uomini – spesso mentono, gli indovini e le profetesse dicono invece la verità. Spetta a loro leggere i segni divini offrendo un’interpretazione epistemologica di ciò che non è discernibi-le. eppure c’è un aspetto della loro funzione tragica che ne mette in cri-si il ruolo: pur essendo ‘portatori di verità’, in genere non vengono cre-duti, non sempre sono in grado di esercitare un potere persuasivo e psicagogico sul singolo o sul gruppo. e non sempre il loro intervento è in grado di impedire derive del destino già altrimenti sancite: oracoli, profezie, segni celesti costituiscono l’autorevole conferma del fatto che sono gli dèi, a teatro, a determinare quel che accadrà10. La parola oraco-lare non è il riflesso di un avvenimento preformato, ma funziona come uno degli elementi della sua realizzazione, è parte della sua attuazione. Veniamo a un esempio concreto. Nelle Fenicie di euripide l’indovino tiresia prevede che la città sarà salva solo se Meneceo, il figlio di Cre-onte, si sacrificherà (vv. 919-922):

Κρ. οὐκ ἔκλυον, οὐκ ἤκουσα· χαιρέτω πόλις. Τε. ἁνὴρ ὅδ’ οὐκέθ’ αὑτός· ἐκνεύει πάλιν. Κρ. χαίρων ἴθ’· οὐ γὰρ σῶν με δεῖ μαντευμάτων. Τε. ἀπόλωλεν ἁλήθει’, ἐπεὶ σὺ δυστυχεῖς;

creonte Non ho sentito né ascoltato nulla. Addio città. tiresia Quest’uomo non è più lo stesso: volta indietro il capo. creonte Addio, va’ pure: non ho bisogno, io, dei tuoi responsi. tiresia La verità è distrutta, ora che sei infelice?

La verità profetica prospettata dal vecchio cieco non è messa in di-scussione tramite una sua negazione. Il rifiuto di Creonte di prestar fede a questa verità dura pochissimo, giusto il tempo di questo passaggio: Creonte si limita anzi a provare a sottrarre il figlio al destino di morte proponendosi di morire egli stesso (vv. 968-969), e poi cercando di con-vincerlo a scappare, ma senza dibattere sul contenuto di verità della pa-rola oracolare: semplicemente cercando di mettere in salvo il figlio con-dannato dal μάντις, cercando una via di scampo per legittimare, da solo, un destino diverso da quello già scritto. e d’altro canto sullo statuto di

10 Se le pratiche di interpretazione, le technai, sono esercizio affatto umano, e quindi contestabili, il ‘dono’ profetico è di origine divina: [Aesch.] Prom. 484-499. Sull’indovino in generale si veda Flower 2008; per la tragedia utile sintesi in Mikalson 1991, pp. 92-101.

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veridicità della sua lettura dei fatti tiresia non ha dubbi: egli assimila la sua parola alla Verità, una verità assoluta contro la quale la reazione di Creonte non può nulla. e poco più avanti (vv. 954-959) tiresia lamente-rà la trista condizione di chi fa vaticini: non può mentire, perché se di-chiarasse il falso mosso da pietà per gli uomini, compirebbe un’ingiusti-zia contro gli dèi.

È proprio in Euripide, però, nell’Elena, e sulle labbra di un personaggio secondario, un servo, che compare la critica più accesa contro profezie «false e piene di menzogne»: scettiche derive sofistiche – altre ne vedremo dopo – possono laicamente insinuare che contro ogni vaticinio pronuncia-to da un qualche ‘maestro di verità’ «l’intelligenza e l’ingegno sono l’in-dovino migliore», perché se la città è caduta ed Elena non era mai stata a troia (dove c’era solo un suo fantasma) ma in egitto, allora che senso ave-vano le profezie di eleno e Calcante, che verità comunicaave-vano? (Elena 744-757)11. È evidente che la parola profetica non sempre piace agli uma-ni. ed è soprattutto in euripide che questo aspetto emerge in modo fortis-simo. Pensiamo alle parole di Achille sul profeta Calcante in Ifigenia in

Aulide (956-958): «che uomo è un indovino? / uno che quando ha fortuna

dice poche cose vere e tante false» (ὀλίγ’ ἀληθῆ, πολλὰ δὲ ψευδῆ λέγει). eppure, nonostante questo altissimo grado di diffidenza, quanto ap-partiene a un contesto oracolare ed è ἀληθές, implica un’assenza di di-storsione e falsificazione della realtà: è efficace, ἀψευδής (la stessa ra-dice di ψεῦδος), la τέχνη, l’arte di Tiresia secondo l’Eteocle dei Sette a

Tebe di Eschilo (v. 26), vale a dire che la sua è una τέχνη che non

men-te e non sbaglia. Nonostanmen-te le irrisioni e le critiche (specialmenmen-te in eu-ripide), questo è un tratto che accomuna i tre tragici: presagi, vaticini, in-dovini, e la stessa Cassandra – profetessa prigioniera e invasata nell’Agamennone di eschilo e nelle Troiane di euripide – non vengono smentiti ma ottengono divina validazione dal procedere degli eventi. L’indovino può anche non essere creduto, ma questo non significa che ciò che egli dice non sia vero. Marcel Detienne nell’ormai classico I

ma-estri di verità nella Grecia arcaica usa per questa Vérité la lettera

maiu-scola: si tratta di una verità resa istituzionale nello sviluppo e nello sve-lamento della parola magico-religiosa, è la parola che diventa azione e che al contempo vede realizzarsi le azioni promesse dalla parola. Insom-ma: che si abbia o non si abbia fede nell’efficacia di un linguaggio ma-gico-religioso, esso è in ogni caso destinato a realizzarsi. C’è un bell’ag-gettivo impiegato per il personaggio tragico per eccellenza destinato a

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questo paradosso, vale a dire la giovane Cassandra, in preda a un delirio profetico che non viene capito da nessuno. eschilo nell’Agamennone (v. 1241) la definisce con un termine rarissimo, che compare solo qui nella letteratura di età classica: ἀληθόμαντις, ‘profeta di verità’12. La non credibilità di Cassandra nella versione eschilea nasce proprio come una sorta di contrappasso rispetto a una sua mancata verità (vv. 1202-1212):

cassandra Apollo l’indovino mi dispose a questo compito. coro e, benché dio, fu colpito, forse, dal desiderio...? cassandra Prima avevo pudore a dire questo. coro Chiunque si trovi in condizioni buone, infatti, insuperbisce ancora di più.

cassandra era davvero un pretendente duro, che soffiava la sua grazia su di me.

coro e arrivaste a far dei figli insieme, secondo il rito? cassandra Glielo promisi, al Lossia: e lo ingannai. coro Presa già in tecniche divinatorie...?

cassandra Già ai miei concittadini predicevo tutte le loro sventure. coro Ma come rimanesti indenne dall’ira del Lossia?

cassandra Non riuscivo a persuadere di niente nessuno, dopo aver commesso questa colpa.

Cassandra mente (ξυναινέσασα Λοξίαν ἐψευσάμην, v. 1208) pro-mettendo di concedersi ad Apollo, ma poi si rifiuta, e questa mancata ve-rità per così dire produce una scissione in due piani separati della ἀλήθεια mantica, che dovrebbe essere comunicata in quanto vera ma anche creduta in quanto vera; nel suo caso invece viene solo comunica-ta, mentre il grado di persuasione che esercita sul destinatario della pro-fezia è nullo. Non solo male interpretato, ma nullo: all’inganno della profetessa Cassandra nei confronti del dio profetico per eccellenza, cioè Apollo, corrisponde la condanna a una fama di ingannatrice13.

3. Verità o inganno: il ‘discorso falso’ di Aiace e il ‘discorso vero’ di

Polinice

Oltre che negli oracoli, come possiamo cogliere il valore di questa ambiguità del linguaggio tragico? Nella produzione sofoclea, possiamo

12 Cassandra usa ὀρθομαντεία (‘profezia veritiera’) al v. 1215 e si definisce per antifrasi ψευδόμαντις al v. 1195.

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rilevare ad esempio che una ‘tragica verità’ come quella comunicata dall’oracolo di Delfi a edipo (ovvero che egli sarà destinato a uccidere suo padre e a giacere con la madre) si innesta dentro un orizzonte di co-noscenza umanamente limitato, perché edipo proprio per evitare la rea-lizzazione di quella verità e per il fatto che ignora l’identità dei suoi veri genitori realizza il suo destino catastrofico. Anche edipo dunque – come il Creonte delle Fenicie – crede all’oracolo e fa di tutto per evitarne la realizzazione, ma sbaglia perché il suo grado di conoscenza è estrema-mente parziale.

esiste però anche un altro livello di ambiguità, che è quello proprio al linguaggio della dissimulazione e al discorso ambiguo. È così, spingen-dolo a raccontare bugie, che Odisseo impone a Neottolemo di inganna-re Filottete malato per rubargli l’arco, l’arma con la quale i Ginganna-reci potran-no distruggere troia. Ma c’è un esempio ancora più efficace in virtù del suo grado di indeterminatezza, che non a caso è stato ribattezzato dalla critica il ‘discorso ingannatore’, la Trugrede, con il celebre avvio sul tempo: ἅπανθ’ ὁ μακρὸς κἀναρίθμητος χρόνος / ϕύει τ’ ἄδηλα καὶ ϕανέντα κρύπτεται… (vv. 646-647). Si tratta del discorso, un quasi-monologo, che Aiace pronuncia di fronte al coro dei marinai di Salami-na (Sofocle, Aiace 646-660 e 666-677):

Genera il lungo tempo incalcolabile ogni cosa invisibile, e nasconde quello che appare: nulla è inaspettato, ma sono sopraffatti anche il potente giuramento e le menti più ostinate. Anch’io, che ero così tremendamente saldo, allora, come un ferro temprato, ho reso più mansueta la mia bocca, per via di lei, mia moglie. e poi a lasciarla vedova tra nemici, e il figlio orfano, io provo compassione. Ma ora andrò a lavarmi, ai prati sulla riva, così purificando le mie macchie eviterò l’ira pesante della

dea: poi andando in un luogo in cui nessuno è mai stato nasconderò la spada,

la più odiosa delle armi, sotterrandola dove nessuno la potrà vedere. Siano la notte e l’Ade a custodirla là sotto.

*

A. rodighiero - Tragiche verità 111

agli dèi, e impareremo ad onorare gli Atridi: sono loro che comandano, e a loro ci si deve sottomettere,

no? Anche ciò che è tremendo e che è più forte cede all’autorità: così l’inverno

dai sentieri innevati lascia il passo alla stagione calda dei bei frutti; l’oscura volta della notte arretra al giorno dai puledri bianchi, sia la luce a splendere; e poi il vento in forti soffi placa il mugghiante mare; e il sonno onnipotente scioglie dopo avere

incatenato, e non trattiene sempre. e non sapremo, noi, essere saggi?

Abbiamo qui davvero – per riprendere ciò che esiodo diceva delle Muse – un λόγος che è simile alla verità ma è nel contempo differente da essa. Questo discorso, infatti, imita la realtà, anzi la rappresenta, ma anche la distorce. Al punto che alla fine di esso i marinai esulteranno, perché penseranno a una sorta di redenzione da parte di Aiace, mentre i valori di conciliazione e di accettazione del proprio destino sottesi alle parole dell’eroe si riveleranno contrari alle sue scelte reali. È vero che si recherà in un luogo isolato per purificarsi. È vero che sotterrerà la spa-da. Ma è vero anche che quel suo appartarsi servirà per uccidersi, che l’unica vera purificazione per lui è la morte, e che la spada sarà piantata a terra (parzialmente sotterrata) così lui potrà saltarci sopra e ‘nascon-derla’ nel suo corpo. Non è, questo, solo un discorso falso, è un discorso ambiguo: e potremmo anche pensare – come fanno molti critici – che la sistematica ambiguità del linguaggio di Aiace non sia intenzionale. ri-mane però ambiguo se applicato all’ethos del personaggio, che non sa-rebbe in grado di gestire una sua reintegrazione all’interno del gruppo

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