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Per un nuovo profilo critico dell'autore

Si ha la sensazione di avere a che fare con un artista volutamente sfuggente, come le sue figurette negli episodi che si annidano sullo sfondo della Crocifissione del Retablo di Sant'Elena. Un artista lontano dal circuito investito dai traffici e dagli interessi commerciali catalani, lontano dalle frequentazioni logudoresi (quelle delle perizie, dei collaudi di opere, delle commissioni “ufficiali” per il Castello della Città Regia). Sfuggente come il luogo in cui dovette realizzare la sua opera più impegnativa: il Retablo di Sant'Elena, raggiungibile dopo essersi inoltrati in un territorio che già nella prima metà del Cinquecento era desolato. La periferia di una periferia. Al riparo da qualsiasi incursione di quel controllo inquisitoriale spesso dirottato da consorterie locali a discapito di soggetti scomodi come l'avvocato fiscale Sigismondo Arquer, o individui sospetti come il frate Arcangelo Bellit. Viaggiatori che fecero l'errore di risiedere a Cagliari e a Sassari, dove certo non si poteva passare inosservati, se si attaccavano i costumi dell'autorità ecclesiastica incurante delle anime (più votate ad una religiosità anarchica, ai confini con pratiche profane e paganesimo), o si andava predicando la non esistenza di Purgatorio e Transustanziazione. Visioni così sovversive non venivano tollerate nemmeno in un Isola in cui invece passava sotto silenzio il fatto che la maggior parte dei fedeli saltasse a piè pari il precetto pasquale, non sapesse recitare il Credo, mentre il clero stesso non sapeva leggere, e questo per tutta la prima metà del Cinquecento.

Si ha inoltre l'impressione, scorrendo la fortuna critica, che il Maestro di Ozieri sia sempre stato studiato accomunando le sue opere a quelle dei Cavaro, e fatta poi di tutta l'erba un fascio, come si suol dire, i malcapitati pittori attivi in Sardegna venissero relegati a corollario o appendice di ciò che avveniva da altre parti, specialmente di quanto veniva propagato a Napoli dalla «congiuntura iberico-lombarda». Si è visto però che non risulta corretto leggere il Maestro di Ozieri come compagno di esperienze artistiche dei Cavaro, in quanto si tratta di linguaggi differenti e di mondi culturali distanti. Dal proto-classicismo di Pietro Cavaro alla maniera flebile di Michele si passa nel Maestro di Ozieri ad una revisione di molti riferimenti che per i primi sono imprescindibili e sono emulati nella Scuola di Stampace. Di fronte al raffaellismo maldestro di Michele Cavaro il Maestro di Ozieri pare prendersi certe libertà, affrancandosi totalmente dalle Madonne col Bambino a imitazione dei modelli installati nel Meridione, a cui tutti (da Sabatini a Criscuolo) sembrano rifarsi, ad esempio la Madonna del Pesce di Raffaello.

Benché verrebbe subito naturale pensarlo come un forestiero (forse anche un po' disadattato, perché le uniche opere riferibili alla sua mano nella città turritana risultano essere un pannello con il San Sebastiano – addirittura probabilmente si trattò solo un polvarolo – e una Crocifissione, quella di Cannero, che chissà perché dipinge così di fretta, senza il particolare paesaggio, che quasi verrebbe da attribuirla a un suo imitatore, tanto vi mancano le consuete pieghe che “sbisciano”, mentre invece i volti diventano simili a quello dell'Angelo di Bortigali, sicuramente di un suo seguace), egli dimostra di prendere subito confidenza con una modalità operativa in voga nel contesto locale. Anzi in realtà sembra uno dei praticanti più

appassionati. Stiamo parlando del ricorso alle stampe. Si è visto che nel contesto iberico si diffonde esponenzialmente il romanismo o rafaelismo de estampa, giungendo in alcuni casi a divenire fenomeno di assimilazione per osmosi di modi, con tavole costruite con replicanti, da pastiche spudorati. Il Maestro di Ozieri si sottrae a questo tipo di accaparramento dei modi romani, di quello “stile classico” che viene irrimediabilmente travisato o falsato. Quello che però non disdegna, anzi abbraccia con convinzione, è l'uso di incisioni nordiche, per lui una predilezione profonda, tanto che anche quando si mette a ideare la figura altera e poco socievole della Sant'Elena di Benetutti, nonostante utilizzi una Madonna di Raimondi come prima impronta della figura, si sente di ricorrere (o ritornare) alla familiare Madonna della Scimmia di Dürer.

Vi si sovrappone un ulteriore modello, quello di un Michelangelo sistino, ma scelto come farebbe forse solo un “bastian contrario” o un forestiero. Non sceglie infatti per la figura di Sant'Elena una Sibilla come musa, ma resta suggestionato dalla postura un po' sopra le righe, per lui forse più schietta, di un Profeta, energico e contrariato. Ne deriva la posa sorprendente di Sant'Elena (una sorta di Malinconia in terra sarda), con le gambe possenti e “scampanate”. Si diceva un forestiero perché proprio una simile postura si trova per esempio nell'incisioni delle Virtù di Luca di Leida influenzate da idee michelangiolesche470.

Quasi una provocazione rispetto alle convenienti versioni di figure femminili in trono dei meridionali di quella congiuntura di cui sopra. Ma una provocazione anche rispetto alle Madonne contenute nel Retablo dei Consiglieri e in quello dei Beneficiati a Cagliari. Le avesse dipinte queste un Criscuolo un po' più gagliardo non sorprenderebbe. Certo è che nella cimasa dei Beneficiati la citazione palese dalla Punizione di Aman non si può certo catalogare come frutto di un sicuro michelangiolismo. L'aria campana che spira su questo retablo è tanto forte che un'eco di rimbalzo nel Capo di Sopra è verosimile pensare sia giunta. La risposta logudorese al palinsesto cagliaritano sembra potersi trovare nella Deposizione un tempo nel Retablo di Santa Croce e nella Sacra Famiglia di Ploaghe, opere nelle quali le fonti raffaellesche sono gestite con abilità. Se le due opere si mantenessero nel corpus del Maestro di Ozieri andrebbero annoverate come i suoi “pezzi forti”, quelli più “sprezzanti”. Opere ben riuscite, due carte vincenti in una partita tutta meridionale (qualcuno direbbe iberico-campana) per tirare fuori nel Viceregno spagnolo una risposta potente all'interno della maniera moderna. Le due opere, la Deposizione e la Sacra Famiglia, contengono dei momenti surriscaldati: la Madonna svenuta, dal corpo allungato, voluminoso, flessuoso, e sul volto una maschera pallidissima in cui sprofondano i recessi orbitali anneriti, il braccio abnorme così somigliante alla Madonna di Sebastiano della Pietà di Viterbo; il San Giuseppe di Ploaghe terribile e ferrigno. Possono essere catalogate come due opere in grado di fronteggiare, appunto dall'interno, la corrente della maniera moderna, ricordando da vicino, per simile modalità di interpretazione e sicuramente per date di esecuzione, la Cona Magna di Sant'Agostino dipinta da Cardisco.

Quelle che invece appaiono come opere defilatissime, “oblique”, piene zeppe di personaggi riottosi, sdegnosi, ma mai sconvolgentemente grotteschi, solo sempre troppo malinconici o aspri, sempre troppo alteri o selvatici, sono sopratutto le tavole di Benetutti e di Ozieri. Queste opere non paiono veramente poter stare 470 Maldague, J., La part de Michel-Ange dans l'aboutissement de l'art de Lucas van Leyden, «Revue des archéologues et

all'interno di quella corrente che si è appena detta. Paiono infatti casi esemplari di quella famosa «mossa del cavallo», che viene da pensare fosse intrapresa non perché inevitabile o per sfuggire a grandi opposizioni, ma per inclinazione artistica e forse un po' per mancanza di mezzi. Quella demarcazione rischiosa tra arte di periferia e arte di provincia su cui Alessandro Nova si interrogava; quella idea di un'arte interregionale promossa da Till-Holger Borchert; quella grande idea degli incroci e degli scambi che in un sol colpo accomuna (pur con le personali declinazioni) Fernand Braudel e Gerard Wolf, Ferdinando Bologna e Bernard Aikema; il respiro amplissimo dell'idea di un Mediterraneo allargato di Mauro Natale e Caterina Virdis, come pure le due categorie dialettiche di centro e periferia di Castelnuovo e Ginzburg (forse un po' meno l'dea di «antirinascimento” di Eugenio Battisti): tutte sono state utili e vagliate per non liquidare il Maestro di Ozieri bollandolo subito come eccentrico, un'etichetta quasi troppo stretta nel suo caso. Perché il centro non si capisce bene quale possa essere (Cagliari, Napoli, Roma, Barcellona), né pare egli avere posizioni davvero polemiche, né avere individuato o rivolgersi a veri antagonisti: pare anzi avere in certi punti una predisposizione per l'eclettismo o per lasciare emergere aspetti stilistici che rivoltano le coordinate della geografia culturale. Una piccola sineddoche.

Perciò il San Sebastiano di Sassari può essere letto accanto alla tavola eponima del Maestro del Buon Samaritano (1537, Amsterdam, Rijksmuseum, inv. SK-A-3468), come all'interpretazione scoreliana di Marco Cardisco nella tavola di Biella. Producendo un cortocircuito, in quanto tra i tanti girovaghi stranieri, grande attenzione è stata riservata ai comprimari spagnoli, grande must nella letteratura storico-critica campana, ma l'intrigante influenza di Scorel in alcuni pezzi di Cardisco e nel Maestro di Ozieri è stata poco indagata o, nel caso del secondo, mai rilevata. È stato riservato un intero capitolo al problema del paesaggio nel Maestro di Ozieri in quanto questione insoluta, e forse mai affrontata. Tutti i nomi citati dalla critica (Fernández, Cesare da Sesto, Machuca, Sabatini) si sono rivelati inutili per spiegare la rappresentazione della natura nel Maestro di Ozieri. A sorpresa alcuni di questi nomi hanno poi accordato pochissimo spazio a indagini sul paesaggio, perciò i confronti che pure si sono tentati lasciavano sul campo esiti deludenti o poco pertinenti. Si pensi allo Pseudo Bramantino esageratamente infatuato dalla seconda versione della Vergine delle Rocce, e perciò generoso nel disporre falesie nei suoi dipinti (che Agosti chiamerebbe come per lo stesso Bramantino “a fungo”), gestendole come si trattasse di ulteriori intellettualizzati poliedri di pietra.

Il paesaggio del Maestro di Ozieri è invece profondamente prossimo ad una particolare visione fiamminga. Il riferimento che maggiormente risuona nei fondali della Crocifissione di Benetutti e Ozieri è Patinir. Per gli increspati profili azzurri dei rilievi che si perdono nei lontani, per la parete rocciosa o l'ancoraggio della visuale posto sempre sulla parte opposta del dipinto (solitamente in basso a destra). Una diagonale di attraversamento identica si ha nelle Tentazioni di Sant'Antonio di Patinir. La scansione (e opposizione) tra zone brulle e erbose, tra zone cupe e rischiarate da un'illuminazione lunare, fa propendere per una interpretazione morale del paesaggio. Supportata dal fatto che questo paesaggio può essere attraversato, il fedele può svolgere una esperienza performativa mentale, tra zone rupestri e inospitali, assimilabile al viaggio del pellegrino. Tanto che la veduta urbana (non esattamente in sintonia con certa

archeologia fantastica, simil-”Tempus edax rerum”) vuole in maniera credibile che il fedele pellegrino vi riconosca Gerusalemme, ed ecco che quei profili risultano nettamente vicini allo skyline fortificato colto da Scorel nel suo viaggio in Terra Santa, che rispetta i caratteri di affidabilità topografica ma allo stesso tempo compie un salto di non poco impegno coniugando una resa evocativa della veduta. Quello che il fedele deve respirare nella vallata di Benetutti è l'anelito verso una Gerusalemme avvicinabile, prossima, perché, come il Maestro di Ozieri illustra, più di una figuretta si inoltra in quei recessi fatti di smottamenti, e nel fondale di glaciazioni patiniriane. Sono diversi i brani di paesaggio dipinti da Scorel che sono stati segnalati nella scheda, poiché risultano le fonti più soddisfacenti per il trattamento delle medie distanze: specialmente nell'Invenzione della Vera Croce, nella Crocifissione di Ozieri e nel San Sebastiano di Sassari si colgono quelle zolle lattescenti le quali smuovono lo sfondo, in particolare nell' Adorazione dei Magi di Chicago (1519, Wilson L. Mead Fund, inv. 1935.381) è stato ritrovato lo stesso arco naturale azzurro, le charme des rochers habités (Pietrogiovanna 2002), un filo rosso che si intravede in tanta pittura post-patininiriana, e ora si può riconoscere anche nella tavola del Maestro di Ozieri in fondo al Goceano.

Si diceva del grande (troppo) risalto dato negli studi alla discesa di alcuni comprimari spagnoli nel Meridione italiano. Previtali giungeva ad attribuire il Retablo dei Beneficiati allo stesso Machuca, Tanzi pensava ad un Fernández autore dello stendardo processionale con la Veronica di Sassari. Interventi davvero spropositati, ma mai accertati su confronti. Tanto che gli stessi autori che li avevano proposti poi in seguito sono ritornati sull'argomento per ridurre, smussare, arginare le loro stesse proposte. Oppure le hanno rimesse nel cassetto, nonostante si trattasse di una pensata da non lasciare in sospeso. Si tratta di questioni di pittura sarda insolute (quella sull'autore del Retablo dei Beneficiati e quella sullo stendardo processionale), ma è davvero improbabile che i due spagnoli si siano impegnati in queste commissioni. Nessuno tra gli studiosi è più tornato su queste ipotesi, forse per non rischiare confronti disarmanti, in quanto le due opere non sembrano invero ascrivibili ai due forestieri spagnoli. Quel che però qui importa ancora di più è notare che il Maestro di Ozieri pare davvero ignorare i rinomati comprimari spagnoli, avvertiti il primo come troppo imbevuto di verve sferzante (“morisco”, “picaresco”), il secondo cerebrale e astrattivo. Per non dire della problematica parvenza berruguetiana della Madonna nella Deposizione di Sassari, tanto da far propendere per una espulsione dell'opera dal corpus del Maestro di Ozieri. Tanto una simile figura risulta davvero eterogenea, non digeribile dallo stesso autore delle fiabesche compagne di Sant'Elena nell' Invenzione della Vera Croce. Certo si obietterà che non bisogna mettere dei limiti all'eclettismo, però è pur vero che passare da un “conservatorismo stilistico” del migliore Cranach schongaueriano nei volti (“ doll-like”) delle compagne di Sant'Elena ad una figura che ricorda prepotentemente qualcosa a metà strada tra un Berruguete e un Sebastiano del Piombo, o comunque qualcosa che inizia e si risolve tra Firenze e Roma (e non pervenuto a Napoli), crea qualche remora.

Nonostante una grande confidenza con materiali oltremontani il Maestro di Ozieri pare comunque a conoscenza di alcuni momenti di Polidoro. L'Invenzione della Vera Croce nel Retablo di Sant'Elena è per certi versi perfino più vicina al Giuseppe venduto dai fratelli nelle Logge di quanto non sia all'Andata al

Calvario per i Catalani di Messina e ora a Capodimonte. Polidoro ritorna nella resa del Compianto, la piccola scena visibile sul fondale della Crocifissione di Benetutti, che richiama diversi studi grafici del pittore disceso a Napoli, in particolare il Trasporto di Cristo al sepolcro (Uffizi, GDSU, inv. 13396 F) e il Trasporto di Cristo al sepolcro, conservato al Louvre (inv. 598 recto). Deve esserci inoltre stata una conoscenza di alcuni testi pittorici, in quanto proprio nel Compianto della Crocifissione di Benetutti emergono quei modi compendiari, i volti consunti, che possono essere detti tipici di Polidoro, dagli studi sul Sant'Andrea della Pescheria fino al volto dell'uomo con barba bianca e cappello a calotta rossa sulle retrovie dell' Andata al Calvario. Se nelle figure femminili il Maestro di Ozieri è più spesso fedele ad una fisionomia ereditata dalle incisioni düreriane, quando usa una incisione di Caraglio (da Tiziano, nell' Annunciazione di Ozieri) o di Raimondi (da Raffaello, nella Sacra Famiglia di Ploaghe e nella Traslazione della Santa Casa di Ozieri) sceglie una deviazione verso un ovale sfilato, lineamenti piuttosto sottili, espressione comunque sdegnosa. Nei San Giovanni delle sue Crocifissioni diviene invece riconoscibile l'influenza del prototipo del San Giovanni di Polidoro, quello del noto Trasporto di Capodimonte. Questa fisionomia, che è meridionale e non riconducibile alle incisioni tedesche, subisce una certa deformazione poi nel San Giovanni di Cannero. Ne risente anche il volto del San Sebastiano, ugualmente da ricondurre ai volti di Polidoro nel Trasporto e nell'Andata al Calvario.

Di fronte alla mobilità postulata per alcuni pittori come Cardisco forse negli Trenta in Sicilia o Machuca “visto” di nuovo negli anni Venti nel Meridione (per un secondo ritorno), ci vuol poco a pensare al Maestro di Ozieri tra le chiese napoletane. Certo è che per quanto sia affascinante quanto attendibile una sua provenienza oltremontana non si può pensare che fosse del tutto all'oscuro del polidorismo, un fenomeno amplificato poi da Cardisco, come da Criscuolo. Un qualche contatto con Napoli vi deve essere comunque stato, anche solo per individuare alcuni riferimenti da rivoltare. Come la Sant'Elena nella lunetta con l'Adorazione dei Magi di Andrea Sabatini, o una qualche idea simile al San Rocco di Cesare da Sesto (opere citate la prima da Corrado Maltese nel 1969, la seconda da Antonia d'Aniello nel 1982). Si tratta però di modelli trascurabili per il Maestro di Ozieri, che sembra invece preferire un lavoro di rielaborazione su fonti grafiche, miscelando e stratificando in entrambi i casi citati due prototipi, uno düreriano e uno raimondiano. Quelli possibili con Sabatini o Cesare da Sesto sembrano più riscontri accidentali, dovuti più che altro alla coincidenza dei soggetti iconografici. Il Maestro di Ozieri sembra più in sintonia con Polidoro e Cardisco di quanto non lo sia con la prima tornata della «congiuntura iberico-lombarda».

Grande rilevanza e spazio hanno invece le similitudini con la pittura oltremontana: Quentin Massys per l'interpretazione dell'Andachtsbild nella Crocifissione con i piccoli episodi complementari disposti nel paesaggio e il gruppo iconico in primo piano; perfino un richiamo a esempi un po' sorpassati come Dirk Bouts o Jan Proovost nell'Ecce Homo o meglio Cristo deriso di Ozieri; una comparsa, quella dell'uomo con la vanga che urla portandosi la mano alla bocca, che si piega in avanti in una posa un po' sghemba, il quale potrebbe ricordare un contadino brugheliano, i modi di un rustico folenghiano471, le attitudini dei paesani 471 Nova, A., Folengo and Romanino: The Questione della Lingua and Its Eccentric Trends, «The Art Bulletin» 1994 (vol. 76, n.

ritratti in gran massa da Jörg Breu, da Niklaus Manuel Deutsch. Con modi scorbutici e un po' dissonanti, che ricordano certi personaggi di Amico, ugualmente “vocianti grotteschi” come i cantori. Allo stesso modo la Sant'Elena poco affabile ricorda la vecchia burbera che compare nell'affresco di Amico nell'Oratorio di Santa Cecilia (Martirio di San Valeriano e Tiburzio), con bastone, volto incartapecorito da una smorfia, mantello rosso, la stessa ritorna a Lucca in San Frediano nel Trasporto del Volto Santo. Somiglia nettamente alla vecchia incisa da Burgkmair (B. VII.224.80). Sicuramente due figure femminili, quella di Aspertini e del Maestro di Ozieri, poco concilianti per cui bene si potrebbe accostare la descrizione (anti-Laura) della vecchia da I Marmi (1552) di Doni: “La mia donna ha i capei corti e d'argento, / la faccia crespa e nero e vizzo il petto; / somiglion le sue labbra un morto schietto / e 'l fronte stretto tien, ben largo il mento; / piene ha le ciglia giunte e l'occhio indrento, / come finestra posta sotto un tetto; / nel riguardar, la mira ogn'altro obietto, / che quella parte ove ha il fissare intento; / di ruggine ha sui denti e poi maggiore / l'un è dell'altro e rispianate e vòte / le guancie, larghe, prive di colore; / ma il gran nason che cola, in fra le gote / cosí sfoggiatamente sponta in fuore / che chi passa s'imbratta, urta e percuote”472. Una raffigurazione della vecchiaia femminile distante dal naturalismo giorgionesco, più incalzante e disarmonica, così è quella che si ritrova nella Sant'Elena bigia del Maestro di Ozieri e nella poco gentile figura incurvata di Amico.

Sono molte inoltre le tavole in cui il Maestro di Ozieri lascia una sorta di firma, costituita da un albero rinsecchito, alto, funestato dall'inverno, preso di peso da alcune incisioni düreriane, e mai abbandonato: si ripete nel San Sebastiano, nell'Invenzione della Vera Croce, nella Crocifissione di Benetutti e di Ozieri, nella Visitazione di Ozieri. Ma non a caso è omesso nella Deposizione di Sassari, la quale deriva dalla nota stampa di Raimondi, in cui per giunta compariva un albero solitario. Possibile sia sfuggito un elemento così congeniale? Forse non solo una distrazione. Si è notato come il trattamento del cielo (tempestoso da una parte, rischiarato dall'altra) sia da ricondurre alla ricorrenza di alcuni patterns composti di elementi naturali accostati e connotati in maniera simpatetica per meglio aderire al contenuto drammatico e rendere la strong spiritual concentration, che già Hermann Voss riconosceva come più pertinente alla visione tedesca, liberando quindi il Maestro di Ozieri da quel vizio critico che lo vedeva sempre ricondotto al versante iberico o meridionale. In particolare la Crocifissione di Stoccarda (già Wiesbaden) ricordava allo storico dell'arte tedesco lo stesso Grünewald, nello specifico potrebbe ricordare la tavola dello stesso a Basilea ( inv. 269). Se

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