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Siamo nel Fu Mattia Pascal, c’è questo dialogo:

— Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente!

Se, nel momento culminante, proprio quando la mario-netta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.

— Non saprei, — risposi, stringendomi ne le spalle.

— Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.

— E perché?

— Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.

Oreste sta per vibrare il colpo sulla madre Clitemne-stra, rea di aver tradito il padre, perché il Fato lo vuole.

Sono le leggi della comunità a dire che questo delitto deve essere punito con la vendetta. Ma il mondo con-temporaneo, ecco la differenza, non è quello antico e se ci chiediamo chi è Amleto, risponderemo che Amleto rappresenta il dubbio che giunge a chiedersi se “essere o non essere”.

Ma è nella stessa condizione di Oreste e deve vendica-re il padvendica-re, ucciso dalla vendica-regina con lo zio. Riesce a farlo?

No. È preda del dubbio e non ha più le certezze di Oreste, che confidava nel cielo. Il cielo di Amleto è lontano, è un cielo di carta. Oggi noi, con termini molto più elabo-rati, dopo il Post-Modern e dopo Jean-François Lyotard, potremmo dire più semplicemente che non abbiamo più le grandi narrazioni. C’è stato anche Jacques Derrida che ci ha indicato il contrasto tra écriture e différence e la consapevolezza che non possiamo comprendere la realtà perché appena crediamo di averla compresa è già

diversa, si è già spostata. In questa incertezza, in questa precarietà noi cerchiamo un aiuto rifugiandoci nella realtà virtuale. Forse questa è l’occasione migliore per ricordarci di Pirandello.

È anche importante, però, cercare di stabilire i de-biti della cultura contemporanea verso di lui: non si tratta solo di discendenze “genetiche” ma di compren-dere come certe atmosfere, ritenute persino originali, specie nel secondo Novecento, siano legate all’opera pirandelliana.

È chiaro, la storia procede con le sue spesso tragi-che novità e non sarebbe pensabile l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre senza la Seconda guerra mondiale o senza l’angoscia atomica tra anni Quaranta e Cinquan-ta, anche all’origine della Guerra fredda, con le due superpotenze contrapposte. Tuttavia non si può non rilevare che in Jean-Paul Sartre, in Albert Camus o in altri filosofi e saggisti della grande cultura francese tra l’immediato dopoguerra e la fine degli anni Sessanta esi-ste un atteggiamento ispirato all’arte pirandelliana, che a Parigi aveva trovato interpreti attenti. Resta qualcosa di Pirandello, dunque, anche nella temperie culturale di Parigi. Pensiamo alle novità della pratica teatrale, al Teatro dell’assurdo, a quello di Samuel Beckett, Eugène Ionesco e Arthur Adamov; sono tutte esperienze certa-mente originali e autonome, ma fondate su tematiche che Pirandello aveva già attraversato per primo.

Sarebbe interessante notare, magari pensando a uno studio critico o di analisi comparata dei testi, che tipo di rapporto esiste tra questi diversi momenti. Non si tratta di un approccio accademico, ma di cogliere la rinnovata attualità dell’opera pirandelliana attraverso le utilizza-zioni dirette o indirette, esplicite o implicite che di essa si sono avute nella contemporaneità.

Un’osservazione particolare è anche quella legata alla scena teatrale: Pirandello pone fin da subito il pubbli-co dentro l’azione. Se pensiamo a Questa sera si recita

a soggetto o a Ciascuno a suo modo, il pubblico non è solo spettatore ma anche protagonista, grazie a una mise en abîme – come dicono i teorici francesi – cioè un meccanismo di scatole cinesi concatenate e collegate, che strutturano lo spettacolo in uno straniamento non dissimile da quello che sarà operato da personalità della cultura teatrale tedesca come Bertold Brecht. Di questa capacità del teatro di Pirandello si è accorto tra i primi un grande uomo di teatro italiano, Giorgio Strehler. Nel secondo dopoguerra, quando Pirandello veniva un po’

messo da parte nella cultura italiana e non si era capito bene che cosa fosse stato in realtà, è a lui che dobbiamo la riassunzione delle opere pirandelliane e una capitale messa in scena dei Giganti della montagna.

Pirandello, infine, pensava di aver capito la vita, la realtà individuale e sociale. Troviamo in lui accenti di speranza, non legata a coaguli religiosi più o meno con-creti, ma a un senso tutto umanistico della positività dell’esperienza della vita, qualcosa che ha a che vedere con quel candore di cui scrisse Bontempelli e che si esprime anche negli aspetti di appartenenza dell’uomo all’universo. In questo senso la chiusa di Uno, nessuno e centomila non è soltanto la materializzazione della vita, ma riafferma una sostanziale durevolezza delle qualità precipue dell’umanità. Una riflessione che lascia lo spa-zio aperto ad altre riflessioni e approfondimenti perché

“Pirandello non conclude”.

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