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9 788899 851071
ISBN 978-88-99851-07-1
Di nuvole e vento
19 domande
su Luigi Pirandello
Intervista a Rino Caputo a cura di Valeria Noli
PRESIDENTE Andrea Riccardi VICE PRESIDENTI Gianni Letta Paolo Peluffo Luca Serianni
SOPRINTENDENTE AI CONTI Salvatore Giuseppe Italia REVISORI DEI CONTI Luigi Giampaolino Stefano Pozzoli
SEGRETARIO GENERALE Alessandro Masi CONSIGLIERI CENTRALI Monica Barni Michele Canonica Lucio Caracciolo Giulio Clamer Ferruccio De Bortoli Giuseppe De Rita Silvia Finzi Amadeo Lombardi Giampiero Massolo
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Di nuvole e vento
19 domande
su Luigi Pirandello
Intervista a Rino Caputo a cura di Valeria Noli
Sommario
prefazione [Paolo Peluffo] . . . .4
uno [in città] . . . .7
due [la fantasia] . . . .10
tre [il pirandellismo] . . . .13
quattro [χaos] . . . .16
cinque [volere la vita] . . . .19
sei [l'ordine sociale] . . . .22
sette [polemiche] . . . .25
otto [la folle ispirazione] . . . .28
nove [la stanza della tortura] . . . .32
dieci [il cinema] . . . .35
undici [un uomo di spettacolo] . . . .38
dodici [il mondo nuovo] . . . .40
tredici [l’atroce notte] . . . .43
quattordici [la famiglia] . . . .47
quindici [a teatro con Gramsci] . . . .50
sedici [il divertimento] . . . .52
diciassette [patria e confini] . . . .56
diciotto [lo straordinario] . . . .60
diciannove [di nuvole e vento] . . . .63
breve biografia di Luigi Pirandello . . . .67
biografia di Rino Caputo . . . .70
bibliografia ragionata . . . .72
prefazione Paolo Peluffo
prefazione
uno
Cosa attira l’attenzione di Pirandello quando arriva a Roma?
Luigi Pirandello trova subito molti spunti di rifles- sione, quando si trasferisce a Roma da Palermo, per studiare. Fuggire dalla nevrosi è un desiderio già co- mune e diffuso, ed è già chiaro che la vita cittadina può spingere le persone a investire nella fantasia, nei sogni o nelle ambizioni per superare le frustrazioni della realtà quotidiana. Nelle opere di Pirandello, però, non tutti i cittadini possono essere protagonisti. Volendo denigrare con l’uomo anche l’arte, i critici contemporanei affer- mavano che drammi, romanzi e novelle pirandelliani riguardavano “impiegati e insegnanti”, cioè persone di poco conto e non interessanti. Riconoscevano che la sua arte era insolita, ma forse più semplicemente non la comprendevano. Per noi invece è chiaro che proprio nella scelta dei soggetti, degli aspetti e dei momenti mar- ginali si trovano gli aspetti più particolari.
Pirandello era attratto e quasi sociologicamente incuriosito dalle persone che incontrava in città. Anche in Italia, diventavano sempre più grandi e lasciavano emergere le prime avvisaglie di molte innovazioni socia- li che oggi a noi appaiono compiute. Fa cenno alla sua fonte di ispirazione cittadina nel dialogo tra il perso- naggio del critico Baldani e la scrittrice Silvia Roncella
in città
(un Pirandello en travesti, il romanzo è Suo marito). Lei cerca una via nuova per la sua arte, lui le suggerisce di guardarsi intorno e vedrà “Un dramma d’anime, e nel mezzo nostro, cittadino”.
Possiamo considerarla un’affermazione personale dell’autore, che aveva capito la vitalità di una parte di popolazione solo in apparenza marginale ma destinata a estendersi più di altre fasce sociali per poi trasformarsi nella cassa di risonanza delle istanze della società di massa. Gli impiegati e gli insegnanti di Pirandello rie- scono a rappresentare l’esistenza umana in una “logica mobile della vita” (ancora Baldani) tra le costrizioni del reale e il crescente desiderio di divertimento.
Siamo nella Roma post-unitaria: quasi all’improvvi- so, da paesino di poche decine di migliaia di abitanti con le pecore che pascolavano tra gli archi del Colosseo, di- venta la capitale dell’Italia unita. Molti quartieri saranno costruiti proprio con quest’ottica e alcuni (per esempio
“Prati di Castello”, l’attuale Prati), sono anche citati in diverse novelle. Per esempio in E due! o In silenzio, storie di solitudini urbane, distanti dal sentimento comunita- rio della campagna e della provincia, incontrollabili e legate a una sorta di accelerazione al progresso.
Le strade di Prati prendono nome da personaggi ar- rivati come tante spade sotto le mura vaticane per segna- re il trionfo di un’ideologia unitaria, laica e anticlericale:
Giuseppe Mazzini, Giulio Cesare, Milizie, Vitelleschi, Cola di Rienzo o Crescenzio. La genesi del quartiere, come quella dell’Esquilino, risponde a una sorta di con- nubio tra le istanze repubblicane e le conversioni monar- chiche. I palazzi attorno a Piazza Vittorio Emanuele, a loro volta, conservano l’impronta della classe dirigente risorgimentale di cui Pirandello si sente fortemente l’erede. Le architetture di Torino sono state replicate e duplicate per offrire un ambiente familiare e accogliente ai funzionari piemontesi arrivati in città. Nella Roma dei ministeri, dei funzionari dello Stato, degli impiegati e
degli insegnanti si forma una classe sociale nuova che si offre all’attenzione del giovane Pirandello.
La sua prima abitazione è a casa di uno zio, tra pa- lazzi già legati all’urbanistica papalina e poi sempre più modernizzati. Siamo nella zona nella quale vive Mattia Pascal, nel romanzo omonimo. Fino al Ventennio fasci- sta, che produrrà il riassetto dei lungoteveri e il sistema di terrapieni attorno a Castel Sant’Angelo, era anche l’approdo cittadino, tra Ripa Grande (Complesso di San Michele) e Ripetta. Ben presto il giovane sentirà molto stretto il pensionato dallo zio, e andrà a vivere per conto proprio, scoprendo la città.
Tracce di questo periodo sono nella poesia Primavera dei terrazzi. Pirandello osserva una graziosa vicina e poi i passanti, con occhio curioso e lucido: “Così, tra i fior, su la balaustrata, / dei vasi ben disposti e con amore/ col- tivati da lei lungo l’annata, / un grande anch’ella pare e vivo fiore; / anzi, lei sola, un fiore”. Lei è più fiore dei fiori stessi, forse per via della sua forte vitalità e l’attenzione per la vita contrapposta all’estetica ci sarà sempre (lo ve- dremo specialmente nel dramma Diana e la Tuda). Forse la stagione in città gli appare meno naturale rispetto alla campagna: “Mi duol che voi, maestra giardiniera, / ve ne prendiate così assidua cura. / Codesti fiori dall’olezzo ingrato / non vi sembrano sforzi di natura?”, di sicuro è interessato alla folla. È anche questa una novità, la folla che comincia a palpitare e muoversi nella nuova capitale.
La conclusione della poesia somiglia a una ripresa cine- matografica: “Chierici e beoni, / giovani e vecchi, femine ed ostieri, / soldati, rivenduglioli, accattoni…”. Dopo aver contemplato una ridda di persone (che sembrano quasi pronte a trasformarsi in personaggi, in una specie di anticipazione di Uno, nessuno e centomila) conclude:
“…che retata di drammi originali!”. A partire da quei drammi originali, vissuti da persone ordinarie, nascerà la straordinaria arte di Luigi Pirandello.
Qual è il rapporto tra realtà e fantasia in Pirandello?
La realtà si compone di fatti. Anche negli articoli di teoria estetica o poetica lui si chiede “cosa è il fatto?”
e si risponde che è qualcosa di bruto, pesante, inerte e perfino stupido. Questa lettura appartiene a una reazio- ne antipositivistica e potremmo dire anche, in qualche modo, alla grande corrente che qualcuno chiama dell’i- dealismo. Il riferimento è a Benedetto Croce e a quei filosofi e pensatori che cercano di respingere il dominio del dato positivo. Aggiungiamo la visione di Luigi Parey- son, molto attuale, per il quale la verità non è certa, ma va sempre interpretata. Pirandello afferma che “il fatto in sé non è nulla”, seppure offra un appiglio perché, quando è successo qualcosa, “ti segna per tutta la vita”. Ma la vita non coincide con esso, e nemmeno con la sua memoria.
L’idea del rapporto tra realtà e fantasia è delineata nella tematica dei Sei personaggi in cerca d’autore, ma le riflessioni pirandelliane su questo tema iniziano ben prima. Da ventunenne appena arrivato a Roma da Pa- lermo, come prima cosa va a teatro. L’esperienza sarà fondamentale, una vera folgorazione, e ne scrive ai ge- nitori il 4 dicembre 1887: “Oh, il teatro dramatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un
la fantasia due
eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell’aria pe- sante che vi si respira, m’ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio.
È la vecchia passione che mi vi trascina, e non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d’azione, non ancora fermato, uomini e donne da dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d’un subito saltare sul palcoscenico”.
Immagina i personaggi che saltano fuori e dentro la scena, ma anche fuori e dentro la sua mente. È un mon- do di fantasmi e preme per vivere: “Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: è una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi, e che potrebbe farmi am- mattire dietro uno scoppio di fischi!”. Questa istantanea della mente di Pirandello contiene il seme dell’idea d’arte che fiorirà nei Sei personaggi. Per lui c’è un teatro nella realtà e poi, in una dimensione che non appartiene direttamente all’esperienza empirica, c’è un “teatro nel teatro”. La poesia Richiesta d’un tendone (nella Riviera Ligure, 1907, e poi in Nuova Antologia, 1910), parla pro- prio del rapporto tra realtà e finzione teatrale: “Voglio un tendone e vi dico perché”. Lo vuole per non guardare il cielo e non tenere conto della realtà, per continuare a vivere seguendo le regole correnti, come tutti gli altri uo- mini. La vita, in sostanza, gli appare come una finzione,
“Sicut in theatrum, item in coelo”, il teatro è l’universo e l’universo è il teatro. L’intuizione si svolgerà in modo più esplicito dagli anni Venti del Novecento fino agli esiti della carriera artistica (Giganti della montagna).
Un’altra lettera ai genitori scritta però prima, quando ancora era a Palermo, aggiunge al quadro gli elementi di una tematica ulteriore, insolita, offrendo quasi la testimonianza di una specie di incubo lettera- rio o psico-letterario. Afferma di sentirsi sempre vicino
una strana figura che lo accompagna ovunque, il “caro Gioja” (il cognome è scritto con la “j” tipica di Piran- dello), un “omarino”, una specie di mostriciattolo con la capigliatura molto folta e dagli occhi vivissimi. “Caro Gioja – non ridetegli in faccia – è un deforme gobbetto dalla statura umile, dalle gambe corte, dal largo petto e le spalle tirate in su, e la testa enorme affannosamente seppellita fra li omeri sporgenti... Il colore dei suoi gran- di occhioni si confonde tra il celeste scialbo e il verde mare pallidissimo; il suo naso è piccolo e schiacciato, ma trova largo compenso nella immensa bocca prominente, aperta sempre a un sogghigno, che mette il freddo nelle ossa... (…) mentre ch’io scrivo a voi, me lo vedo seduto a canto, (…) non trovo altro modo di liberarmene, che in occuparmi esclusivamente di lui”.
Questa figura fantasmatica lo accompagna nelle pri- me prove di scrittore e drammaturgo quando (tra i sedi- ci e i vent’anni) Pirandello scrive i cosiddetti “drammi perduti”. Il caro Gioja rassomiglia anche a un altro per- sonaggio del teatro pirandelliano. È il capocomico pro- tagonista di Questa sera si recita a soggetto, che stabilisce la tensione polemica con gli attori per ottenere da loro il massimo dell’espressività: “In frak, con un rotoletto di carta sotto il braccio, il Dottor Hinkfuss ha la terribi- lissima e ingiustissima condanna di essere un omarino alto poco più di un braccio. Ma se ne vendica portando un testone di capelli così. Si guarda prima le manine che forse incutono ribrezzo anche a lui, da quanto son gracili e con certi ditini pallidi e pelosi come bruchi”.
Il caro Gioja e il dottor Hinkfuss fanno pensare a qualche personaggio della grande narrativa del natu- ralismo francese. Pirandello conoscerà bene questa narrativa, ma solo in seguito. L’idea delle due figure è dunque nata spontaneamente, tra il liceo e l’università.
Il rapporto tra realtà e fantasia in Pirandello è infine da subito complesso e dinamico, sempre esposto alla varia- bilità dei punti di vista.
Che cosa si intende con “pirandellismo”
e perché lui non lo amava?
Il concetto di pirandellismo riguarda aspetti spirituali e filosofici collegati alla vita di Pirandello. Lui è molto laico, il suo spiritualismo è pervaso da una forma di re- ligiosità universale. Ma, come racconta nella bellissima novella La madonnina, perde la fede per una serie di delu- sioni. Il personaggio della storia si chiama Guiduccio, è fi- glio di una famiglia facoltosa e frequenta una parrocchia.
Il parroco sa bene che quella è la famiglia di una pecorella smarrita e lui è un figliol prodigo che bisogna recuperare dalle influenze di un ambiente liberale.
La famiglia di Pirandello (l’arte e la vita in lui proce- devano su vie parallele) appartiene per ascendenza alla piccola borghesia intellettuale liberale. È la stessa classe sociale che ha fatto il Risorgimento in Sicilia, la ritro- viamo nel romanzo I vecchi e i giovani, dove si esprime il dramma generazionale del giovane Pirandello. A lui, figlio di un garibaldino, e alla sua famiglia antiborbonica, il Risorgimento sarebbe apparso come un sogno tradito.
Il nonno materno morì esule a Malta, proprio come il personaggio della novella Colloquii con i personaggi. Pri- ma di morire, il protagonista della novella come il nonno vero, “si fece promettere e giurare dai figli che non avreb- bero avuto pensiero che non fosse per la patria e che senza
il pirandellismo tre
requie avrebbero speso la vita per la liberazione di essa”.
C’è una ulteriore corrispondenza, stavolta tra il prete di La madonnina e Don Innocenzo (zio reale di Luigi) che si occupò della moglie e della famiglia del fratello quando tornarono da Malta; dopo il ’48, Don Innocenzo dovette anche celebrare una messa per il ritorno dei Borboni in Sicilia. Nella novella la delusione di Guiduccio nasce da una bugia del canonico che cerca di recuperare il figliol prodigo servendosi di uno stratagemma. Organizza una lotteria per i piccoli con l’estrazione a sorte di una ma- donnina. E, guarda caso, la vincerà proprio il figlio della famiglia liberale! Ma ecco la scoperta amara: il bambino si accorge che tutti i bigliettini contenevano il suo nome e la realtà, conclude Guiduccio così come aveva concluso Luigi, può essere falsificata e può deludere. Non è che un’illusione e cambia con il variare del punto di vista.
Prende così corpo, in collegamento con l’esperienza biografica, la dimensione del relativismo pirandelliano, che lui considerava deteriore. L’avrebbe infatti consegna- to, proprio lui che teorizza la forma fissa come un aspetto negativo, all’etichetta angusta del “ragionatore”.
L’insistenza di Pirandello sulla discrasia tra realtà e apparenza ha dato la stura a molteplici interpretazioni della sua opera, in termini di concettualizzazione teore- tica. Si è voluta estrapolare una “filosofia di Pirandello”
dalle sue opere creative e artistiche, ma ci sono ancora di- versi aspetti da chiarire. Bisogna comunque ricordare che Pirandello, come dice nella prefazione ai Sei personaggi, apprezza l’arte che procede per immagini, e non per con- cetti, già dagli anni Venti. È uno dei punti della polemica con Benedetto Croce, questa sua opposizione strenua tra la concettualizzazione astratta e l’individuazione di una forma concreta. Pirandello e Croce utilizzano qui lo stesso riferimento, ma in modo diverso. È noto il rapporto stabilito da Croce con Francesco De Sanctis. Meno noto è che nell’opera desanctisiana Pirandello coglie l’elemento della situazione concreta, costruzione tipica dell’arte a
metà strada tra l’astrazione totale e l’individualizzazione strettamente intesa. Queste categorie vengono utilizzate e in qualche modo strumentalizzate a seconda dei momenti della polemica, ma non c’è dubbio che in Pirandello tro- viamo un’istanza anti-filosofica.
Ciò naturalmente non vuol dire che non ci sia un’in- dole filosofica nell’opera pirandelliana, solo che lui la respingeva. Possiamo invece dire che il rapporto stretto con l’opera di Giacomo Leopardi lo spinse a mettere in- sieme poesia e pensiero, arte e riflessione. Proprio mentre diventa un letterato impegnato, ed è a Roma, grazie a Gio- sue Carducci vengono finalmente conosciute le opere di Leopardi. Lo Zibaldone, principalmente, che era rimasto sepolto e dunque inutilizzabile per la cultura italiana tra gli anni Trenta e la pubblicazione di fine secolo.
Dobbiamo infine considerare l’azione esercitata sulla lettura dell’opera pirandelliana dalla torsione teoretica di Adriano Tilgher. Pirandello comincia a essere famo- so e il filosofo elabora una serie di categorie critiche per spiegarne l’arte. Le coppie oppositive realtà-apparenza, forma-materia, riflessione-sentimento servono a definire una filosofia che lo stesso Pirandello e con grande im- barazzo chiama il “pirandellismo”. Tilgher preciserà: “io mi ero limitato a dire che per capire la sua arte bisognava rendersi conto esatto della sua intuizione della vita e del mondo, della sua filosofia e i suoi tentativi di evasione”, ma Pirandello si sentiva costretto, come in una camicia di forza, in questa lettura che non sentiva sua.
E non poteva essere altrimenti, per un autore che ha scritto novelle in cui l’elemento della costrizione rispetto alla libertà è molto evidente. Pensiamo a quelle basate su metafore sartoriali, dove si esprime il fastidio dei perso- naggi e dell’autore per le etichette rigide: L’abito nuovo, L’abitino, Marsina stretta danno bene l’idea di cosa si prova nel ritrovarsi in una forma che costringe la vera essenza, proprio come accade a chi cerca di indossare un vestito troppo piccolo.
Che cosa intendeva Pirandello dicendosi un uomo
“della Grecia antica”?
Mostrando una straordinaria propensione per l’an- tico e per il dramma, applicati al presente, Pirandello risale alla dimensione della tragedia antica e, con un po’ di civetteria, si definisce anche una sorta di antico greco sbarcato nella Sicilia moderna. Molte elaborazioni drammatiche pirandelliane sono state viste come il re- cupero di tematiche antiche e proprio con questo atteg- giamento decide di nobilitare la contrada in cui era nato.
Scriverà in una dichiarazione autobiografica: “io dunque son figlio del χaos”, scritto con la “c”. Io qui uso volutamente la “χ” perché lui avrebbe letto la parola alla greca (un suono di “c” aspirata). Sappiamo che la contra- da dove sorge la casa natale di Pirandello si trova sulle famose argille azzurre del mare tra Agrigento e Porto Empedocle. I contadini chiamavano la contrada “u cau- su”, o “u cavusu”, in dialetto.
Piace a Pirandello nobilitare quei luoghi e collegare la sua origine a quella arcaica, che lui sente ancora viva, della Magna Grecia. Il riferimento al teatro antico è an- cora più esplicito quando si confronta con Nietzsche in un passaggio molto importante per ricostruire il mondo
quattro χ aos
immaginario pirandelliano: “Nietzsche diceva che i Greci alzavano bianche statue contro il nero abisso, per nasconderlo (…) Io le scrollo, invece, per rivelarlo.”
È la posizione di chi si dice addirittura capace di sve- lare i segreti del teatro antico, di sollevare il famoso velo di Maya, di chi attribuisce a sé stesso un’istanza ancora più forte di quella del teatro greco: lo smascheramento della realtà. La creatività di Pirandello è indubbiamente uno degli acquisti più importanti per l’intera cultura euro-occidentale e (oso dire) anche mondiale. In testi meno conosciuti dal grande pubblico, e che inspiegabil- mente non trovano una dignità di citazione nelle antolo- gie scolastiche, la scopriamo alla massima espressione.
Il romanzo Suo marito, per esempio, già citato, non fu mai ripubblicato dopo la prima edizione (1911) ma parla proprio della dimensione dell’arte, della creazione e dei relativi percorsi. Pirandello cercherà di riscriverlo, senza mai riuscire ad andare oltre il V capitolo, con il nuovo titolo Giustino Roncella nato Boggiòlo. La protagonista è la scrittrice Silvia Roncella che, come già detto sopra, è un Pirandello sotto mentite spoglie. Lui qui si traveste da donna scrittrice, perché considerava l’arte parallela, simile, addirittura sorella della gravidanza e del parto.
La viveva come una gestazione lunga e impegnativa, e in questi termini è stata analizzata anche dai principali studiosi, secondo i quali l’opera d’arte di Pirandello na- sce, cresce e si esplicita in un modo non troppo diverso da come viene concepito, si forma e poi inizia a vivere un essere umano. Troviamo anche in questo caso intuizioni dei primi anni romani, quando Pirandello alterna all’at- tività creativa anche un impegno dettagliato nell’edizio- ne di lavori di saggistica.
Questo istinto alla saggistica produce anche lavori e riflessioni sulle attività connesse al teatro. Si impegna a voler tradurre in termini concreti le distinzioni di natu- ra teorica, cercando di spiegare i passaggi e accertandosi di far capire la terminologia scelta. Ecco una citazione
dal saggio Illustratori, attori e traduttori in cui, come dice il titolo, Pirandello si occupa delle figure che han- no a che fare con diversi tipi d’arte letteraria, visiva o anche di altra natura, Ricordiamo che lui alterna alla pratica letteraria anche una propensione alla pittura che non lo abbandonerà mai. Dipingerà, seppure in forma dilettantistica, ritratti e bozzetti dei membri della fa- miglia e i paesaggi dei luoghi di vacanza. Troviamo in Pirandello un’attenzione alla rappresentazione dell’arte visuale attraverso la dimensione figurativa che non determina nulla di rivoluzionario o eccentrico rispetto alla formazione di un qualunque dilettante di pittura, ma conferma la varietà dei suoi interessi. Forse proprio attraverso questa vena pittorica è arrivata al figlio Fausto la vocazione che lo ha reso non un epigono pittorico del padre, ma un artista autonomo. Oggi lo si ritiene uno dei maggiori esponenti della scuola romana degli anni Trenta, che ha sortito tanti risultati nell’immediato ed è andata avanti fino al secondo dopoguerra.
“La vita che nasce non la comanda nessuno”, ma l’arte si può volere?
È interessante la dimensione organicistica che fa ve- dere l’arte come creazione di vita, considerando che l’arte più vitale per Pirandello non è il cinema, bensì il teatro; lo considera come la vita, la forma d’arte più eccelsa. Conti- nua anche in questo caso a voler precisare la natura esatta e peculiare dell’esperienza artistica, facendo molti riferi- menti (tra i saggi di fine Ottocento e le opere creative degli anni Dieci e Venti) sul parallelismo tra la natura della vita e quella dell’arte.
La vita, pensa Pirandello, non si può “volere” e non si può decidere. La gravidanza non è per lui un’operazione che si possa programmare o decidere razionalmente.
Guarda piuttosto alla creazione come a un mistero pro- fondo, che accade a prescindere dalla volontà, e volerlo non significa necessariamente che si realizzi.
La vita si “vuole” con un processo spontaneo, le cui motivazioni non sono sempre condizionate dalla volontà razionale degli individui, anche quando l’individuo è la donna, detentrice delle condizioni per far nascere una nuova vita. Facciamo alcuni esempi che gettano luci sistematiche su temi che ancora una volta lui sa intuire anzitempo. Oggi, nella società massificata e globalizzata, sono problematiche di tutti.
cinque
volere la vita
La commedia intitolata L’innesto parla di due coniu- gi che non hanno figli. La donna rimane vittima di uno stupro, immotivato, che ha come conseguenza il concepi- mento di una vita nuova. Si verifica comunque, nonostan- te la volontà e le convenzioni sociali e la storia che tratta la relazione drammatica e le evoluzioni dei rapporti tra i due coniugi sembra un fatto di cronaca recente.
Ce n’è poi un’altra, più terribile, che è tra le più inte- ressanti novelle di Pirandello: L’altro figlio (inserita dai fratelli Taviani con La giara e altre novelle nel film Kaos).
La novella parla di stupro, di una sorta di pulizia etnica e di problematiche legate alla psicologia del profondo ed è una storia oggettiva che si intreccia con storie verticali e individuali. Una famiglia con due figli piccoli subisce un attacco da una compagnia di briganti. Siamo nella fase po- strisorgimentale, Garibaldi è passato dalla Sicilia, c’è l’uni- tà. La moglie diventa preda di un capo brigante che, dopo averle ucciso il marito, la prende con la forza. Non resta alcuna possibilità, lo stesso capo brigante sarà poi ucciso e nulla rimane di vivo se non la creatura nata dalla violenza.
È un terzo figlio, la donna lo sente diverso, altro, rispetto agli altri due, legittimi, che le appaiono più naturali.
Ovviamente Pirandello inserisce queste tematiche nella cornice storica del momento, in una sequenza che nel film è giustamente valorizzata: la donna è anziana e povera, ma cerca ancora di mandare messaggi ai due figli emigrati in America. Non hanno più contatti con lei, che è analfabeta e cerca di raggiungerli attraverso una vicina, cui chiede di scriver loro i suoi pensieri e cenni di affetto.
Le lettere non saranno mai spedite e la donna non avrà più notizie dei figli. Tutto questo si scopre solo alla fine. L’altro figlio, intanto, non fa mancare la sua attenzione e vuole recuperare l’amore materno; si sente figlio sino in fondo, è un pastore agiato, le porta la tazza di latte e il cibo. Lei lo rifiuta sistematicamente perché non lo sente come suo e non lo vuole. Ecco che la vita si è evoluta nonostante la volontà individuale.
Pensiamo ora alle immagini della nascita di Minerva, al caos creatore, alla mitologia greca. Pirandello deve aver pensato a questo, nel trattamento cinematografico dei Sei personaggi in cerca d’autore. È un grande dramma, questa commedia che viene rappresentata per la prima volta a Roma nel 1921. Subito, incontra un successo mondiale e nel 1923 è a Parigi. Lui, già celebre in tutto il mondo, vuole sfruttare la notorietà, cercando “candidamente e ingenuamente” di fare buoni soldini con il cinema. Pensa a Hollywood, all’utilizzazione delle sue opere, inizia a scrivere trattamenti cinematografici dei suoi personaggi.
Molto interessante la prima scena della versione per il cinema: “Il poeta Luigi Pirandello è seduto alla scrivania nel suo studio” (segue una dissolvenza, la cinematografia aveva già strumenti interessanti per la costruzione delle realtà fittizie). Pirandello-autore immagina che dalla testa di Pirandello-protagonista sulla scena escano i personag- gi come tante “Minerve” dal cervello di Giove.
Mi sono giovato di quest’immagine per il titolo Il piccolo padreterno, che naturalmente è un libro sull’o- pera di Pirandello. Lo chiamo così perché fa nascere ex nihilo le sue creature artistiche, si attribuisce il potere di Dio, ma è un dio piccolo, un creatore che condivide l’e- sperienza caduca delle sue creature e appartiene al loro stesso insieme.
In una commedia che si chiama Trovarsi, molto inten- sa e che è stata il cavallo di battaglia di diverse interpreti, Pirandello così sintetizza il suo pensiero sul rapporto tra vita e arte: la vita non si crea per volontà, ma l’arte sì. “La volontà di farcela, una vita, il bisogno di farla consistere in qualche modo, com’è possibile (…), perché non dipende più da noi soltanto, ci sono gli altri – i casi – le condi- zioni – e chi ci sta più vicino – che possono contrariarci, ostacolarci – non sei più tu sola, in mezzo a tutto questo increato che vuol crearsi e non ci riesce – non sei più libe- ra! E allora... allora dove la vita è creata liberamente, è là invece, nel teatro!”.
sei
Per Pirandello esiste una ragione naturale nell’ordine sociale?
L’ordine sociale al tempo di Pirandello sta cambian- do. La domanda se una donna possa volere una vita arriva in un’epoca storica in cui non erano concepibili le attuali induzioni del concepimento e della gestazio- ne ma lui è già consapevole di tutte le tematiche che si collegano alla nascita e le indaga, nel rapporto tra la maternità biologica naturale e la maternità reale.
La ragione degli altri, che non è solo il titolo della novella ma anche l’argomento della scrittura, esamina e rappre- senta la storia di una donna che diventa l’amante di un uomo abbandonato dalla moglie. Lui è rimasto solo con una bambina, della quale si occuperà questa donna che è soltanto un’amante, una non-moglie. Eppure lei alleva amorosamente la piccola e la cresce, fino a quando però torna la mamma biologica, che l’aveva concepita e par- torita, con la pretesa di riprendere i suoi diritti. Nascono il contrasto e il dramma: chi è la vera madre? Colei che pretende di riprendersi la figlia secondo l’ordine sociale o quella che se ne è sempre occupata? Pirandello è chia- ro: la madre vera è quella che l’ha cresciuta, ma proprio per amore della bambina si metterà da parte, convinta
l’ordine sociale
che la figlia deve ritrovare la madre naturale.
Per Pirandello, dunque, la ragione naturale non coincide con l’ordine sociale. La scelta della donna è infatti vista in modo rivoluzionario e non è un ritorno al positivismo, ma alla vera qualità. La vera donna e madre è lei, anche se i fatti della vita rispettano le leggi prestabilite.
Troviamo qui una sorta di sentimento dell’oppo- sizione, nato già alla fine degli anni Novanta e che gli fa superare, anche nello scrivere, certe trattazioni na- turalistiche legate alla realtà siciliana come in Verga o Capuana.
Pirandello ha piuttosto una posizione più vicina alla visione di Henry Bergson: tempo standard, o intersog- gettivo, e tempo interiore non possono coincidere, tutto è relativo e osservare il mondo significa sicuramente tener conto delle esperienze personali. Anche la realtà dello spirito non si lascia costringere dagli schemi o dalle teorie sociali, perché la vita è movimento e la co- scienza appare come un fattore di riorganizzazione del caos. La vita, in questa visione che prelude alla stratifica- zione narrativa e cosciente di Uno, nessuno e centomila o alle Novelle per un anno, appare varia e frantumata, non appartiene a un tempo rettilineo ma è mescolanza.
L’unica dominante è il fluire costante e dissipatore del tempo, che nega ogni corrispondenza simbolica tra uomo e natura e ogni armonia e organicità, così come le considerazioni di tipo sociale e l’esperienza concreta ha delle regole che non sempre attengono alla verità interio- re degli individui.
Troviamo analisi simili anche nel romanzo L’esclusa (che nella prima versione era intitolato Marta Ajala). Qui emerge il sentimento del contrario tipico dell’umorismo, visto come compresenza contrastiva e non oppositiva di bene e male, oscuro e luminoso, opposti e contrari nell’opera d’arte.
Tra vita e apparenza, in contrasto tra loro, le regole
sociali e la coscienza interiore investono le problemati- che legate alla maternità e al matrimonio nella storia di una bella ragazza appena sposata con un giovane, che certamente ha molti tratti positivi. Ma la famiglia di lui è segnata da una assurda gelosia, che si ripete di gene- razione in generazione con l’idea, la paura, l’ossessione maschile di essere cornuti.
Marta Ajala, questa bella ragazza che fa la maestra ed è dunque per quei tempi una donna istruita, ha una sua realtà sociale, anche indipendentemente dall’essere moglie di qualcuno, e per un po’ subisce la gelosia os- sessiva e possessiva della famiglia del marito. Ci saranno poi delle vicende per cui lei andrà via da questo mondo che non la vuole e che la tratta come esclusa. Ma è una bella donna, lavora, sa stare in società e intrattiene delle relazioni umane più o meno strette, anche sentimentali e sessuali. Resta incinta, e non certo nell’ambito matrimo- niale, ma il paradosso è che sarà re-inclusa dal marito che, pentito, la riammette nel precedente universo ma- trimoniale e sociale proprio quando lei lo aveva violato.
Da amante e adultera si trasformerà nella moglie che aspetta un figlio nell’alveo sacralizzato del matrimonio.
Su questo livello e almeno dal 1893, Capuana – che aveva spinto Pirandello a cimentarsi con il romanzo – ricono- sce il superamento dei tratti veristici.
È vero che Pirandello stroncò le Myricae di Pascoli?
Dopo il fallimento dell’impresa familiare, Pirandello diventa giornalista e critico letterario, “per necessità e di professione”. Con una certa lungimiranza, il direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini gli commissiona delle storie per la terza pagina, con un vero e proprio contratto come novelliere. Ciò significherà da un lato una grande prolificità artistica ma anche una condanna alla scrittura.
Lavorava anche per la Rassegna settimanale univer- sale di Roma, firmando le sue critiche come Giulian Dorpelli (anagramma di Luigi Pirandello). Una la de- dicò alle Myricae di Giovanni Pascoli. L’inizio non era dei più incoraggianti: “Ogni mestiere ha i suoi attrezzi e la critica ha i suoi. Uno dei più usati è, per esempio, quella tal riserva d’alcune lievi mende nella forma di certi libri, Dio sa come e perché lodati...”. Inizia effetti- vamente come una stroncatura, e così Pascoli la intende.
Accoglie l’articolo in modo molto drammatico, come apprendiamo dalla corrispondenza con Angiolo Or- vieto dove lamenta le critiche “di tale Giulian Dorpelli”
nella rubrica Tra libri vecchi e nuovi del 14 marzo 1897.
Pascoli scrive anche a Orvieto che si era pentito di aver espresso un parere favorevole “a quel Pimpirindello”,
sette
polemiche
quando l’editore Giusti lo aveva consultato in merito alla pubblicazione della traduzione pirandelliana delle Elegie romane di Goethe.
Il risentimento del poeta di San Mauro fu notato nel gruppo romano cui Pirandello apparteneva e dal quale arrivò anche un altro articolo, stavolta di Apostolo Zeno e sui Poemetti, sulla stessa Rassegna. Zeno invitava a rimeditare l’accusa di oscurità che Dorpelli aveva mosso a Pascoli. La critica era dunque legata, in qualche modo, all’inserimento di Pirandello nei gruppi letterari e cul- turali della Roma postunitaria. Pascoli dirà che lui è uno scherano armato da altri mandanti, “cioè dalla mafia siciliana a Roma” (allude al gruppo che fa riferimento a Luigi Capuana, portatore di un ruolo nel campo politi- co-critico-letterario che forse era anche maggiore della sua pur riconosciuta qualità letteraria). Ancora nella corrispondenza con Orvieto, Pascoli afferma: “Sarò poe- ta inferiore a lui, ma uomo migliore”.
Siamo comunque nel momento di passaggio tra Verga e Pirandello, o tra Verga e gli scrittori successivi.
Capuana guida una “congrega letteraria” cui apparten- gono tanti scrittori siciliani trapiantati a Roma: Angiolo Orvieto, Ugo Fleres, Giuseppe Mantica, Giovanni Alfre- do Cesareo e lo stesso Pirandello. Questi è sodale con i personaggi della vita letteraria capitolina, che lo aiutano a inserirsi, come quando – le fonti sono ben documen- tate – sostengono la sua stabilizzazione. Pirandello par- tecipa al concorso per diventare professore di stilistica e retorica nel Superiore Magistero Femminile e la prova concorsuale viene aiutata (per dirla con un eufemismo) dal gruppo dei suoi amici molto influenti. Pascoli, pur non conoscendo il suo giovane recensore, lo assegna lucidamente a un partito preciso.
Sono sicuro che Pirandello si sarà successivamente pentito dei giudizi ingenerosi verso Pascoli e non c’è dubbio che accenti pascoliani si trovino anche nell’o- pera pirandelliana. Nella seconda parte della critica di
Dorpelli si contempla peraltro in modo positivo la poe- sia pascoliana, mettendone anche in evidenza gli aspetti carsici, dove “il vero motivo del sentimento è rimasto chiuso dentro”. Pascoli conferma questo aspetto quando distingue la poesia applicata dalla poesia pura (inespres- sa e ineffabile). La critica di Dorpelli si conclude così: “E detto così fuggevolmente il bene e il male, concludiamo che tra le poche voci poetiche, in mezzo al frastuono assordante di questa vita nostra, la voce del Pascoli ci sembra, se non la più limpida e vigorosa, senza dubbio la più vibrante e la più originale”.
Possiamo concludere che Pascoli, attraverso la po- lemica, poté esplicitare una sua dimensione, una realtà della sua vita e della sua psicologia non direttamente evidenti nelle sue poesie, un’angolatura caratteriale dalla quale possiamo osservare meglio il radicamento di Pi- randello nella vita letteraria romana.
otto
Quanto interagiscono vita e ispirazione in Pirandello?
Il rapporto tra vita e opera di Pirandello è molto interessante, specie per quanto riguarda l’esperienza familiare ricca di vicende ed emozioni molto intense.
Nelle opere di Pirandello la donna esprime personalità forti, sia nel ruolo di madre, custode autorevole e coe- rente di valori, che quando esprime l’energia malsana delle protagoniste pazze e gelose.
Però Antonietta, moglie di Pirandello, proprio in quanto folle e paranoica qualche verità nella realtà del marito la doveva pur individuare. Aveva capito che la vera passione per lui era l’arte e la creazione artistica, una possessione e un’altra dimensione che in certi mo- menti lei giunse a odiare.
L’esperienza coniugale di Pirandello è decisiva, per la sua arte. Vediamone alcuni tratti, restando consape- voli che nei grandi artisti non c’è la trasposizione mec- canica della vita nelle opere e non possiamo immagi- nare una sorta di documentario positivistico leggendo ciò che accadde.
Il matrimonio fu preparato secondo le tradizioni del tempo. I consuoceri, legati da affari, decidono di
la folle ispirazione
far unire i loro discendenti anche per ragioni econo- mico-sociali. Luigi Pirandello e Antonietta Portulano si incontrano dunque per conformarsi alla tradizione, ma scatta tra loro una passione autentica. Si piacciono, e nasce tra loro un rapporto davvero intenso, come apprendiamo dalla testimonianza del figlio primoge- nito Stefano. Scriverà che, pur nella polemica e nella tensione portati dal crescente delirio di lei, “c’era un momento in cui mio padre e mia madre si chiudevano dietro le spalle, a chiave, la porta della camera da letto e non avevano più nessun rapporto col resto della casa e della famiglia”. La sensazione di sentire che i genitori in quel momento più che padre e madre tornavano ad essere coniugi in un modo più esclusivo e intenso defi- nisce bene la situazione. C’era sicuramente della mor- bosità ma anche una situazione di grande passionalità.
A un certo punto, però, questa passione si trasforma in gelosia ossessiva e paranoica. Quando lui, che fati- cosamente riusciva a scrivere e anche a insegnare nel Superiore Magistero Femminile di Roma, tornava a casa la sera, la moglie gli frugava le tasche della giac- ca, prima ancora di salutarlo, per cercare i bigliettini d’amore delle studentesse con cui sospettava ci fossero delle relazioni.
Un’ex allieva di Pirandello lo ricorderà come un in- segnante del tutto a posto, ma la moglie è ossessionata dall’idea del tradimento. Giunge al parossismo di voler vedere un rapporto incestuoso tra lui e la figlia dicias- settenne. La povera Lietta arriva a tentare il suicido, con una pistola del padre che aveva trovato in casa ma che, arrugginita, si inceppa. Pirandello dovrà prendere provvedimenti, la fanciulla sarà allontanata da que- sto terribile ambiente familiare e inviata da parenti a Firenze.
Immedesimiamoci per un momento in questa dimensione folle e ossessiva: la moglie che accusa il marito-padre di avere una relazione morbosa con la
figlia che cosa ci ricorda? La scena fondamentale dei Sei personaggi in cerca d’autore, anche se nel romanzo la situazione è attenuata in un rapporto tra un patrigno e la figliastra. I Sei personaggi si presentano al capo- comico perché vogliono vivere ciò per cui l’autore li ha messi al mondo. Vogliono recitare la scena fonda- mentale della loro storia sulle assi del palcoscenico, affermano che sono nati per vivere, eternamente fatti per una vita che però, concretamente, non si manifesta mai. La scena fondamentale dell’opera, da svolgersi tra il patrigno e la figliastra giovanetta, vestita di un nero lugubre, morboso, equivoco, non ci sarà mai.
Lei insiste per recitare e dunque vivere l’incontro, previsto dal testo nel retrobottega di un atelier che sembra una sartoria, ma dentro è una casa di appunta- menti. Il patrigno ha tutti i tratti dell’uomo maturo ed è dedito, come usava allora, alla frequentazione delle
“case chiuse”. Nella sceneggiatura proprio qui doveva incontrare un’adolescente, oggi diremmo escort, che si mette a sua disposizione per ragioni economiche. Il ca- pocomico vieta alla figliastra di vivere questa scena car- dine, perché è l’attrice che deve interpretare la sua parte.
La scena richiama l’esperienza reale, ripropone l’idea di un potenziale incesto che non viene consumato e il rapporto tra arte e vita può dunque essere affrontato e descritto. L’arte che trasfigura l’esperienza reale però non si limita a questo aspetto e torna anche nell’im- magine della moglie pazza e gelosa che da un lato sof- foca la vita del personaggio maschile, qualunque cosa faccia, dall’altro garantisce l’azione forte. È come se la donna chiudesse alla vita l’uomo, il marito, l’amante, dicendogli: “posso bastare solo io, per la tua vita”. Non è solo una gelosia legata alla follia, ma un modo con cui la donna si accredita come totalmente bastevole ai bisogni dell’uomo. Se guardiamo al tema in questo modo, anche la descrizione del possibile incesto dei Sei personaggi definisce una forma d’arte: il personaggio
raccoglie le volontà represse, i desideri e gli impulsi che nella vita reale sono governati dall’interprete e dall’autore.
Tra le grandi commedie, banco di prova per gli inter- preti maschili, ricordiamo infine L’uomo dal fiore in boc- ca dove il protagonista, che sta per morire, si interroga sul mistero dell’essenza della vita e in un passaggio par- ticolarmente intenso respinge l’idea di una vita banale e ordinata, quasi come se fosse peggiore della morte.
Che cos’è la “stanza della tortura” di Pirandello di cui parla Giovanni Macchia?
Si tratta di una felicissima immagine coniata dal grande studioso, esegeta dell’opera di Pirandello, non- ché editore delle Maschere nude per i Meridiani Mon- dadori con Mario Costanzo. Si tratta dell’immagine di una mente artistica che chiude i personaggi nella scena, dove sono torturati, perseguitati, imprigionati, dai fat- ti e dalla vita, entro ambienti nei quali consistono e si trasferiscono, con un movimento circolare e continuo, le relazioni pirandelliane dalla vita alla scena e da un’o- pera all’altra. Pirandello non chiude, non definisce e non chiarisce il senso delle rappresentazioni ma lascia nello spettatore il dubbio su quale e dove sia la verità. I dram- mi non si svolgono interamente e necessariamente sulla scena e nelle opere, e per esempio nei Quaderni di Serafi- no Gubbio operatore, accanto alla sua storia, ne nascono altre, secondarie e legate ad altre opere che conosceremo attraverso il teatro, come Ciascuno a suo modo.
Troviamo un’attenzione specifica per l’opera lirica e la figura della cantante, considerazioni sul contra- sto tra la vivacità e la purezza della voce che canta e le contraddizioni della vita di cui Pirandello parla anche
la stanza della tortura nove
in altre commedie. Troviamo un’attenzione particolare rivolta allo spettacolo, nelle sue componenti e varietà.
C’è infine l’elemento importante e poetico, legato a temi di altri autori, ma notato da pochi, nella sensibilità quasi crepuscolare di Pirandello quando mostra, proprio nei Quaderni, atteggiamenti quasi degni di Gozzano.
Troviamo infine, nei Quaderni, il tema della me- moria. Serafino Gubbio va nella casa dei nonni, nella dimensione paesana nativa, dove crede di poter coltivare dei sentimenti per una fanciulla che si chiama Lidia (Duccella). I fatti poi si sviluppano in modo irreparabile e inizia una sorta di inseguimento ariostesco con lui che ama colei che ama un altro, e infine si ritira sconfitto.
Nella seconda parte del romanzo, Serafino tornerà nella casa in mezzo alla campagna, a distanza di tempo: nulla però può essere come prima, la fanciulla è una zitella un po’ ingrassata e lo accoglie apostrofandolo con un’altera- zione dialettale. “Trasite, trasite!”, gli dice. È la rottura di una situazione che prima poteva sembrare positiva ma ora risulta irrimediabilmente compromessa.
La memoria non è un luogo confortante cui si possa tornare e il tentativo di ritorno al passato, con tutti i suoi addentellati, rivela la caducità del tempo. Tutto si svolge sempre con le contraddizioni che Serafino ha imparato a notare nella realtà della società di massa.
Non c’è dubbio che il più grande cambiamento, testimoniato anche nella nuova arte cinematografica, riguardi la figura femminile. Pirandello ha una visio- ne complessa e moderna circa la crescente autonomia delle donne, il loro nuovo ruolo nel mondo del lavoro e nella cultura, la possibilità di esprimere sentimenti ed emozioni anche contraddittorie e le conseguenze nella sfera sociale e familiare. Tuttavia tra i personaggi di Pirandello non troveremo mai donne equilibrate, ma sempre agli estremi. Una visione che ha a che vedere con il senso dell’umorismo (che è anche un po’ crude- le), con l’idea che i personaggi creati provocano il riso
o il compatimento. E la donna è alternativamente un archetipo materno o una prostituta, sempre sregolata e quasi mai una figura nella quale le emozioni e i valori si armonizzano. Sono anche allusioni alla struttura della società che sta cambiando dove ci sono figure femmi- nili nuove, le prime vamp. La parola (non casualmente) deriva da “vampiro”.
I Quaderni di Serafino Gubbio operatore sono un romanzo molto utile per capire la società di massa del primo Novecento. Il personaggio femminile principale è una russa bionda e bella, una “mangiatrice di uomini”.
È paragonata a una tigre ingabbiata dove si sta per fare una rappresentazione cinematografica. Il domatore della tigre diventa anche l’amante deluso della vamp e quando si consumerà anche una tragedia, al momento opportu- no, resterà il dubbio fondamentale: chi è la tigre vera, tra il felino e la donna. Chi mangia chi?
dieci
Cosa pensa Pirandello del cinema nella società di massa?
Il mezzo eccellente per esprimere la nuova visione del mondo nuovo è certamente quello cinematografico.
Pirandello dedica ampie riflessioni agli aspetti teorici della nuova arte. La sua lettura ha riguardato e influen- zato tutta la cultura europea, proprio grazie al roman- zo su Serafino Gubbio. Significativamente, nella prima versione del 1916 si chiamava Si gira! Un decennio dopo la ripubblicazione del romanzo (avvenuta nel 1925), dopo la sua traduzione e diffusione in tutta Europa, un grande intellettuale come Walter Benjamin ne parlerà nel suo aureo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica tra le considerazioni sulla nuova realtà dell’arte e della società, quando, per capire “come va il mondo oggi”, invita a leggere Pirandello.
Lui si interroga sul rapporto tra la nuova dimensione aperta dalle tecniche cinematografiche e il resto della realtà mentre le masse stanno facendo irruzione nel mondo del lavoro, della cultura, dell’arte e della lette- ratura. Effettivamente nei Quaderni vengono sviluppati più temi, proprio a partire da quello centrale, il lavoro del protagonista. Serafino, operatore, indica cosa pensa
dieci
il cinema
Pirandello della differenza tra attore di teatro e attore di cinema.
Gli attori di teatro vengono coinvolti nello spazio cinematografico, ma qui si trovano spaesati, sconcertati e perplessi: non ci si ritrovano. Per quale motivo? Per- ché l’attore di teatro vive hic et nunc la sua esperienza di recitazione: arriva in teatro, mette i panni di Amleto e per tre ore diventa il principe di Danimarca. Dopo la rappresentazione riprende i suoi panni e magari va a mangiare una pizza con gli amici, nel ristorante vicino.
Nel cinema non accade così. L’attore cinematografico interpreta una parte e anche se in essa si esprime, davanti a lui c’è una macchina che “prende” (o riprende) le scene.
Nessuno oggi pensa più che la ripresa cinematografica abbia a che fare con il prendere qualcosa, eppure c’è una macchina che cattura la vita degli attori, per riprodurla in modo dilazionato, tendenzialmente in eterno, finché il mezzo tecnologico riesce a durare.
L’attore di teatro vive in “quell’istante concreto”, per il tempo della rappresentazione, si identifica con il perso- naggio, mentre l’attore cinematografico le sue emozioni e la sua parte non li vivrà mai immediatamente, anche se avrà una vita ipoteticamente eterna. Allora il personag- gio in cerca d’autore, nato per vivere, non coincide con l’interprete la cui parte è catturata da un mezzo che poi lo riproduce come e quando vuole.
Sappiamo, grazie all’epistolario giovanile, che Pi- randello conosce precocemente anche il cinema, come il teatro. Se la storia del cinema inizia con gli esperi- menti dei fratelli Lumière, pochi anni dopo (1898) se ne è già accorto: è già un letterato, ha qualche fama nazionale ed è attento a tutto ciò che accade nella vita culturale di Roma.
È lecito credere che abbia assistito alle prime speri- mentazioni cinematografiche. Abbiamo anche l’abbozzo di un romanzo che lui intendeva dedicare alle prime prove di esperienza cinematografica e che si doveva
chiamare Filauri. Sempre di più si tende a considerarlo la prima versione di Si gira! Qui Pirandello racconta un circo strano, con tante lenzuola stese, pali, gente che va e viene, che siede alla trattoria della Kosmograph (lo stabilimento cinematografico).
Dal balcone della casa in cui abitava, una traversa di via Nomentana (via Bosio), ancora sterrata e non urbanizzata, lui poteva fare un’esperienza molto diretta dei set. Era poi sodale di uomini d’arte e cultura che pur senza rinunciare al teatro, passavano anche al cinema.
Così fanno i fratelli Bragaglia (creatori del piano del palcoscenico rotante, innovazione che dal teatro si tra- sferisce sui set) o alla scena tecnica futurista, cioè tutti coloro che si impegnano a definire nuovi spazi teatrali per sopravvivere all’insidia della nuova arte.
A inizio Novecento in Italia è già nata un’industria cinematografica. Si realizza un film (l’ho segnalato per tempo) che è il primo lungometraggio italiano dedi- cato alla Divina Commedia, ed è girato da De Liguoro nel 1910. Nel 1914 abbiamo poi il Cabiria di Giovanni Pastrone e Gabriele D’Annunzio, ma ci sono anche tanti altri cortometraggi e mediometraggi di allora che sviluppano praticamente tutte le tematiche della nostra tradizione letteraria.
Alla fine degli anni Venti, in una intervista sull’av- vento del cinema sonoro, Pirandello esprimerà delle riserve sull’uso dei suoni “staccati” dalla presenza fisica degli attori. Lo considerava qualcosa di innaturale al- meno quanto il doppiaggio, “ibrido ripiego cui si dovrà rinunziare per sempre”. Il doublage gli appare addirittu- ra “bestiale” perché “La lingua non consiste soltanto di parole e dei rispettivi accenti e suoni, ma, esprimendo pensieri e sensazioni, è strettamente legata ai caratteri di un popolo”. Ma il cinema sonoro, come si sa, avrà una fortuna molto diversa, proprio all’interno della società di massa che allora stava nascendo.
Possiamo dire che Pirandello fu un uomo di spettacolo?
Di base, possiamo riconoscere un certo atteggiamen- to fatto di narcisismo, compiacimento e volontà di rico- noscimento documentato in lui già dalla fase giovanile.
Esplicita questa tensione già nelle prime lettere inviate ai genitori e alla sorella, dove troviamo la volontà di comu- nicare praticamente tutta la sua attività artistica a loro come a un pubblico.
Per le nostre esigenze storico-filologiche e documen- tarie l’epistolario offre materiale prezioso da cui ricavare informazioni importanti e accurate sull’opera pirandel- liana. Nelle singole lettere riporta situazioni artistiche, intenzioni compositive e riferimenti che ci mostrano che sentiva l’arte come una necessità.
Tutto questo trova uno sbocco effettivo nell’estrin- secazione espressiva che potremmo definire con la formula antica dell’essere “osceni”. Il termine ha oggi una connotazione molto negativa nel nostro orizzonte sociolinguistico, ma etimologicamente l’obscenum è ciò che è portato fuori e viene esposto, è quello che all’interno della scena non si deve vedere. Quella di Pirandello è dunque l’arte dell’ob-sceno. Anche nella volontà di esibire ciò che usualmente non si mostrava, lui ha sempre cercato di definire un vultus dell’autore
undici
un uomo di spettacolo
distante dall’immagine espressiva, con una forma di narcisismo chiuso. Il suo essere un “uomo di spettaco- lo” dunque non lo porterà mai direttamente a calcare il palcoscenico.
Bontempelli, nell’orazione pronunciata in morte di Pirandello, parlava di un “candore”, di un suo sguardo naturale, diretto ed essenziale, quasi infantile. Conside- rando la sua capacità di guardare all’essenza delle cose, rintracciamo nelle opere i segni della personalità piran- delliana. Ben prima di conoscere Freud, lui le chiama
“caverne dell’istinto” e vi esprime la realtà del sogno, con moti dell’animo e comportamenti non comprensibi- li né spiegabili al livello puramente superficiale.
Potremmo qui fare un discorso analogo a quello che si fa di Leopardi: non basta essere attaccati da molte malattie o avere la gobba per poter essere grandi poeti.
Non bastano tutte le dimensioni nevrotiche o psicotiche, esplicitate nei testi e sublimate dalla creazione artistica, per essere un grande autore. Pirandello lo è e dice che
“La vita o si vive o si scrive”: in questa frase troviamo anche un modo di essere presente su una scena, quella della scrittura.
Ci teneva molto a questa frase, e per lui è profonda- mente vera, ma spesso ci si dimentica di citare la seconda parte: “Io per me non l’ho vissuta se non scrivendola”. Lo dice già nella prima lettera ai genitori da Roma quando afferma: “Ho un’amante ideale: è l’arte”. Aveva ragione la moglie gelosa folle a dire che la vera possessione di suo marito era vivere scrivendo, cosa che farà anche nel- la dimensione più caduca, meschina e quotidiana (così la sentiva lui) cioè quella del lavoro. Siamo nel periodo della grande crisi della moglie, quella da cui non si ri- prenderà più.
Cosa intende Pirandello quando dice che la vita ha abbandonato l’Europa?
Luigi Pirandello è innanzi tutto uno scrittore e anche nel suo modo di esserlo troviamo una grande modernità.
Consiste nel vivere pienamente il dramma della scrittura con tutte le sue contraddizioni. Bisogna dare vita a “in- sulsi personaggi”, bisogna forzosamente costruire una realtà e costringersi a tirar fuori, a spremere, esprimere (nel senso letterale) dalla vita un’altra forma di vita, pur sublimata, ma necessariamente da esprimersi, come spiega molto bene in uno dei tardi drammi, Quando si è qualcuno.
Per quanto affronti una tematica molto centrale per la società europea di inizio Novecento, questo dramma non viene rappresentato per la prima volta in Italia, ma a Buenos Aires, in spagnolo, nell’autunno del 1933.
Soltanto nella primavera successiva tornerà in scena a Roma e in italiano. La commedia parla di uno che non ha nome, è indicato solo con tre asterischi: è chiaro che si tratta del grande scrittore, del grande poeta, e si può facilmente sostituire agli asterischi il nome giusto.
Il grande poeta è vecchio e ha intorno a sé tanti giovani che lo venerano, addirittura lo adorano; in
dodici
il mondo nuovo
particolare c’è una fanciulla che ha i caratteri tipici delle donne delle opere di Pirandello. È bionda e ha un nome che fa pensare all’est, all’oriente e insomma all’estero:
Veroccia. Questa fanciulla prova qualcosa di più che una venerazione per il vecchio maestro. Tutto sembra segui- re il suo corso, ma a un certo punto i giovani del circolo intorno a lui parlano sempre più insistentemente di un nuovo poeta che sentono molto vicino. Si chiama Delago e ha scritto un libro di poesie davvero rivoluzionario, fresco. Questo poeta viene dall’America.
Il rapporto di Pirandello con l’estero è molto intenso, e parlando dei suoi molti viaggi dirà: “Ciò che sopra tutto in America mi interessa è la nascita di nuove forme di vita. La vita, premuta da necessità naturali e sociali, vi cerca e vi trova queste nuove forme. Vederle nascere è un’incomparabile gioia per lo spirito. In Europa la vita seguitano a farla i morti, schiacciando quella dei vivi col peso della storia, delle tradizioni e dei costumi. Il con- sistere delle vecchie forme ostacola, impedisce, arresta ogni movimento vitale”. Altrove, dice Pirandello, l’uma- nità “rivegeta”.
Eppure, anche se la vita sembra essere fuggita dall’Europa, lui vede i limiti dell’America: l’avvento del nuovo mette in pericolo forme tradizionali ma ancora vitali, come il teatro, che rischiano di essere cancellate solo per il gusto della novità.
Questo lo descrive accostando il giovane poeta De- lago alla figura del vecchio poeta, in modo emblematico attraverso il circolo di giovani che lo circonda. Loro con- templano insieme l’interesse e il rispetto per il vecchio e per il nuovo. Ma poi la verità si svela: Delago non esiste.
È lo pseudonimo che il poeta ha voluto usare per dimo- strare di essere ancora giovane tra i giovani.
Erano pronti a cancellarlo, a sostituirlo, ma con que- sta “recita a soggetto” gli dimostra di essere più vitale di loro. Proprio come il teatro con il cinema (e come l’America con l’Europa?). I giovani, però, restano nella
loro dimensione e sono delusi dalla verità. Piano piano abbandonano il vecchio e la stessa Veroccia se ne andrà mano nella mano con un suo coetaneo.
Nell’ultima scena, Qualcuno (con la q maiuscola) è nel suo studio, pieno di libri; dietro di lui ci sono quattro ritratti: Dante, Ariosto, Foscolo e Leopardi. La tradi- zione poetica più illustre della letteratura italiana è alle sue spalle e lo sostiene. Qualcuno è seduto alla scrivania proprio come nel trattamento cinematografico dei Sei personaggi e drammaticamente, con un ritrovato della scenotecnica, a un certo punto la sedia, la scrivania e il poeta vengono innalzati tutti insieme da un impianto meccanico fino a diventare un unico monumento di pietra sulla scena.
La vita non circola più, la vita è rappresa, così nell’ar- te come nella vita reale. È vero che c’è un riconoscimento del valore e della forza innovatrice dell’arte tradizionale, ma questo, nel racconto e nella visione di Pirandello, resta un semplice riconoscimento a una realtà che non è più viva. Il poeta è “qualcuno”, ma ha perso la sua vita- lità perché non gliela riconoscono più, è diventato pietra nella pietra.
Che cosa accade nell’atroce notte di Como?
Dopo il 1925, dopo la malattia di Antonietta, Pi- randello conduce una vita totalmente riservata all’arte e alle realtà sue complementari: rappresentazioni, spettacoli, scrittura. In questi anni è capocomico e dirige un teatro. Lo fa bene, perlomeno dal punto di vista artistico, anche se è meno bravo dal punto di vista economico-finanziario. Dopo due anni il Teatro Nazio- nale da lui diretto fallisce: rubano tutti (lui no, come possiamo immaginare). Vive la sua vita sotto i riflettori dell’autore e qui vediamo scoccare il suo senile entusia- smo per la giovane Marta Abba: una giovane, volitiva artista, che è come la sintesi delle forme di vitalità delle riflessioni pirandelliane.
Oggi sembra ridicolo usare l’aggettivo “senile” per parlare di un uomo con meno di sessant’anni, che co- nosce questa splendida venticinquenne a un provino te- atrale e se ne innamora da ogni punto di vista. Da allora in poi la ritiene la sua donna, la sua musa ispiratrice. Per dirla con una battuta, si possono scrivere interi libri su- gli autori della letteratura italiana “dalla cintola in giù”, ma cercando tutto l’equilibrio e il garbo necessari, limi- tiamoci a dire che c’è un solo momento nel quale sembra (per alcuni) che questa passione si possa tradurre in
tredici
l’atroce notte
qualcosa di più concreto. In un riferimento epistolare, Pirandello parla di “quell’atroce notte di Como”.
Cosa succede in questa notte? Pirandello, Marta Abba e tutti gli altri membri della compagnia che deve rappresentare un’opera di lui, lei protagonista, alloggia- no in un albergo. Non si sa che cosa sia davvero succes- so: si sono incontrati? Hanno tentato di far l’amore? Non l’hanno fatto ma è come se lo avessero fatto, o l’hanno fatto ed è come se non lo avessero fatto? Resta l’idea di qualcosa che non è accaduto secondo le aspettative e ha peggiorato la situazione.
Dal mattino dopo lei dice che d’ora in poi lo chia- merà Maestro, sarà sempre rispettosa di lui come autore, ma le cose devono restare distinte. E lui, pur avendole scritto circa 560 lettere, accetterà questa soluzione.
Non c’è alcun dubbio che Marta Abba al di là della sua realtà è vista da Pirandello come la personificazione delle sue creazioni artistiche. Qualche idea è anche nel dramma Diana e la Tuda, a lei dedicato. Lo scultore Nono Giuncano, dopo essersi innamorato delle sue sta- tue, capisce che le modelle sono più importanti perché sono vive. Decide di dedicare i suoi ultimi anni alla bellissima Tuda e di sottrarla alle attenzioni ossessive del suo allievo Sirio. Quest’ultimo, fissato con la bellezza delle sue opere, sposerà Tuda per assicurarsela come mo- della sempre disponibile. Ma, dice Giuncano (e sentiamo in lui la voce di Pirandello), non c’è perfezione di statua che possa reggere al confronto con la vita. Nel rapporto con Sirio Tuda sfiorisce perché conta meno delle statue per lui.
Questo è un personaggio, Marta Abba era una donna, e dotata di sapienza empirica, che ha costruito la propria vita con le accorte difese di un carattere forte e spigoloso. Aveva un corpo modernissimo, per quei tempi, un dettaglio che fa capire come mai Pirandello la considerasse una fanciulla vera, ma anche la donna della creazione artistica, la modella e insieme la statua.
Ecco dunque l’ipotesi anche di una spinta catartica da parte di Pirandello verso la musa, nella dicotomia tra l’immagine della moglie e quella della donna ideale. La figura di Antonietta è certamente inquinata dalle con- traddizioni del male, del male psichico, della nevrosi e alla fine della pazzia, e tuttavia nella sua attenzione pa- rossistica che non permette serenità c’è anche l’idea del possesso totale, del potersi abbandonare a un rapporto che non ha mediazioni.
Con Marta Pirandello si abbandona invece a una consapevole confusione tra il livello della vita e quello dell’arte. Questa contraddizione costante gli permetterà di sublimare la relazione attraverso creazioni artistiche molto rilevanti nelle quali ha dato il meglio di sé, come nella commedia Trovarsi. Parla di un’attrice che vorreb- be essere anche donna, moglie e madre, ma non riuscirà a causa della contraddizione ineludibile tra arte e vita: se si vive non si può essere attrici, hic et nunc, sulla scena.
L’unica forma di vita per l’attrice è quella che può vivere sul palcoscenico. Donata Genzi, l’intensa protagonista della commedia, dice che “Il palcoscenico è un luogo in cui si gioca a fare sul serio” e questa serietà di cui parte- cipano sia Pirandello sia la sua musa è uno dei punti che li avvicinano. Donata vive di recitazione e pur non aven- do mai amato nella vita vera, lo fa sul palco, conferisce alle sue interpretazioni il dono dell’amore.
Negli anni alla guida del Teatro Nazionale, Pirandel- lo è circondato da giovani. C’è Marta Abba, c’è il figlio Stefano, ci sono Massimo Bontempelli e Orio Vergani, giornalista, e sua sorella Vera, una famosa attrice. Pro- babilmente la fascinazione verso Marta Abba non è det- tata solo dall’età, ma è anche intellettuale. Comunque i problemi concreti del loro rapporto saranno pratici. I figli di lui la odieranno. Lui le lascerà i suoi ultimi dieci drammi. Sto parlando di opere come Giganti della mon- tagna, fonti di una rendita che la porterà serenamente fino a quasi novant’anni di vita da benestante. Quando
Pirandello muore, lei sposa un miliardario americano che vive a Cleveland, in Ohio. Si chiama Severance Al- len Millikin, ed è uno dei maggiori imprenditori delle industrie automobilistiche e metalmeccaniche. Lo co- nosce nel 1937 e un anno dopo lo sposa. Si trasferisce a Cleveland durante la guerra, per tornare in Italia, da divorziata, nel 1952. Tornata in Italia andrà a vivere con la sorella, dalla quale non si dividerà più e con la quale vivrà una serena vecchiaia in una bella casa a Milano.
Marta continuerà fino alla fine dei suoi giorni a celebra- re i fasti del maestro.
quattordici
Che rapporti ebbe con il figlio Stefano?
Pirandello rivolgeva uno sguardo molto particolare alla sua vita e alle persone con cui intratteneva rappor- ti, specie familiari. Il suo primogenito, scrittore, usò a lungo lo pseudonimo di Stefano Landi per crearsi un percorso autonomo dalla figura paterna. A tratti è molto duro con Pirandello e in un libro di memorie scriverà:
“non domandava a noi figli carità verso la madre: da coloro a cui poteva richiedere obbedienza esigeva che stessero a servizio della sua donna con tutta la devozio- ne, l’intelligenza, la premura che egli desiderava, e cioè votando la loro vita in quel servizio, fino quasi a non vivere più per se stessi”.
Un’altra nota di Stefano, che è stato anche impri- gionato a Mauthausen (vedi Il figlio prigioniero. Car- teggio tra Luigi e Stefano Pirandello durante la guerra 1915-1918, Mondadori, 2005) recita inoltre: “Mia madre, pazza, aveva scoperto che tutti i signori con cui aveva avuto a che fare da figlia, moglie, madre e padrona di casa, eccetera, sotto un muso mascherato da faccia umana, erano sostanzialmente posseduti da una passione dominante bestiale, possesso, orgoglio, ambizione, denaro, concupiscenza, gloria, che rendeva pazzo ognuno a suo modo in quel campo, e nefasto