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Occorrenze di φθόνος e derivati in Plutarco

Prospetto delle occorrenze in Eustazio

A) Occorrenze di φθόνος e derivati in Plutarco

Termine (De laude ipius) Moralia Vite Frammenti Totale

φθόνος 116

(8) 102 6 224

283 Non si tiene conto di ἄφθονος/ἀφθόνως (71+14) e ἀφθονία (29), che ricorrono quasi esclusivamente

con i rispettivi valori di “abbondante” e “abbondanza”. Sarebbe auspicabile, ancorché impraticabile in questa sede, un’indagine completa sulla presenza dell’invidia in Plutarco, che si estenda a tutti i termini connessi sul piano semantico a questo concetto, nelle sue diverse accezioni e manifestazioni.

284 I dati tengono conto di tutte le opere appartenenti al corpus plutarcheo, includendo testi spuri o la cui

paternità è attualmente oggetto di discussione. Le occorrenze in opere frammentarie sono segnalate a parte.

φθονέω 71 (3) 56 3 130 ἐπίφθονος 11 (1) 25 - 36 ἐπιφθόνως 1 (-) - - 1 ἀνεπίφθονος 7 (3) 5 - 12 ἀνεπιφθόνως 4 (2) 2 - 6 φθονερός 9 (-) 3 2 14 προσφθονέω - 3 - 3 τὸ φιλόφθονον 1 (-) - - 1 φθονητικός 1 (-) - - 1 φθονητικῶς 1 (-) - - 1 222 (17) 196 11 429

Al fine di comprendere i meccanismi che secondo Plutarco regolano lo sviluppo dell’invidia e, di conseguenza, determinano le contromisure pratiche e retoriche utili a porvi rimedio, è opportuno soffermarsi su alcune riflessioni che il Cheronese esprime circa l’istituzione dell’ostracismo e sull’attuazione di questo provvedimento nei confronti di alcuni dei maggiori statisti ateniesi del V secolo, protagonisti di buona parte degli exempla scelti nel De laude285. In Ar. 7, 2 Plutarco afferma che con l’istituzione dell’ostracismo gli Ateniesi celarono sotto il nome di “paura della tirannide” il sentimento di invidia nutrito nei confronti della gloria di Aristide, creando così una sorta di valvola di sfogo che potesse alleggerire tale sentimento (φθόνου παραμυθία φιλάνθρωπος). Anche Temistocle, di cui nel De laude Plutarco riporta due battute con cui risponde, ricordando i propri meriti, al mancato riconoscimento degli stessi da parte

285 Sulla genesi dell’ostracismo secondo Plutarco cfr. in particolare le analisi di WALCOT 1978, 54-66 e

dei suoi concittadini, subì il medesimo destino286: in Them. 22, nello stesso paragrafo in cui riporta una delle due battute citate nel De laude, il Cheronese motiva l’ostracismo dello stratego non tanto con la volontà di punire una condotta scorretta o pericolosa per la città, bensì con la necessità di procurare una παραμυθία φθόνου e un sollievo per chi trae piacere dall’esprimere la propria ostilità nei confronti dei grandi, ridimensionandoli con un’operazione tesa a privarli dei loro onori. Diverso, invece, il caso dell’ostracismo subito da Cimone, che si attirò lo φθόνος e la δυσμένεια degli Ateniesi a causa del sostegno offerto agli Spartani piuttosto che per la grandezza degli onori conseguiti e della fama ottenuta, mentre Pericle da giovane ebbe timore di incorrere in questo provvedimento per via della propria condizione agiata287.

Come è stato sottolineato dalla critica288, è presente una discrepanza tra l’interpretazione delle motivazioni che provocano l’ostracismo e la narrazione di alcuni episodi in cui, di fatto, tale provvedimento è presentato come l’esito di una manovra politica attuata dai rivali: si tratta di due piani che in talvolta vengono conciliati e risultano (almeno parzialmente) sovrapponibili. Ciò che Plutarco sostiene, indipendentemente dalle peculiarità dei singoli casi e dalle situazioni in cui chi è condannato può costituire una reale minaccia per la πόλις, è che l’ostracismo colpisce chi è divenuto oggetto dell’invidia del popolo: ciò può avvenire strettamente in relazione al suo operato politico, oppure a seguito di una campagna promossa dagli avversari facendo leva su quegli elementi che possono suscitare paura o, più spesso, ostilità nei confronti dell’obiettivo da colpire. Anche, e soprattutto, per questi motivi lo φθόνος era fortemente temuto ed è logico che nella prassi politica quotidiana politici e oratori prestassero grande attenzione (tanto maggiore quanto più alte erano la loro importanza ed esposizione pubblica) a evitarlo, soprattutto quando gli argomenti toccati nei loro discorsi potevano accrescere il rischio di incorrervi, come nel caso dei riferimenti (espressamente autoelogiativi o percepiti come tali) – spesso indispensabili – al proprio operato e ai propri successi.

Plutarco scrive il De laude tra il I e il II d.C., ma molti dei suoi modelli di riferimento sono proprio gli statisti e gli oratori vissuti nell’Atene del V e nel IV a.C.: nella società

286 Cfr. 541D-E. 287 Cfr. Per. 7, 2. 288 Cfr. BENEKER 2005.

di quell’epoca attirarsi l’invidia e l’odiosità di una parte della popolazione non comportava soltanto il rischio di perdere consensi e andare incontro a un insuccesso, ma poteva condurre a un’uscita di scena, ancorché non sempre definitiva, dalla vita politica cittadina. La Grecia imperiale del I e del II d.C. costituiva una realtà profondamente diversa dall’Atene del V a.C. sotto molteplici aspetti socio-culturali e politici289, ma i principali problemi posti dallo φθόνος rimasero inalterati quantomeno nella sostanza, così come rimase invariata nei suoi principi fondamentali la teoria dell’autoelogio, che a questo sentimento è strettamente connessa.

Come ha evidenziato Wardman290, seguito da Verdegem291, le tipologie di invidia cui secondo Plutarco può essere sottoposto il πολιτικός ἀνήρ sono due: una peer envy e una popular envy, spesso compresenti e connesse da un legame consequenziale diretto, ma risalenti a origini e motivazioni differenti. La seconda è un sentimento popolare che Plutarco individua in alcuni dei casi sopracitati come causa o motivazione principale dell’ostracismo di un politico e dell’istituzione del procedimento stesso, mentre la prima è legata principalmente al concetto di φιλοτιμία292 e si produce in un contesto sociale ristretto, dove gli φθονοῦντες e lo φθονούμενος appartengono allo stesso gruppo, sia esso inteso in senso più largo come classe sociale/politica o come livello gerarchico presente all’interno di una struttura politico-amministrativa ben definita: si tratta di un fenomeno universale, che trova numerose manifestazioni nell’Atene del V a.C., ma giunge a coinvolgere gli Spartani (Alc. 24, 3), gli altri Greci in generale (Them. 17, 1), i Romani (Publ. 10, 5-8) e finanche i Persiani (Them. 29, 5). Un caso a sé è costituito dai due beotarchi Pelopida ed Epaminonda, esempio virtuoso di colleghi che Plutarco elogia per il rispetto reciproco e lo spirito di cooperazione messo in mostra nella loro carriera politico-militare: aspetti che secondo il Cheronese dovrebbero caratterizzare la condotta di ogni uomo politico (Pel. 4, 3 τὴν Πελοπίδου πρὸς Ἐπαμεινώνδαν εὐμένειαν

289 Cfr. FIELDS 2008b, 152-55. 290 WARDMAN1974, 69ss. 291 VERDEGEM 2005, 673-78.

292 Nella synkrisis delle Vite di Aristide e Catone (5, 3) la φιλοτιμία è definita detestabile (χαλεπόν) e

fonte di invidia (φθόνου γονιμώτατον); in De frat. am. 486B Plutarco afferma che gli ambiziosi sono naturalmente inclini a nutrire sentimenti di invidia e gelosia (ἐμφύονται φθόνοι καὶ ζηλοτυπίαι) nei confronti di chi li supera per reputazione e onori. Sulla complessità e l’ambivalenza del concetto in Plutarco cfr. infra, 198-99.

καὶ τιμήν)293. L’esaltazione delle loro figure non deve però essere interpretata come un tentativo da parte di Plutarco di porre Tebe e la sua patria in una luce più favorevole rispetto al resto della Grecia. Come emerge dalle loro Vite e da alcuni episodi citati nel De laude che li vedono protagonisti294, i due generali subirono dure e ostinate opposizioni e furono vittime di numerosi attacchi in patria: attacchi che Plutarco imputa proprio allo φθόνος dei loro concittadini295.

Poste queste premesse, sorge spontaneo chiedersi quali siano i margini entro cui può operare il πολιτικός ἀνήρ: quale condotta deve tenere l’uomo di stato per evitare di attrarre l’uno e l’altro tipo di φθόνος? Qualora ciò non sia possibile o non riesca del tutto, quali accorgimenti può prendere per tenerelo quantomeno sotto controllo?

I casi in cui si risulta ‘immuni’ all’invidia grazie alla straordinaria grandezza della propria virtù e dei propri successi sono assai limitati (Plutarco cita come esempio Alessandro Magno)296: pertanto, il politico ordinario, cui sono indirizzati i consigli presentati nei Moralia e le riflessioni proposte nelle Vite, non può realisticamente ambire a raggiungere un tale livello. L’applicazione costante della sua ἀρετή, declinata in tutte le sue possibilità297, gli consentirà di ottenere buoni risultati e di procurare benefici alla sua comunità, accrescendo così la propria δόξα, ma non potrà tenerlo al riparo dello φθόνος, sia quello dei suoi pari (rivali e non) superati proprio in ἀρετή e δόξα, sia, in alcuni casi, quello delle persone comuni (come reazione spontanea e/o innescata e sollecitata dagli avversari): diviene pertanto di fondamentale importanza prestare la massima attenzione alle modalità di self-presentation in ogni momento della

293 I due beotarchi vengono posti a confronto con le coppie di statisti Ateniesi che invece sono entrati in

reciproco conflitto (Aristide e Temistocle, Cimone e Pericle, Nicia e Alcibiade), spinti da contrasti, invidia e gelosie (ὅσων γέγονε μεστὴ διαφορῶν καὶ φθώνων καὶ ζηλοτυπιῶν πρὸς ἀλλήλους). Cfr. VERDEGEM 2005, 673-74 e WARDMAN 1974, 72-73.

294 Cfr. 540D-E, dove si fa riferimento al processo politico subito dai due (accostato da Plutarco a quello,

in ambito romano, che interessò gli Scipioni), e 542B-C, dove si accenna all’ostilità dell’oratore Meneclide.

295 Cfr. Pel. 25.

296 Cfr. De inv. et od. 538A.

297 In particolare δικαιοσύνη, φιλανθρωπία, σοφρωσύνη, πραότης, μετριότης ed ἐπιείκεια. Sui valori

dell’uomo di stato si vedano – oltre ai numerosi contributi dedicati alle singole virtù, alcuni dei quali saranno citati nel commento – lo studio di FRAZIER 1996 condotto sulle Vite e BECCHI 1995.

propria vita, sia in qualità di πολίτης sia in veste di rappresentante attivo dello stato (πολιτικός).

Le occasioni che comportano i rischi maggiori sono indubbiamente quelle in cui vengono celebrati pubblicamente i successi (mediante cerimonie particolari o la lettura di encomi pubblici) e quelle in cui la situazione richiede l’impiego dell’auotelogio. Tra i primi si può menzionare la cerimonia solenne del trionfo riservata ai generali romani: nella Vita di Publicola (9,9) Plutarco propone una riflessione sull’istituzione di questa celebrazione. Lo spettacolo fornito dall’ingresso in città di Publicola su una quadriga (primo dei consoli Romani a ricevere questo onore) viene definito splendido e magnifico (σεμνὴν καὶ μεγαλοπρεπῆ ὄψιν) e non, come alcuni affermano, motivo di invidia e risentimento (οὐκ ἐπίφθονον οὐδ’ ἀνιάσασαν): la prova di ciò – scrive Plutarco – risiede nel fatto che, se così fosse, tale cerimonia non avrebbe potuto continuare per tanti anni, conservando la capacità di generare spirito di emulazione e ambizione (ζῆλος e φιλοτιμία), qui intesi in senso pienamente positivo. Tuttavia, lo stesso Plutarco narra alcuni episodi (Marc. 22; Aem. 30,5) in cui il trionfo è presentato come un elemento che genera peer envy e opposizioni298, finendo così per accogliere, implicitamente, l’opinione di chi ne evidenziava il carattere socialmente pericoloso. Anche la scelta dei titoli assunti da politici e sovrani si rivela cruciale nell’allontanamento dell’invidia: così Plutarco in Rom. 13, 6 afferma che l’appellativo “padri coscritti” (πατέρας συγγεγραμμένους), con cui i Romani designano i senatori, esprime grande dignità e onore (ἀξίωμα καὶ τιμήν), senza suscitare in alcun modo l’invidia (ἥκιστα δὲ φθόνον ἔχοντι), mentre nel De laude discute alcuni titoli assunti dai sovrani di età ellenistica299.

Per quanto riguarda gli aspetti legati alla self-presentation, i pericoli e le insidie maggiori sono però portati dai riferimenti al proprio operato e ai propri successi, cioè dalla περιαυτολογία, la cui gestione costituisce un vero e proprio banco di prova cui deve sottoporsi ogni politico che abbia l’ambizione di condurre una carriera duratura e ricca di successi, conservando intatta la propria δόξα anche nei momenti più difficili:

298 Si potrebbe concludere, con WARDMAN 1974, 72, “that Plutarch might well have come to the

conclusion that the triumph did as such provoke excess of ambition and envy. But perhaps his answer would be that envy is so endemic that it attaches itself to any custom or institution, whatever may have been the purpose of the law-giver”.

l’impiego dell’autoelogio deve essere infatti impeccabile e tale da ridurre al minimo le possibilità di suscitare o accrescere lo φθόνος, che, a seconda dei contesti (tribunale, assemblea, proclamazione ufficiale etc.) sarà quello dei suoi pares o quello popolare. L’impulso ad affrontare il tema della περιαυτολογία nasce pertanto in primo luogo da queste riflessioni di tipo etico-politico, che Plutarco elabora a partire dallo studio della storia politico-militare della Grecia e di Roma, nonché dalla propria esperienza di partecipazione diretta alla vita politica.

I consigli impartiti nella parte centrale (capp. 4-17) del De laude ipsius sono – si è detto – improntati innanzitutto a evitare lo φθόνος. Come si può osservare nella tabella B – che riassume schematicamente e pone in evidenza l’utilizzo della terminologia relativa all’invidia nel trattato –, spicca la centralità di questo sentimento nell’elaborazione teorica di Plutarco: per l’oratore-politico che si autoelogia lo φθόνος altrui non è soltanto qualcosa da evitare (o tenere sotto controllo), ma talvolta è esso stesso a generare una περιαυτολογία inopportuna, poiché impedisce a chi lo prova di riconoscere e apprezzare il valore altrui senza ostentare il proprio (540B; 542D).