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In questo panorama di crescenti sistemi di innovazione, per ottenere la miglior performance e competere efficacemente, le imprese devono aprire i loro modelli di business attraverso una ricerca attiva e lo sfruttamento di idee esterne, e per- mettere a nuove tecnologie interne "inusuali" per il core business dell’impresa, di fluire all’esterno, dove altre imprese possono sbloccare il loro potenziale econo- mico latente (Chesbrough, 2007). Il concetto stesso di open innovation, infatti, è immaginato da Chesbrough come una vera e propria strategia generale d’impresa, a causa della pervasività organizzativa di questo modello. Similmente, Gianodis et al. (2010) definiscono l’open innovation strategy come un modello di business che è disegnato con cognizione di causa per permettere e facilitare il trasferimento di tecnologie e conoscenza attraverso i confini organizzativi.

All’origine di questa necessità risiedono i vantaggi relativi degli open business model. Essi permettono alle organizzazioni di essere più efficienti ed efficaci nel- la creazione e nella cattura del valore: in particolare, permettono di sfruttare più idee, ottenendo un maggior valore dagli asset interni come complementari, ma

anche attraverso processi che coinvolgono attori esterni oltre che puramente in- terni (Chesbrough,2007). Un altro vantaggio peculiare di questi modelli è sug- gerito da Chesbrough (2010): con l’apertura del proprio business, si può evitare l’affossamento dell’organizzazione in core competencies tramutate ormai in core rigidities, evitando di restare intrappolata in una path dependency. In particolare, un continuo scambio di informazioni con l’ambiente evita che l’azienda si foca- lizzi sull’applicazione completa dei modelli di business di successo e delle best practice di oggi, che potrebbero non essere i modelli e le practice di successo di domani.

Tuttavia, gli open business model comportano anche una serie di svantaggi. Pri- mo fra tutti, le innovazioni potrebbero non essere coerenti con il business model corrente, soprattutto in riferimento alla knowledge base e le core competences interne, dando luogo alla necessità di cambiare il business model stesso. Si parla infatti di pivoting, termine diventato comune con il fenomeno sociale delle startup, che richiede all’impresa di modificare il proprio modello di business velocemente e frequentemente, in concomitanza con il test del business model con i clienti e più in generale il mercato. Secondo l’autore, l’innovazione di business model infatti non risiede in grandi previsioni ex-ante ma di un continuo processo di "trial and error" ed adattamento ex-post: a priori non è possibile stabilire la struttura dei business model, ma sarà il puro risultato della sperimentazione.

L’autore (Chesbrough,2007) specifica come questa sperimentazione tuttavia deb- ba essere praticata secondo regole e percorsi strutturati, e fornisce due strumen- ti per il business modeling: il business model generator di Osterwalder e Pigneur (2010), ed il component business model nato in IBM. Inoltre prescrive un processo di valutazione e di feedback da queste reiterazioni, così da non renderle un esercizio futile: "Thomke risulta essere chiaro nel distinguere fallimenti da sbagli: i primi sono risultati naturali della sperimentazione di un processo e possono essere utili, i secondi invece sono esperimenti che sono stati mal progettati, senza portare a nessun insegnamento."

l’autore evidenzia come primo punto nella sperimentazione di business model. Il secondo processo è chiamato "effectuation", che definisce come una serie di azioni inerenti alla completa adozione e comprensione del business model. Terzo ed ulti- mo elemento chiave è la guida del cambiamento in senso dinamico, ponendo una particolare attenzione a chi far guidare il processo di cambiamento: l’imprendito- re spesso è arrivato alla guida grazie ad un vecchio modello, che potrebbe voler mantenere (Chesbrough,2010).

Molte analisi empiriche sottolineano che questo processo di innovazione di bu- siness model si inneschi troppo tardi, ad esempio quando l’impresa si trova ad affrontare un’innovazione già presente sul mercato. Esistono infatti una serie di difficoltà che portano l’impresa a posticipare il più a lungo possibile queste atti- vità, che a volte si identificano nelle barriere rappresentate dalle configurazioni organizzative precedenti. Il caso è esemplificato da Christensen (1997) attraver- so la nozione di "disruptive innovation", la cui tensione deriva dal conflitto fra business model già stabiliti e quelli necessari per sfruttare la nuova tecnologia.

In ogni caso, Chesbrough (2007) evidenzia che il percorso per aprire i business model parte da uno shock o da una sfida allo status quo: "la tecnologia disrup- tiva non esiste, esistono solo tecnologie insignificanti che mandano a rotoli il bu- siness model". La dimensione percepita del problema aumenta quando qualora si consideri che il vecchio business model non venga soppiantato, ma che conti- nui a coesistere a fianco del nuovo, combinando cos exploration e exploitation, in un gioco di equilibrio. Un’altra difficoltà spesso riportata dalla letteratura è la resistenza incontrata all’interno della stessa organizzazione nel momento dello scale-up del nuovo business model poiché esiste sempre qualcuno che ci perde dai cambiamenti.

Concludendo, Gianodis et al. (2010) analizzano i fattori che determinano la perfor- mance dell’organizzazione nel perseguire una strategia di open innovation. L’au- tore propone una serie di variabili capaci di influenzare sia la misura di adozione di una strategia aperta, sia la performance di innovazione dell’impresa che ne persegue una:

• Caratteristiche dell’impresa, fra cui la struttura organizzativa, i processi esi- stenti, le capacità di networking e di scambio di conoscenza; eventualmente, vi si può racchiudere l’intero business model.

• Considerazioni tecnologiche: l’afferenza di queste nuove tecnologie al core business e le core competencies aziendali, la strategia adottata per la gestio- ne del portafoglio di tecnologie, radicalità dell’innovazione, la difendibilità e più in genere il regime di appropriabilità della nuova tecnologia.

• Variabili ambientali: in particolare la velocità competitiva dell’impresa, in- tesa nel framework di hypercompetition, la natura del settore in termini di presenza di tecnologia e l’incertezza tecnologica più in generale.