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L’opera dei Furori: parte seconda

V.1. L’utilizzo delle imprese

La parte prima degli Eroici furori si conclude con il quinto dialogo. È importante dire già da adesso che il dialogo quinto della parte prima e i primi due della parte seconda sono accumunati da un genere particolare utilizzato da Bruno per descrivere lo stato in cui versa il furioso nel perseguire la sua ricerca, quello dell’impresa.

In questa sezione cercheremo di esaminare infatti le imprese più significative tra cui quelle dove sono presenti tracce autobiografiche, comprese quelle appartenenti al secondo dialogo della parte seconda. Saranno inoltre affrontati i temi centrali contenuti in alcuni motti delle ventotto imprese utilizzate da Bruno per delineare la ricerca, l’intento e lo stato in cui versa il furioso. Il quinto capitolo della prima parte e il primo della seconda verranno perciò trattati in questa sezione. Vedremo inoltre che tra la prima e la seconda parte dei Furorivi è una netta differenza che si esprime in uno stallo la cui soluzione verrà fornita nella seconda parte dei Furori.

Già a partire dal quinto dialogo della prima parte vi è un cambiamento nella struttura testuale in quanto gli interlocutori, prima Tansillo e successivamente Maricondo che a sua volta diviene Mariconda nel secondo dialogo, espongono una serie di imprese, di emblemi, con lacomplementarietà della poesia e della prosa. Gli emblemi sono composti da un’immagine simbolica seguita a sua volta da una parte scritta in forma di “motto” accompagnato da un componimento da Bruno chiamato «tavoletta», «tabella», «articolo» o «tavola» comprensive di commento. Bruno non raffigura alcuna immagine ma si presta solo a descriverla e per questo motivo i Furori risultano essere un’opera di emblemi non illustrati, non dipinti.255 La poesia al contempo si presta ad assumere un ruolo importante poichè è con essa che l’immagine viene data nonostante questa non venga rappresentata proprio perché l’immagine viene concepita dalla vista interiore. Questo è un punto centrale dei Furori. Bruno adotta la tecnica del “pensare” per

255 Importante dire che la maggior parte dei libri cinquecenteschi che trattavano emblemi e imprese erano

dettagliatamente illustrati.Sotto questo aspetto gli Eroici furori sono il risultato di un’opera molto originale.

immagini. Di fatto, come sostiene Ciliberto è proprio «dalla vista interiore che nasce il “volere”: da una cognizione – che è, strutturalmente, una memoria» ed è questa la «prima scaturigine di “ogni specie di venazione”, a cominciare, naturalmente, da quella del “riformato intelletto e voluntade”» tanto che tra «memoria, intelletto, volontà, c’è per Bruno un nesso organico: senza memoria non c’è cognizione, senza cognizione non c’è desiderio, non c’è esperienza d’Amore».256

Non a caso Bruno compie la famosa descrizione che abbiamo già affrontato nel terzo dialogo della prima parte che spiega come i furori «non sono oblio ma una memoria».257 Questo è uno dei maggiori messaggi che Bruno cerca di tralasciare con i Furori perché se rimaniamo «senza memoria non c’è conoscenza di sé […] e si resta chiusi nel confine della bestialità».258 Tornando nuovamente sull’importanza del nesso tra filosofia, pittura e poesia, ancor prima di scrivere i i Furori Bruno ne aveva già parlato in Explicatio triginta sigillorum, un’opera sull’arte della memoria. Scrive che:

«i filosofi sono in qualche modo pittori e poeti, i poeti, pittori e filosofi ed i pittori, filosofi e poeti e reciprocamente i veri poeti, i veri pittori e i veri filosofi si apprezzano e si ammirano. Ed infatti non è filosofo se non chi immagina e raffigura e perciò non appare senza ragione quella sentenza: “il pensare è riflettere per immagini” e “l’intelletto o è fantasia o non è senza di essa”; né è pittore se non chi in qualche modo immagina e riflette e, infine, non si è poeti se non in virtù di una riflessione e figurazione».259

Come rileva anche Sabbatino, negli Eroici furori Bruno:

«mette assieme il dialogo, che sul piano della finzione è imitazione d’una disputa dialettica e sul piano della scrittura è in prosa, il canzoniere, che è raccolta organica di componimenti poetici, il commento, che fornisce la chiave per la lettura allegorica, e infine le imprese, che richiedono un legame stretto tra figura e sentenza, con l’ovvia constatazione che Bruno sostituisce la figura dipinta, per

256 M. CILIBERTO, L’occhio di Atteone, cit., pp. 98-99. 257 G. BRUNO, Eroici furori, cit., p. 806.

258 M. CILIBERTO, Il teatro della vita, cit., p. 288.

259 G. BRUNO, Explicatio triginta sigullorum, in Id., Opere mnemotecniche, Tomo II, Edizione diretta da

Michele Ciliberto. A cura di Marco Matteoli, Rita Sturlese, Nicoletta Tirinnanzi. Adelphi Edizioni, Milano 2009, p. 121.

necessità sempre essenziale ed allusiva, con la figura largamente descritta in prosa e in versi».260

In questo dialogo utilizzando le stesse parole di cui Bruno si serve nell’Argomento si descrive:

«lo stato del furioso in questo mentre, ed è mostro l’ordine, raggione e condizion de studii e fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che si fa scarso di sé; nel secondo quanto al continuo e non remittente concorso de gli affetti; nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti; nel quarto quanto al volontario volere; nel quinto quanto a gli pronti e forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condizion di sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le antitesi, similitudini e comparazioni espresse in ciascuno di essi articoli».261

Come in tutti i dialoghi della prima parte, gli interlocutori sono ancora una volta Tansillo e Cicada. Per cercare di capire le «condizioni di questi furori»262 Tansillo comincia la presentazione della schiera di uomini in arme che portano ciascuno un araldo dei quali prova a spiegare il significato contenuto in ogni motto. Ecco che Tansillo comincia l’analisi «su la significazion de l’imprese ed intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma del corpo de la imagine, quanto l’altra ch’è messa per il più de le volte a dechiarazion de l’impresa».263

Il primo motto utile per delineare lo stato in cui versa il furioso viene da Bruno descritto non dalla rappresentazione presente sullo scudo della milizia bensì dal volo di una farfalla. Cicada chiede infatti a Tansillo quale sia il significato della farfalla «che vola circa la fiamma e sta quasi quasi per bruggiarsi? e che vuol dir quel motto: Hostis non hostis?».264

Da notare che la farfalla è già stata utilizzata da Bruno nel terzo dialogo della prima parte per spiegare la seduzione del richiamo del piacere terreno. Anche in questo caso la

260 P. SABBATINO, “Scuoprir quel ch’è ascosto sotto questi sileni”. La forma dialogica degli Eroici

furori, p. 372.

261 G. BRUNO, Eroici furori, cit., p. 765. 262 Ivi, p. 841.

263 Ibidem. 264 Ivi, p. 846.

utilizza nuovamente per spiegare il medesimo concetto. Hostis non hostis265 sta a significare che la farfalla sedotta dal fascino dello splendore, va incontro innocentemente e amichevolmente alla sua morte tra le fiamme divoratrici. Riportiamo di seguito il componimento:

Mai fia che de l’amor io mi lamente, senza del qual non voglio esser felice; sia pur ver che per lui penoso stente, non vo’ non voler quel che sì me lice. sia chiar o fosco il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica fenice.

Mal può disfar altro destin o sorte, quel nodo che non può sciorre la morte. Al cor, al spirto, a l’alma,

non è piacer, o libertade, o vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più sia dolce, grazïosa ed alma, ch’il stento, giogo e morte,

ch’ho per natura, voluntade e sorte.

La farfalla e il furioso sono complementari perché entrambi tentati e attratti dalla luce.Bruno spiega che «nella figura mostra la similitudine che ha il furioso con la farfalla affetta verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra più differenza e dissimilitudine che altro» per confermare ancora una volta che il furioso muore, al contrario della farfalla «per inclinazion di natura».266 Bruno dimostra la dissomiglianza per il motivo che se la farfalla avesse previsto la sua distruzione, sarebbe volata via dalla luce più avidamente di quanto ora invece la persegue, e considererebbe un fattore negativo perdere la sua vita per causa di quel fuoco “ostile”. Per il furioso invece non è meno piacevole morire nelle fiamme dell’ardore amoroso che essere attratto dalla contemplazione della bellezza «di quel raro splendore, sotto il qual per inclinazion di natura, per elezion di voluntade e disposizion del fato stenta, serve e muore, più gaio, più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma».267

Successivamente Bruno spiega la sostanziale differenza tra la figura del sapiente e quella del furioso in quanto il primo «si muta con la luna, il stolto si muta come la

265 “Ostile non ostile”. 266 Ivi, p. 847. 267 Ibidem.

luna».268 Se infatti il sapiente sottostà al ritmo delle mutazioni fenomeniche, di cui non comprende appieno l’essere vicissitudinale, il furioso, consapevole della complessità della vita-materia, muta perciò “come la luna” e “come la fenice”. L’anima del sapiente assomiglia alla Luna non in quanto essa varia ai nostri occhi (quella è l’anima dello stolto che muta come la Luna) ma in quanto riceve sempre uguale porzione dello splendore solare in sé. Muta con la Luna «perché sempre si rinnova per la conversione continua che fa al Sole».269

Significativo è anche il motto che segue. Bruno dà voce a Tansillo per descrivere l’immagine di una fenice in volo. Verso di essa è volto un fanciullo, che rappresenta il furioso, il quale brucia nelle fiamme dove vi è il motto: Fata obstant.270 Questo motto risulta essere interessante perché incentrato nella differenza del destino del furioso e quello della fenice. Riportiamo la relativa «tavoletta»:

Unico augel del sol, vaga Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice,

tu sei chi fuste, io son quel che non fui. io per caldo d’amor muoio infelice; ma te ravviv’il sol co’ raggi sui. tu bruggi ‘n un, ed io in ogni loco; io da Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi,

di lunga vita, e io ho breve fine, che pronto s’offre per mille ruine; né so quel che vivrò, né quel che vissi: Me cieco fato adduce,

tu certo torni a riveder tua luce.

Bruno spiega le differenze di fati, di destini, tra la fenice e il fanciullo volti a significare i «decreti fatali de l’uno e gli fatali decreti de l’altro»271

dove il destino dell’uomo, simboleggiato dal fanciullo, viene descritto tramite l’antitesi con quello della fenice.

« […] la fenice è quel che fu, essendoché la medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice, e medesimo spirito ed anima

268 Ibidem.

269 G. BRUNO, Eroici furori, Introduzione di Michele Ciliberto, testo e note a cura di Simonetta Bassi,

Editori Laterza, Bari 1995, p. 177.

270 “I fati ostacolano”.

271 G. BRUNO, Eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto con note di N.

viene ad informarla […]. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma questo suggetto non può tornar se non per molti ed incerti mezzi ad investirsi de medesima o simil forma naturale. Appresso, la fenice al cospetto del sole cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e mena seco, ovunque va. Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma costui per infinite differenze di tempo ed innumerabili caggioni de circonstanze ha di breve vita termini incerti. Quella s’accende con certezza, questo con dubio de riveder il sole».

Il furioso è ciò che non era, chi è stato in passato «perché il suggetto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie».272

Perciò il furioso, come descrive adeguatamente Tirinnanzi «consapevole di essere quel che non fu, illumina la condizione dell’uomo, il cui fato originale, dal punto di vista dell’universo, non è se non uno degli innumerevoli accidenti che si producono nella sostanza universale ed eterna».273 Centrale è perciò il significato del ritmo “vicissitudinale” presente in un universo infinito dove tutto muta e si trasforma. Questo è il contrario del significato dato dalla fenice la quale simboleggia l’eterno ritorno.

Questo passo assume anche un valore autobiografico. Come sottolinea Cilieberto:

«l’applicazione rigorosa del principio della vicissitudine vuol dire qualcosa in un testo come i Furori, denso, certo, di echi autobiografici […] allude certamente anche al modo in cui Bruno pensava di se stesso, in rapporto all’esperienza dell’eroico furore. Essa è una forma “estrema” dell’esperienza umana, ma non risolve - e non esaursice – l’esperienza esistenziale e filosofia del Nolano, quale egli la visse e la rappresentò. Tra il furioso e e Bruno c’è una differenza fondamentale: Bruno ha memoria, serba il ricordo vivissimo accadutigli in altre vite; il furioso non ha alcuna memoria delle vite.274

Il furioso indica la massima aspirazione dell’umanità in modo da poter raggiungere Dio. Ecco che sta proprio qui l’importanza della praxis di Bruno, sul fatto che l’uomo, conoscendo i propri limiti può cercare di spingersi oltre il ritmo vicissitudinale della vita.

272 Ibidem. 273 Ivi, p. 1419.

Sempre riguardo all’importanza della memoria, sul nesso che questa ha con l’intelletto e la volontà, Bruno ne tratta nel seguente motto in cui viene descritto un cimiero dove è “dipinta” una luna piena con il motto: Talis mihi semper et astro.275

Questo motto alludde alla funzione del sole, che rappresenta la luce divina, nella sua potenza di splendore. Tansillo espone quel ch’è scritto nella «tavoletta»:

Lun’inconstante, luna varia, quale, con corna or vote e talor piene svalli, or l’orbe tuo bianco, or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli, fai lustre, or torni per tue trite scale, a chiarir l’Austro e di Libia le spalli. La luna mia, per mia continua pena,

mai sempre è ferma, ed è mai sempre piena. È tale la mia stella,

che sempre mi si toglie e mai si rende, che sempre tanto bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella; questa mia nobil face,

sempre sì mi martòra, e sì mi piace.

Con questo motto Bruno spiega che l’intelletto, con il suo incessante dolore “vede”276 il suo oggetto sempre stabile, fisso e costante in tutto il suo splendore e «cossí sempre se gli “toglie” per quanto non se gli concede, sempre se gli rende per quanto se gli concede. “Sempre tanto lo bruggia” ne l’affetto, come sempre “tanto gli splende” nel pensiero; sempre è tanto crudele in suttrarsi per quel che si suttrae, come sempre è “tanto bello” in comunicarsi per quel che gli se presenta. “Sempre lo martora”, perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli “piace”, percioché gli è congionto con l’affetto».277

L’«oggetto fermo», la «stella» che Bruno descrive è lo splendore della luce divina e per questo rimane centrale il nesso tra memoria, intelletto e volontà.

«[…] per la mia continua applicazione secondo l’intelletto, memoria e volontade (perché non voglio altro ramentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale e, per quanto posso capirla, al tutto presente, e non m’è divisa per distrazion de

275 “Sempre tale per me e per l’astro”.

276 Il ruolo della vista, della visione, assume un ruolo di fondamentale importanza nell’esperienza del

furioso. Senza di essa la ricerca è vana.

pensiero, né me si fa piú oscura per difetto d’attenzione, perché non è pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natura qual m’oblighi perché meno attenda».278

Ad ogni modo, spiega Bruno nella descrizione degli ultimi versi del componimento, il raggiungimento della divina verità non si attua mediante uno stato di quiete e di pace, bensì si accompagna sempre da uno stato di incessante e perenne angoscia e dolore. La divina verità è perciò sempre presente e «sempre parimente diffonde gli suoi raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo con gli occhi, quantunque verso la terra or appaia tenebrosa, or lucente, or piú or meno illustrata ed illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente illuminata; perché sempre piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo emispero intiero».279

Il prossimo motto che prenderemo in esame chiude il ciclo delle imprese della prima parte dei Furori. In questo motto viene descritta una serpe che languisce nel ghiaccio volta a significare l’impotenza dell’intelletto e un fanciullo che arde in mezzo alle fiamme che rappresenta invece l’impotenza della volontà. Il suo relativo motto cita: Idem, itidem, non idem.280 Sul significato dell’emblema, come spiega di seguito, Bruno dà una spiegazione non esaustiva. Che si tratti addirittura di un indizio autobiografico rimane difficile da dimostrare. Importante è riportare il componimento:

Languida serpe, a quell’umor sì denso ti ritorci, contrai, sullevi, inondi;

e per temprar il tuo dolor intenso, al fredd’or quest’or quella parte ascondi: s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che propona o che rispondi, credo ch’areste efficace argumento per renderlo piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco

mi dibatto, mi struggo, scaldo, avvampo, e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova loco: lasso, perché non sente

quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue, cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta;

278 Ibidem. 279 Ivi, p. 857.

mercé chiedi al villan, odia ‘l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta.

Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte non è per darti scampo da la morte. Tu addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti a bastanza

del fato rio, lasciamo ogni speranza.

Da questo componimento si evince che il destino del furioso risulta «malvagio» e «rio». Mettendo in rapporto il significato di questo motto e del suo componimento e l’utilizzo di un lessico ambiguo per cui gli «par più presto enigma che altro» si può constatare la presenza di un punto di crisi, un cambiamento. Siamo di fatto davanti a uno stallo. Questo lo si capisce anche da come Bruno attua la spiegazione del motto: «però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che voglia significar medesimo fato molesto, che medesimamente tormenta l’uno e l’altro (cioè intentissimamente, senza misericordia, a morte), con diversi instrumenti o contrarii principii, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che richieda più lunga e distinta considerazione».281 Su questo punto Ciliberto trae ottime conclusioni: «Siamo, come si vede, a un punto di crisi, di svolta: e questo appare anche dal lessico che Bruno usa. Quando si trova in situazioni come queste, si ritrae, fa un passo indietro, osservando che il testo da commentare – e interpretare- è arduo, difficile, poco chiaro».282 Nella prima parte dei Furori, nel terzo dialogo incentrato sulla figura di Atteone, nonostante Bruno abbia voluto spiegare il rapporto tra l’intelletto (occhi) e la volontà (cuore), il tema è solamente accennato tanto che se «si offusca il principio della “comunicazione”, della “partecipazione”, “occhi” e “cuore”- cioè “intelletto” e “volontà” non si relazionano […] senza riuscire a percorrere il cammino che porta alla “prima”, “infinita” verità».283 Ciò che Bruno ha cercato di compiere nella prima parte dei Furori risulta ben spiegato da Ciliberto nel passo seguente:

«Nella prima parte del dialogo Bruno mette sul tavolo tutti gli elementi necessari alla rivelazione: il travaglio apocalittico, al confine tra la vita e la morte; il tema della visione e della luce; la figura del “veggente”. Ma la rivelazione non si attua

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