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Il tentativo di questo capitolo è quello di rintracciare nella letteratura metodologica di servizio sociale dedicata all’area d’intervento minorile dei

modelli di presa in carico che fungano da orientamento professionale in casistiche

di affidamento del minore al Comune da parte dell’Autorità Giudiziaria.

In assenza di una disciplina normativa quadro, come illustrato nel primo

capitolo del presente lavoro, le prime difficoltà emergono anche solo nella

ricostruzione dei fondamenti giuridici dell’istituto e delle diverse Autorità

Giudiziarie, Tribunale per i Minorenni e Tribunale Ordinario, che possono

intervenire a determinare il mandato tutelare nei confronti dei Servizi Sociali.

Difficoltà oggettive emergono rispetto all’organizzazione prevista per i

Servizi Socio-Sanitari territoriali che debbono esercitare i mandati istituzionali

connessi alle disposizioni giudiziarie. Tale sfondo di Servizi ed unità operative

distrettuali rappresenta un vincolo non solo di sistema, ma allo stesso tempo un

ineludibile presupposto metodologico nella misura in cui, lo vedremo, la

metodologia più valida e plausibile che andremo ad analizzare in termini di modello non può prescindere da un’èquipe socio-sanitaria operativa nelle diverse

fasi e nell’ esercizio delle diverse funzioni previste dal processo di presa in carico

tutelare.

Infine, obbiettive difficoltà ineriscono all’area d’intervento stessa rispetto alle problematiche che la determinano, alle circostanze da cui ha origine l’azione

53 giudiziaria e di servizio, oltre che in riferimento a tutti i soggetti che a vario titolo

possono essere coinvolti nel procedimento, i minori prima di tutto, quindi le

famiglie, i genitori singoli, gli operatori.

Se in qualche modo è stato possibile ricostruire le basi normative utili a definire i mandati istituzionali inerenti l’istituto dell’affido del minore, solo con

estrema difficoltà appare possibile trovare un riferimento metodologico di presa in

carico abbastanza generale da avere rilevanza teorica, ed al contempo essere

valido ed applicabile sia a fini giudiziari, sia a fini assistenziali.

Il provvedimento di affidamento del minore emanato dall’Autorità

Giudiziaria determina la tipologia di presa in carico, il campo e le modalità dell’intervento socio-assistenziale ed in qualche modo terapeutico sanitario per

cui, a mio giudizio, uno dei fondamenti metodologici, a prescindere dal contesto

di riferimento disciplinare, dovrebbe essere la chiarificazione del carattere

specifico della presa in carico tutelare.

Nei confronti del minore in stato di pregiudizio psico-fisico il fondamento

giuridico del suo primario interesse, il suo status di soggetto da tutelare nella sua

globalità, determinano una presa in carico in termini di protezione, riparazione e promozione, anche nella forma estrema dell’allontanamento giudiziario,

eventualmente d’urgenza, coatto, dalla residenza famigliare.

Nei confronti della famiglia o di singoli genitori, il provvedimento d’affido incide pertanto sull’esercizio della piena potestà genitoriale, in termini giuridici e

di fatto. Il carattere di restrizione, compressione o addirittura venir meno in toto

delle prerogative genitoriali dipenderà dalla decisione giudiziaria conseguente a

fatti gravi, eventualmente a rilevanza penale spesso a carico dei genitori stessi,

54 non solo del minore, ma parimenti intra-familiare, l’incuria ed abbandono, l’abuso

sessuale.

Al di là di tali casi più gravi e palesanti in modo manifesto, l’incapacità

genitoriale e i fattori di rischio conclamati potranno darsi, o essere valutate

situazioni intermedie, in cui l’affidamento del minore, pur costituendo comunque

compressione della potestà genitoriale e necessità di azioni tutelari, potrà non comportare l’allontanamento dalla residenza famigliare o prevedere una

collocazione alternativa presso altri riferimenti parentali della famiglia estesa, se valutati idonei all’accoglienza e non costituenti fattori di rischio a loro volta.

Ciò tuttavia non muta il carattere specifico della presa in carico

determinata dall’intervento dell’Autorità Giudiziaria, formalizzata con decreto d’affidamento, in quanto saranno pur sempre previste restrizioni alla piena

genitorialità, unitamente a prescrizioni a carico degli interessati. Ugualmente, non

verranno meno le funzioni di controllo ascritte ai Servizio Socio-Sanitari.

Il punto di partenza per approfondire metodologicamente la presa in

carico socio-sanitaria nel presente capitolo comporterà approfondire il modello di

presa in carico psico-sociale derivante dall’esperienza scientifica del Centro per il

bambino maltrattato e la cura della crisi familiare di Milano (CBM) e la

metodologia della valutazione elaborata da figure scientifiche quali Stefano

Cirillo, Paola Di Blasio e Teresa Bertotti, ognuno nel corso del tempo membro

della stessa èquipe psico-sociale e del Comitato scientifico del CBM.

I motivi di tale scelta di approfondimento sono evidenti rispetto alla casistica di riferimento con Decreto d’affidamento all’Ente Locale, coincidente

con le problematiche affrontate – danno e pregiudizio del minore e famiglia

maltrattante o in crisi multi-problematica - e la metodologia di presa in carico e valutazione sviluppata a partire dall’esperienza CBM.

55 Secondariamente, in quanto tali basi metodologiche e valutative

costituiscono i principali riferimenti di valore scientifico sulla valutazione e presa

in carico di gran parte dei contributi di metodi di Servizio Sociale per l’area della

tutela minorile, non solo per il riferimento alle discipline psicologiche, ma per il

loro essere maturate attraverso effettive esperienze di servizio cliniche,

terapeutiche ed assistenziali, soprattutto milanesi, nei cui contesti le maggiori

autrici di metodologia di Servizio Sociale hanno svolto la loro pratica

56 2.1.2. Breve ricostruzione dello sviluppo del modello di presa in carico CBM.

Lo scopo del presente paragrafo è quello di fornire una breve ricostruzione

storica del contesto di sviluppo di un modello di presa in carico tutelare di

indubbio riferimento scientifico in ambito tutelare minorile, da utilizzare quale

punto di partenza al fine di delinearne alcune dimensioni metodologiche

fondamentali.

In questo senso procediamo ad enucleare alcuni punti chiave del processo

di presa in carico tutelare, attraverso una serie di testi che ricostruiscono l’esperienza milanese, a cura di autori quali Stefano Cirillo, Paola Di Blasio e

Teresa Bertotti, tendendo ad una generale chiarificazione della definizione della

presa in carico coatta o non spontanea: il focus metodologico psico-sociale

correlato a mandati, provvedimenti, decreti, prescrizioni emanati dall’ Autorità

Giudiziaria a fini d’indagine e tutela minorile.

Come vedremo, nei paragrafi dedicati, l’approfondimento della specificità

della presa in carico, logicamente trattata dagli autori in modo clinico, pratico e

riflessivo, introdurrà elementi che aiutano a definire al contempo il carattere della relazione d’aiuto con le figure parentali e i minori stessi.

Tale centralità di paradigmi ci condurrà quindi a seguire gli sviluppi

scientifici della teoria della valutazione dei fattori di rischio e protezione delle

competenze genitoriali, attraverso il contributo di Paola Di Blasio, nella misura in

cui traduce in senso professionale, ovvero metodologico psico-sociale, i concetti

giuridici astratti che fungono da principi normativi e civilistici della tutela del

57 Parte dell’indubbio valore dei modelli d’intervento della scuola di Milano,

il cui sviluppo ha avuto origine nel 1979 con la costituzione, a cura di insigni

membri della società civile, giudiziaria ed universitaria cittadina,

dell’associazione Centro d’aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia in crisi

(CAF), va ascritto in buona misura alla loro elaborazione pratico-sperimentale.

I contributi che utilizzeremo per delineare il modello sono tratti da La

famiglia maltrattante di Stefano Cirillo e Paola Di Blasio, Cattivi genitori sempre

dello stesso Cirillo, unitamente ai capitoli Il Centro per il bambino maltrattato e

la cura della crisi familiare di Elena Fontana contenuti nel volume di autori vari

La tutela del minore.21

Nell’introduzione e nei capitoli iniziali del testo del 1989 La famiglia

maltrattante di Cirillo e Di Blasio22, sono adeguatamente ricostruite le laboriose tappe dell’elaborazione del modello d’intervento, a partire da teorie e prassi

terapeutiche psicologiche consolidate, anche a livello deontologico, in riferimento

alle quali la mancanza di una domanda di aiuto spontanea da parte delle figure

genitoriali coinvolte nel procedimento tutelare rappresentava una contraddizione o

impasse terapeutica, una mancanza resa ancora più problematica dal contesto giuridico ed istituzionale d’intervento, avente come prioritarie tutela e protezione

21Cfr. A.A.V.V., A cura di Dante Ghezzi e Francesco Vadilonga, La tutela del minore. Protezione dei bambini e

funzione genitoriale, Milano, Cortina Editore, 1996.

22Cfr. S.Cirillo, P.Di Blasio, La famiglia maltrattante, Milano, Cortina Editore, pp.XXVI-XXX e pp.1-13. Di

rilievo la presentazione di una delle figure cardine della terapia sistemico-familiare italiana, peraltro riferimento formativo degli operatori CBM, Mara Selvini Palazzoli: “(…) Possiamo indurre effetti terapeutici in qualsiasi contesto. Perfino in quello più discordante con la comune “ideologia” della spontanea richiesta d’aiuto quale il contesto coatto conseguente ad un decreto giudiziario, purchè ne restiamo consapevolmente all’interno, plasmando il nostro operare conformemente a quelle marche e a quelle regole che lo definiscono, e da cui il nostro operare stesso trae il suo significato. Condizionata com’ero, sia dalla formazione che dal lavoro, prima come psicoanalista e poi come terapista della famiglia, in un contesto privato dove la richiesta di aiuto fa legge (…) anch’io avrei impiegato molto tempo a capire che il contesto coatto ha la sua ragion d’essere in quanto ha come scopo ineludibile la protezione immediata del bambino da ulteriori maltrattamenti: ma che tale contesto non esclude, proprio per il suo carattere temporaneo, l’appello da parte del giudice a esperti per una diagnosi sulla recuperabilità dei genitori come tali, e l’eventuale esecuzione di una terapia “. Op.cit. XI-XII e ss.

58 del minore nei confronti di disfunzioni, o veri e propri reati da parte degli stessi

familiari per la maggioranza dei casi.

Vi era in sostanza un vuoto teorico e metodologico tra la dimensione

giuridica, forse anche etica, della criminalizzazione-sanzione della figura o nucleo

parentale maltrattante, peraltro ineliminabile dal punto di vista giurisdizionale, e

determinati presupposti teorici della dimensione clinico-terapeutica, al limite dell’impasse della non trattabilità terapeutico-relazionale.

Negli anni tra il 1979 e il 1984, l’esperienza del CAF clinica, organizzativa

interna ed esterna nei rapporti con i Servizi Sociali del Comune di Milano,

condusse ad un ulteriore sviluppo con la costituzione di una cooperativa e del

Centro per il bambino maltrattato e la cura della crisi familiare (CBM). Dopo tale decennale esperienza d’intervento, diventava possibile enucleare i capisaldi del

modello, riproposti nel testo sopra citato del 1989:

- Assunzione e sviluppo teorico di un modello sistemico-relazionale delle

dinamiche familiari applicabile in funzione tutelare di protezione ed intervento minorile, anche a fini diagnostici e prognostici di capacita” e funzioni genitoriali;

- Metodologia d’intervento psico-sociale di secondo livello, mediante

èquipe integrata formata da neuro-psichiatra, psicologi terapisti familiari ed assistenti sociali operativa a due livelli: un primo livello composto dall’intera

èquipe con funzioni valutative e di supervisione, un secondo livello da èquipe

ristretta e responsabile dei singoli casi;

- Funzione prioritaria di protezione in presenza di “atto lesivo patente” e

fattori di rischio grave, mediante pronto inserimento del minore in comunità d’accoglienza facente parte dell’organizzazione CBM;

- Elaborazione di un protocollo d’intervento multi-professionale a fini

59 - Specializzazione casistica per problematiche di pregiudizio del minore

derivanti da maltrattamento fisico e psichico, abuso sessuale, grave trascuratezza e

separazioni conflittuali;

- Specializzazione per classi d’età 0-12 anni, assumendo che le

problematiche della casistica con minori in età adolescenziale richiede diversa

specializzazione e conseguente modello d’intervento e presa in carico23;

- Rapporto coordinato di rete con i servizi pubblici territoriali, mediante

esercizio di funzioni esternalizzate complessive ed organiche di secondo livello:

dalla diagnosi, alla prognosi ed eventuale programma terapeutico parentale.

Rispetto agli elementi base del modello estrapolati da La famiglia

maltrattante, vale la pena sottolineare subito la centralità dell’èquipe socio-

sanitaria e multi-professionale, anche in riferimento alle stesse figure medico-

terapeutiche e la sua strutturazione a due livelli. Le analogie con le disposizioni

normative odierne, a partire dall’enfasi del 2000 sulla portata riformistica del

sistema integrato, fino alle recentissime norme regionali circa i servizi socio-

sanitari distrettuali fanno risaltare il valore paradigmatico, non solo di settore,

anche in termini organizzativi dell’esperienza milanese iniziata, lo ricordiamo, nel

1979.

Tuttavia, la necessità dell’èquipe multi-professionale appare soprattutto a

livello pratico-operativo, lo vedremo nei paragrafi seguenti, laddove il possibile punto di svolta della presa in carico tutelare risiede nell’applicazione di

metodologie con competenze tali da poter davvero valutare il “danno” e le

23 Tale approccio, inevitabile e logicamente conseguente ad un basilare inquadramento scientifico di psicologia

evolutiva, ha pertanto condotto alla costituzione del Centro di terapia dell'adolescenza di Milano (CTA), a cura delle stesse equipes scientifiche dei contesti CBA. Cfr. Il Centro di terapia dell'adolescenza di Milano, a cura di autori vari, in La tutela del minore, cit., pp. 311-331.

60 dinamiche relazionali comunicative e comportamentali genitoriali, attraverso cui il

danno o i fattori di rischio vengono espressi e si riproducono.

Va da sé che in tale approccio la sostanza scientifica del modello è di

matrice psicologica, i fattori di rischio o di protezione espressi in modo dinamico-

relazionale dalle figure genitoriali tra loro e con la loro prole sono di natura psico-

affettiva ed emotiva, quando non altrimenti patologiche, oltre che cognitive o

sociali.

Ciò nondimeno, riferendosi al già evidenziato peso del modello CBM nei

contributi di autrici di Servizio Sociale in termini di competenze specialistiche in

area minorile e tutelare, tale approccio appare coerente e maggiormente

funzionale rispetto ad altri orientamenti di Servizio Sociale genericamente

relazionali.

Tali considerazioni inducono ad effettuare un’ulteriore sottolineatura

introduttiva fondamentale, vale a dire la dimensione specialistica e specializzata in

cui consiste il progetto del CBM; fondamentale in quanto, a mio parere, come per

ogni altra area di sapere e di pratica di cura ed intervento psico-sociale, l'area della

tutela minorile non può' che far capo a competenze di settore metodologicamente

specializzate. Tale ci sembra il senso funzionale e metodologico della definizione

di Servizio Socio-Sanitario di secondo livello, sviluppato e validamente praticato

attraverso i modelli di presa in carico milanesi, quindi assunto, almeno

formalmente, dagli assetti socio-sanitari distrettuali recenti della normativa da me

richiamata nel corso del mio lavoro.

Stante la produzione scientifica e il globale impatto socio-culturale,

sinergicamente condotto attraverso il settore formativo universitario, anche nei

61 sfondo metodologico non pare possa essere messo, né di fatto lo si è mai davvero

validamente tentato, scientificamente in discussione.

Tuttavia, tali considerazioni di ordine strettamente scientifico hanno richiesto l’operatività e pubblicazioni pluridecennali dato che, come ricordato da

Elena Fontana nel suo contributo nel volume La tutela del minore, il modello specialistico di secondo livello in funzione dell’intervento tutelare minorile e della

famiglia multi-problematica e disfunzione relazionale, nel 1984 venne poco

compreso dal punto di vista teorico:

“La scelta del Comune di Milano di favorire la nascita di un centro

specialistico che si occupi del maltrattamento all’infanzia è parte di un piano

teorico-operativo che è stato a volte criticato. Pareri autorevoli hanno sottolineato

che intervenire nei confronti dei minori in difficoltà è compito dei Servizi Sociali

di base e che istituire un centro specialistico rischia di delimitare, confinandoli,

una particolare categoria di bambini: i maltrattati. Queste argomentazioni non sfuggono quando nel luglio 1984 alcuni operatori (…) costituiscono una

cooperativa denominata Centro per il bambino maltrattato e la cura della crisi

familiare (CBM), dichiarando da subito di porre il Centro al servizio dei Servizi,

operando in stretta collaborazione con il Tribunale per i Minorenni e i Servizi

Socio Sanitari del territorio milanese (…). Obiettivo era la nascita di un servizio

specializzato che mettesse a punto modalità d’intervento appropriate al

trattamento delle situazioni di abuso, attraverso le proprie e altrui esperienze,

trasmettendo queste tecniche anche ai Servizi del territorio perché potessero a loro volta utilizzarle (…). Fin dall’inizio della sua attività, il Centro ha elaborato un

modello d’intervento sul maltrattamento infantile che si articola attraverso un

lavoro complesso coinvolgendo il bambino e la sua famiglia. Il principio teorico dell’èquipe del CBM è che il maltrattamento di un minore in famiglia è

62 espressione di un gioco patogeno attivo nella famiglia stessa. Questo orienta gli operatori nell’approccio diagnostico e terapeutico alle famiglie e nella raccolta

delle informazioni in fase di segnalazione e in tutta la presa in carico del caso. Ciò significa assegnare un’importanza prioritaria alle relazioni tra i familiari, intese

come fattore determinante dello scatenarsi della violenza” 24.

63 2.2.1. La relazione d’aiuto tutelare non spontanea secondo il modello di presa in carico CBM.

La definizione di presa in carico coatta nel senso paradigmatico dato ad

essa dalla scuola di Milano è inserita in un approccio psicologico e psico-

terapeutico complessivo, utile ai fini di un inquadramento diagnostico ed

eventualmente prognostico e terapeutico, tanto quanto ai fini di un obiettiva comprensione del campo d’intervento istituzionale e giuridico in cui

contestualizzare la propria professionalità.

Accomuna le diverse professionalità socio-sanitarie, la necessità di dare un

senso professionale alle misure giurisdizionali quali il Provvedimento d’affidamento: un atto giuridico grave dal punto di vista giuridico civile,

eventualmente associato ad allontanamento anche coatto del minore dalla

residenza familiare, non di rado un primo grado in un percorso giurisdizionale che può condurre all’apertura di un procedimento di adozione, o comunque ad un

affidamento all’Ente che si protrarrà fino alla maggiore età.

Di convincente e valido nel complessivo approccio CBM, vi è pertanto la ricerca di un equilibrio metodologico che non minimizza il contesto d’intervento,

gli effetti dell’intervento dell’Autorità Giudiziaria sulla relazione d’aiuto.

Tuttavia, anche al di là di tale derivazione teorica, come peraltro rilevato

dalla maggior parte dei contributi di metodo di Servizio Sociale in area tutelare, sussistono criteri non necessariamente psicologici per distinguere l’accesso e la

relazione spontanea da un accesso non spontaneo. Ad esempio, in modo

abbastanza elementare, la presenza stessa di un’Autorità Giudiziaria, che effettua

64 necessario e sufficiente per effettuare distinzioni tipologiche di presa in carico, al di là dell’area d’intervento e dei soggetti assistenziali, i minori, le famiglie.

Ulteriori elementi intesi come fatti, osservati, accertati, osservabili, oggetto

di referti diagnostici, a loro volta a fondamento dell’intervento dell’autorità

giudiziaria con funzioni tutelari, ovvero danni fisici, abuso e violenza sessuale, maltrattamento fisico e psicologico, trascuratezze fino all’incuria od abbandono, -

tutti di per sé potenzialmente gravi o gravissimi, potenzialmente illeciti civili e

reati penali - non possono non avere rilievo anche metodologico e teorico, e

quindi avere valore di criteri ai fini di una distinzione concettuale delle tipologie di presa in carico e modalità d’intervento specifici.

Tali criteri fattuali devono quindi essere tenuti tutti presenti ed essere

elaborati dai contributi teorici, logicamente connessi allo sfondo normativo, non

annullandoli con un uso solo formalistico delle distinzioni tipologiche “spontaneo”, “non spontaneo”, senza cogliere tutti i fattori problematici psico-

sociali, oltreché etici, giuridici e legali alla base della distinzione stessa, ovvero

senza sviluppare o riferirsi ad un approccio metodologico specialistico

potenzialmente atto ad affrontare le realtà critiche della presa in carico tutelare.25

Appaiono peraltro non sufficienti criteri solo fattuali che distinguano la

diversa tipologia di presa in carico, basata su categorie dicotomiche, quanto strumenti concettuali per orientarsi nel continuum tra lo “spontaneo” e il “non

spontaneo” o, in termini più chiari, per comprendere l’apparentemente spontaneo

25Tale sembra il modo di procedere del testo di S.Ardesi e S.Filippini, Il servizio sociale e le famiglie con minori,

Roma, Carocci, 2009, in cui la parte metodologica procede articolandosi per tre capitoli, peraltro con grande attenzione tecnico-procedurale e normativa, dedicati rispettivamente ad “Attivazione del servizio sociale sulla base di una richiesta spontanea”, “Attivazione del servizio sociale professionale da parte di terzi” e “Attivazione del servizio sociale da parte dell’autorità giudiziaria”, giungendo tuttavia alla conclusione che: “A eccezione della necessità di relazionare ad altri l’evoluzione delle situazioni pare importante affermare che la gestione del processo d’aiuto in contesti spontanei e di controllo non implica significative modificazioni, né dal punto di vista metodologico, né da quello deontologico “. Ivi., p.134.

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