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Col presente lavoro, si è voluta dare precipua rilevanza alla questione – che si inserisce nella più ampia tematica del concorso morale di persone nel reato – relativa al rapporto tra il paradigma eziologico “classico” e le forme di interazione psichica rilevanti nel contesto penale.

Tale problematica, infatti, pur riguardando l’aspetto tutt’altro che marginale concernente il sistema di ascrizione delle ipotesi di partecipazione psicologica al reato e, in generale, di tutte quelle condotte che si risolvono in specifiche forme di condizionamento dell’altrui volontà, non è fatta oggetto di particolare attenzione da parte della letteratura penalistica nostrana.

Un certo scetticismo nei confronti del fenomeno della causalità psichica è, del resto, correlato alle inequivocabili difficoltà che scaturiscono dall’applicazione, nello specifico ambito della compartecipazione criminosa, dei risultati a cui la dottrina più autorevole è pervenuta nell’indagine relativa alla causalità naturalistica.

Per cercare di verificare i rapporti tra il modello causale e le dinamiche di interazione psichica, è parso opportuno procedere, quindi, ad una preliminare ricognizione dei capisaldi dell’elaborazione dogmatica in tema di individuazione del contenuto minimo della condotta concorsuale. Come si è visto, infatti, talune delle obiezioni mosse all’adozione, in un simile contesto, del criterio causale come canone di tipizzazione, valgono tanto per le ipotesi di partecipazione morale quanto per quelle di partecipazione materiale. Dunque, per potersi parlare di causalità con riferimento alle condotte concorsuali di natura psicologica, occorre avere, a monte, chiarito in che modo lo schema eziologico possa essere adattato allo studio della fattispecie plurisoggettiva eventuale.

Al riguardo, si è rivelato necessario richiamare le puntualizzazioni formulate dalla migliore dottrina in relazione al corretto impiego del paradigma condizionalistico. Ci si riferisce, in particolare, all’avvertimento circa la necessità, innanzitutto, di escludere dal giudizio controfattuale eventuali fattori alternativi ipotetici e, in secondo luogo, di assumere come secondo termine della relazione causale il fatto concretamente realizzato, come fenomeno verificatosi “qui ed ora”, tenendo conto di tutte le sue modalità rilevanti. Tali precisazioni rappresentano uno snodo fondamentale nella

dogmatica sul concorso, in quanto consentono di attribuire rilievo anche alle condotte che, pur non rappresentando una condizione necessaria per la realizzazione dell’illecito, incidono sulle concrete modalità di verificazione. Il criterio causale impone, invece, di asserire la non punibilità di quei contributi che – non integrando una frazione tipica della fattispecie o una circostanza aggravante ovvero non essendo, quantomeno, in grado di incidere sulle sue concrete modalità di realizzazione – risultano in alcun modo collegati con l’offesa tipica.

Tanto premesso, si è cercato di identificare i confini operativi del paradigma causale nel contesto delle “tradizionali” ipotesi di partecipazione morale al reato. In una simile prospettiva, si è potuta appurare la reciproca autonomia della determinazione e del rafforzamento. I due concetti risultano, infatti, contrassegnati da una diversa efficacia sul piano eziologico. Tale assunto ha consentito la trasposizione, nello specifico contesto di riferimento, degli esiti della precedente disamina. Si è osservato, infatti, che la determinazione, ponendosi come condizione necessaria del reato (id est, dell’insorgenza del proposito criminoso), dà origine ad una partecipazione incidente sull’an del medesimo. Quanto al rafforzamento, si è rilevato che, pur non essendo caratterizzato da una efficacia eziologica analoga a quella delle determinazione – limitandosi ad incidere su di un preesistente proposito criminoso – può essere, ad ogni modo, considerato causale (seppur non “condizionale”), inscrivendosi nel novero delle condotte che influenzano il quomodo dell’illecito, apportando variazioni relative all’intensità del dolo o alle forme concrete di realizzazione.

Diversamente, la rilevanza dell’apporto morale va negata nell’ipotesi dell’omnimodo facturus, essendo l’esecutore materiale risoluto sia sul “se” che sul “come” del reato, ovvero nei casi in cui questi, pur non essendo previamente e pienamente (auto)determinato, non abbia effettivamente tenuto conto dell’apporto morale altrui nella concreta realizzazione del fatto.

Al termine dell’analisi concernente le diverse tipologie di partecipazione morale, l’attenzione è stata concentrata sull’aspetto più “tormentato” della complessiva tematica, ossia quello relativo ai reali meccanismi di ascrizione causale nel contesto delle interazioni psichiche.

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Si è, sul punto, avuto modo di constatare che né il principio di autodeterminazione né l’assenza di leggi scientifiche di copertura costituiscono un argine invalicabile per riconoscere anche nel contesto de quo la piena operatività delle dinamiche causali. Ad ogni modo, viste le particolarità del fenomeno di cui ci si è occupati, non si può che convenire sulla necessità di adoperare, ai fini dell’accertamento del collegamento eziologico tra la condotta di condizionamento e la realizzazione del fatto di reato, massime di esperienza o generalizzazioni del senso comune.

Benché non si possa escludere che il tipo di indagine in questione abbia natura prevalentemente indiziaria, va, comunque, evidenziata la necessità di non abbandonare l’usuale modello “bifasico” proprio della causalità naturalistica. Al pari di quanto avviene per quest’ultima, dunque, il giudizio in ordine alla sussistenza della causalità psichica, deve snodarsi nel duplice passaggio, consistente, in prima battuta, nella ricerca di generalizzazioni esperenziali, che facciano riferimento alla normale “reattività” e “motivabilità” dei soggetti a determinati stimoli (“causalità generale”), e, in seconda battuta, nella verifica del caso concreto (“causalità particolare”), tramite la contestualizzazione della regola di esperienza. In questa seconda fase del ragionamento probatorio – che dovrà essere particolarmente rigoroso, visto il deficit nomologico di base – ci si dovrà avvalere di indici fattuali esteriori (fondati, a loro volta su regolarità di tipo socio-esperenziale), che consentano di affermare la sussumibilità del caso concreto nella generalizzazione ipotizzata.

Nel prosieguo del lavoro, si è voluto dare rilievo anche ad alcune ipotesi di causalità psichica monosoggettiva, non solo per dare atto della vastità del fenomeno, ma anche per evidenziare che la necessità di ricorrere a massime di esperienza per l’accertamento del nesso eziologico si pone in ambiti assai eterogenei. Attraverso l’analisi di simili fattispecie, si è, inoltre, potuto constatare che anche la descrizione (più o meno) tassativa delle fattispecie da parte del legislatore non elimina le difficoltà di prova che emergono ogniqualvolta si abbia a che fare con fenomeni di natura psichica. Del resto, anche la più stringente descrizione legislativa non potrebbe far venir meno la componente fattuale dell’accertamento: anche qualora la condotta di condizionamento sia anticipatamente selezionata sulla scorta di ciò che “normalmente” avviene nelle relazioni interpersonali, non si potrebbe fare a meno di accertare che, nel caso concreto, “le cose siano andate realmente così”. Anzi, una descrizione “rigida” delle forme di

condizionamento psichico, la quale trascurasse, in una prospettiva di semplificazione probatoria, le infinite sfumature delle interazioni soggettive, rischierebbe di aprire il varco a pericolose forme di responsabilità oggettiva occulta566.

In definitiva, il ricorso a massime di esperienza, nei settori in cui non si disponga di leggi di copertura universali o statistiche, si rivelerebbe comunque necessario ai fini dell’accertamento del nesso di causalità. Tale assunto fa sì che la causalità psichica si allontani completamente dal (invero, ormai “logoro”) modello nomologico-deduttivo, senza, tuttavia, necessariamente sancire la totale frattura tra la medesima e il sapere scientifico. Posto, infatti, che ai fini dell’indagine giudiziale ci si può avvalere di tutte le informazioni già fornite dalle diverse discipline psicologiche, sociologiche, criminologiche etc., nulla impedisce di ipotizzare che le generalizzazioni del senso comune possano essere progressivamente corroborate o sostituite da quelle formulate negli altri settori del sapere umano, nell’ottica di un costante dialogo tra diritto e scienza.

566 Condivisibili, al riguardo, paiono le osservazioni di M.PELISSERO, I limiti del diritto sostanziale nella

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