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Ossuari, sarcofagi e coperch

3.1 Ossuari e coperchi

Si intende con questo termine quei monumenti, altrove definiti anche “cinerari” o “urne”1

, composti di cassa e coperchio, destinati ad accogliere i resti dell'incinerazione del defunto. Essi sono stati distinti dai sarcofagi in base alle dimensioni: se la cassa non supera il metro e mezzo di lunghezza, è stata attribuita a un ossuario; se invece è più lunga, adatta dunque ad accogliere un corpo inumato, è stata censita come sarcofago. L'unica eccezione è rappresentata da una cassa, con relativo coperchio a spioventi, conservata nel portico della basilica di S. Ambrogio (sa.08), la quale, lunga circa 120 cm, potrebbe apparentemente riferirsi a un ossuario; tuttavia, il fatto che fosse destinata, come dice l'iscrizione, ad accogliere i resti di due bambini e, ancora meglio, la presenza al suo interno, al momento del rinvenimento, di considerevoli resti ossei2 rivelano come si tratti piuttosto di un sarcofago.

Milano e il relativo ager conservano attualmente traccia di trentuno ossuari iscritti3: di

ventotto si è conservata solo la cassa, di due solo il coperchio, mentre da Ispra proviene un pezzo completo di cassa e coperchio (os.02).

3.1.1 Tipologia

E' possibile dividere gli ossuari mediolaniensi in due gruppi, in base al trattamento riservato allo specchio epigrafico: ossuari con iscrizione a campo aperto e ossuari con specchio corniciato. Tra questi ultimi, poi, si distingue un gruppo di ossuari il cui specchio è configurato a tabula ansata.

Una diversa suddivisione, in base alla lunghezza della cassa, è altrettanto possibile, per quanto

1 DI STEFANO MANZELLA 1987, pp. 88-89.

2 Di cui riferisce BOLLA 1988, p. 132.

3 A questi possono affiancarsene altri due, da Angera (os.32) e Bodio Lomnago (os.33) che tuttavia risultano difficili da rintracciare. L'ossuario angerese è noto da MANZOTTI 1983, il quale parla di un ritrovamento in

località Canneto, dove si trovava reimpiegato come barriera di convogliamento del flusso nel cavo di scorrimento a valle della sorgente chiamata “Fontana Ciossa”; il testo, per quanto di difficile interpretazione, rimane quello riportato dall'editore. L'ossuario di Bodio Lomnago, di cui esiste solo una notizia nell'Archivio Baldacci conservato presso la cattedra di Epigrafia Latina dell'Università degli Studi di Milano, è stato ritrovato nel 1972 nel cortile di via Brusa 5, dove era reimpiegato come vasca di raccolta per l'acqua; nel corso dello stesso anno è stato spostato in una villa privata di proprietà Gamba in via Bartolomeo Baj 5, donde se ne sarebbero poi perse le tracce. La scheda lo descrive come un ossuario in serizzo (50x120x70 cm) dalla superficie abrasa e poco leggibile; la faccia anteriore è occupata da una tabula ansata le cui anse ospitano due hederae, mentre la dedica agli Dei Mani si colloca nei triangoli di risulta tra la tabula e le anse. Il testo riportato dal Baldacci è il seguente: D(is) M(anibus) / Valeriae Prim / - - - -.

non sempre efficace. Le dimensioni del monumento dipendono infatti in larga misura dalle necessità contingenti dettate dalla pietra: non sempre, dunque, esse corrispondono a una precisa scelta del lapicida, come accade invece per la gestione dello specchio epigrafico.

LUNGHEZZA A CAMPOAPERTO SPECCHIOCORNICIATO

(SENZATABULAANSATA)

SPECCHIOCORNICIATO

(CONTABULAANSATA)

l < 100 5 3 3

100 ≤ l < 110 2 - 1

110 ≤ l < 130 1 1 6

130 ≤ l < 150 2 - 3

Tabella 21: Lunghezza delle casse e specchio degli ossuari mediolaniensi.

3.1.2 Distribuzione topografica e cronologica

La città di Milano ha restituito due casse, una integra rinvenuta in reimpiego presso la basilica di S. Ambrogio (os.21), l'altra vistosamente ritagliata – si conserva solo la metà destra del fronte – e oggi alloggiata nel matroneo della basilica di S. Lorenzo (os.27). Dall'ager viene invece la maggior parte dei pezzi considerati, peraltro con una particolare concentrazione a nordovest: da qui provengono infatti sia i due coperchi sia ventiquattro casse, mentre nell'ager nordorientale si trovano cinque casse. Sussistono dubbi a proposito dell'appartenenza di tutti i pezzi alla pertica mediolaniense: per quanto riguarda, infatti, le due casse e il coperchio inglobati nelle mura tardoantiche di Castelseprio (os.08, os.29, os.31)1

, ma soprattutto per la cassa e il coperchio reimpiegati nel monastero di Torba (os.13, os.30), nel territorio di Gornate Olona2

, non si può escludere un trasferimento dall'ager Comensis quando la costruzione delle due strutture attirò materiale bruto dal territorio circostante. Di particolare interesse, invece, la possibile appartenenza di tre ossuari (os.17, os.18, os.19) a un medesimo sepolcreto familiare. Nel 1959, infatti, ad Angera, a circa 400 metri dal cimitero,

1 Le origini del sito di Castelseprio sono state a lungo oggetto di dibattito, come si legge in CALDERINI -

PASSERINI 1953, pp. 174-175, CALDERINI 1956, MIRABELLA ROBERTI 1973, Parco Castelseprio 2009. Sembra che la creazione di un primo nucleo insediativo a Castelseprio sia andata di pari passo con la militarizzazione dell'area avvenuta nel IV-V secolo d.C.; a quest’epoca risalgono sia modesti ritrovamenti di ceramica, monete e vetri, sia la costruzione di tre torri, rimaste poi all'interno della cinta muraria, più tarda. La costruzione del castrum vero e proprio si sarebbe infatti compiuta tra il V e il VI secolo d.C., contemporaneamente all'ampliarsi del precedente insediamento e al vivacizzarsi delle attività economiche. Ormai da accantonare è dunque l'ipotesi che le fortificazioni tardoantiche di Castelseprio siano sorte su di un precedente vicus della prima età imperiale: al di là delle epigrafi riutilizzate nelle mura, infatti, gli unici reperti databili al I-II secolo d.C. ritrovati a Castelseprio sono frammenti architettonici e scultorei di un certo pregio, la cui presenza può essere ugualmente spiegata con un recupero dalle aree circostanti per il reimpiego a scopo edilizio (Parco Castelseprio, p. 16).

2 Il sito, già avamposto militare in epoca tardoantica, conosce una prima fortificazione ad opera di Goti e Longobardi nel V-VI secolo, epoca cui risale la costruzione di una torre e di una cinta difensiva, quindi una conversione in monastero tra VIII e XIII secolo. Per la storia del sito e la provenienza delle epigrafi si veda REALI 1991.

lungo la strada per Sesto Calende, vennero ritrovati quattro ossuari in gneiss, rovesciati e privi di coperchio1

; due di essi portano un testo entro tabula ansata (os.17, os.18), un terzo mostra una tabula ansata senza iscrizione e un quarto, dato per anepigrafe, ha in realtà almeno una linea di scrittura (os.19). Sebbene gli ossuari si trovassero in giacitura secondaria, sembra verosimile che in origine essi dovessero trovarsi collocati in un unico contesto sepolcrale, sia per l'impiego della medesima pietra e le comuni dimensioni, sia perché la stessa Pulliena

Iuliana ricorre in os.17 come dedicante e in os.18 come dedicataria.

Dei due gruppi sopra identificati, inoltre, è interessante notare come gli ossuari a campo aperto siano diffusi in tutto l'ager Mediolaniensis, risultando tra l'altro l'opzione preferita nella sua parte nordorientale; gli ossuari corniciati, invece, sono concentrati nell'ager nordoccidentale, tranne un esemplare cittadino (os.27) e un ossuario rinvenuto a Carate Brianza (os.24) la cui iscrizione, di difficile interpretazione, viene incorniciata da un rettangolo tracciato a solco2

.

La datazione di questa tipologia epigrafica risulta particolarmente difficoltosa dal momento che, trovandosi tutti i pezzi fuori contesto ed essendo privi di un apparato decorativo che possa fornire un appiglio cronologico su base stilistica, essa può poggiare soltanto sul contenuto del testo iscritto, solitamente ridotto al nome del defunto e del dedicante.

Nessun ossuario può essere datato con sicurezza al I secolo d.C., mentre dodici si collocano nell'ampia forbice che va dalla metà del I secolo alla fine del II secolo d.C. (os.02, os.06, os.08, os.11, os.14, os.15, os.18, os.21, os.22, os.23, os.28, os.29) in virtù dell'onomastica regolare portata dai personaggi menzionati nell'iscrizione. Sette ossuari possono essere datati tra II e III secolo d.C., dal momento che i loro titolari si presentano privi del praenomen oppure forniti di nomi latini adattati a una struttura onomastica di tipo idionimico (os.01, os.03, os.04, os.12, os.17, os.19, os.26); in un caso (os.25) a spostare la datazione verso il III secolo è la presenza della dedica b(onae) M(emoriae). Tre sono infine le epigrafi in cui è presente un nome unico e che dunque potrebbero datarsi tra III e IV secolo (os.07, os.09, os.20), pur senza dimenticare come dal III secolo in poi incontri sempre maggior fortuna la pratica dell'inumazione e con essa il sarcofago.

3.1.3 Materiale

Il materiale lapideo impiegato per gli ossuari mediolaniensi si presenta assai variegato. Da un

1 La scoperta è presentata in INNOCENTI 1975; anche in Origini Varese 2009, p. 305 si ammette la presenza, in

questa zona, di «aree sepolcrali famigliari».

2 Si tratta, di fatto, di un caso a sé stante: contrariamente alle altre epigrafi, infatti, per le quali la preparazione dello specchio precede l'incisione del testo, qui il testo prima viene inciso a campo aperto e in seguito viene incorniciato con un solco, forse per conferirgli maggior rilievo, forse per una sorta di horror vacui.

punto di vista commerciale si nota una netta preferenza per i graniti, cui seguono, in numero decisamente minore, i marmi e le pietre .

Per quanto riguarda i marmi, si possono distinguere quattro casi di impiego del marmo di Musso e un caso di impiego della pietra di Saltrio. In marmo di Musso sono tre ossuari e un coperchio che, più di altri, sembrano avvicinarsi alla produzione di urne comensi (os.08, os.13, os.22, os.30)1

: puntano in questa direzione la larghezza della cassa al di sotto del metro, l'inserimento del testo in uno specchio ribassato ed elegantemente corniciato a gola rovescia, la presenza in due casi (os.08, os.22) di una base modanata e in un caso (os.22) di rilievi laterali coerenti con le iconografie note sulle urne comensi; lo stesso marmo di Musso, del resto, risulta il materiale di riferimento per il primo gruppo di urne comensi definito dalla Bernasconi2

. La pietra di Saltrio, d'altro canto, che pure viene classificata tra i marmi in quanto calcare di notevole compattezza, sembrerebbe utilizzata per il frammento di ossuario conservato in S. Lorenzo a Milano (os.27).

Tra le pietre rientrano invece il micascisto, impiegato per un ossuario di Sesto Calende (os.20), e la pietra di Angera, attestata a Brebbia3

e ad Angera (os.03, os.11). La pietra di Angera, largamente presente in loco e dunque cavata con costi contenuti, è nell'ager nordoccidentale un'alternativa al marmo: facilmente lavorabile e scolpibile, per quanto non lucidabile, è possibile ottenere da essa prodotti di particolare pregio4. Così, ad esempio,

l'ossuario di Virilliena Calventia (os.11) mostra una tabula ansata particolarmente elaborata, uno specchio corniciato a gola rovescia e un'iscrizione dalle lettere assai regolari, con apicature e chiaroscuro ben marcato. Di più difficile lavorazione, a causa della grana grossolana e della notevole scistosità, è il micascisto: non a caso l'urna di Sesto Calende (os.20) mostra una tabula ansata semplicemente corniciata a listello, per quanto arricchita da bottoni rilevati nelle anse; l'iscrizione tuttavia, nonostante le difficoltà del materiale, si rivela sorprendentemente accurata.

I graniti, infine, rappresentano il materiale più facile da reperire a basso prezzo e allo stesso tempo più difficile da lavorare; per questo motivo i risultati sembrano spesso poco “attraenti”: si preferisce il campo aperto oppure, in caso di tabula ansata, la cornice è costituita da un

1 Sulle quali si avrà modo di tornare più avanti nel capitolo, al §3.1.11.

2 Lo studio di riferimento per le urne di Comum è BERNASCONI 1987; alcune considerazioni preliminari sono contenute in SARTORI 1971.

3 La Cantarelli, che vide il monumento di Brebbia, un tempo conservato ai Musei Civici di Varese e oggi scomparso, parla genericamente di «dolomia» (CANTARELLI 1996, pp. 130-134, nr. 32). Come risulta da BUGINI-FOLLI 2008, la dolomia più diffusa nella zona d'interesse è la pietra di Angera. Di particolare interesse

è il fatto che entrambi i manufatti in pietra di Angera abbiano misure pressoché identiche – 42 x 94 x 65 cm (os.03) e 45 x 90 x 55 cm (os.11) – sebbene non sia purtroppo possibile ricontrollare le misure dell'ossuario di Brebbia.

semplice solco o da un listello; manca qualsivoglia apporto decorativo a rilievo; il disegno delle lettere si fa irregolare e l'iscrizione nel suo insieme comunica una sensazione di trascuratezza. Tale esito, tuttavia, non è da attribuirsi a una scarsa abilita del lapicida, che talora riesce anzi a gestire l'incisione in modo mirabile (os.17), quanto piuttosto all'effettiva difficoltà di lavorazione della pietra.

3.1.4 Dimensioni

L'analisi delle dimensioni dei pezzi integri ha rivelato un'estrema varietà di soluzioni – dettate verosimilmente dalle necessità imposte di volta in volte dalla pietra – con però alcuni addensamenti intorno a determinati valori.

Almeno undici sono le casse la cui lunghezza si mantiene al di sotto del metro; di queste due misurano all'incirca 66-67 cm (os.10, os.22)1

e cinque sono comprese tra i 90 e i 95 cm (os.03, os.06, os.11, os.19, os.23). Quattro sono invece lunghe un metro (os.09, os.20, os.25, os.28), mentre tra il metro e il metro e mezzo si collocano dodici casse. Di queste dodici, quattro hanno una lunghezza che si assesta intorno a 120 cm (os.17, os.18, os.24, os.33) e tre intorno ai 147-148 cm (os.02, os.04, os.15). Per quanto riguarda l'unico esempio di cassa che supera in lunghezza il metro e mezzo (os.21), arrivando fino a 154 cm, si tratta, come indicato dall'iscrizione, di una doppia sepoltura; è questo l'unico esempio di ossuario bisomo tra quelli in esame. Volendo poi cercare un'eventuale corrispondenza con il piede romano, è possibile trovare una relazione solamente con le casse lunghe 148 cm, le quali misurerebbero cinque volte un piede romano.

L'altezza delle casse è compresa tra i 33 cm (os.29) e i 73 cm (os.24), come evidenziato dalla tabella sottostante.

ALTEZZADELLECASSE ATTESTAZIONI

30 < h < 39 os.16, os.29

40 < h < 49 os.03, os.09, os.11, os.14, os.15, os.20, os.21, os.23 50 < h < 59 os.01, os.02, os.06, os.19, os.22, os.33 60 < h < 69 os.12, os.17, os.18, os.26

70 < h < 79 os.24

Tabella 22: Altezza delle casse degli ossuari mediolaniensi.

Come si nota, solo ventidue casse sono sufficientemente integre da consentire l'esatta

1 Si tratta molto probabilmente di una casualità, dal momento che si tratta di due pezzi totalmente differenti quanto a pietra e ad aspetto complessivo.

misurazione dell'altezza. Di queste otto sono alte tra i 40 e i 47 cm, sette tra i 50 e i 57 cm. Il rapporto tra altezza e lunghezza delle casse non è riconducibile a un valore costante, oscillando tra 1:1,3 (os.22) e 1:3,5 (os.21): nel primo caso l'ossuario assume una forma sostanzialmente cubica, nel secondo si presenta molto allungato; si registra tuttavia una certa concentrazione intorno a valori di poco superiori al rapporto 1:2. Volendo dunque cercare di collegare il rapporto tra queste due dimensioni allo schema proporzionale dei rettangoli dinamici, si nota come in alcuni casi la lunghezza della cassa si possa ottenere moltiplicandone l'altezza per √2 oppure √5.

Per quanto riguarda invece la larghezza delle casse, le misure oscillano tra 27 cm (os.22) e 80 cm (os.18). Non pare possibile ricostruire alcuna relazione tra l'altezza e la larghezza degli ossuari in esame, mentre tra lunghezza e larghezza sembra in rari casi esistere un rapporto ancora riferibile ai rettangoli dinamici.

Il blocco cavato, le cui dimensioni iniziali dovevano rispondere alle caratteristiche del banco di pietra da cui era stato tratto, doveva essere in seguito squadrato a partire dall'altezza1

. Dall'altezza, in altre parole, seguendo le proporzioni geometriche sopra evidenziate, si definiva la lunghezza della cassa; la larghezza, invece, poteva essere determinata ora come multiplo dell'altezza, ora come frazione della larghezza, ora forse, più semplicemente, sfruttando l'intera profondità del blocco non ancora sgrossato.

3.1.5 Specchio

La faccia anteriore degli ossuari in esame è il luogo privilegiato per l'incisione del testo epigrafico; in un'occasione l'iscrizione si trova ripetuta, con alcune variazioni2

, sia sul fronte (os.15) sia su un lato della cassa (os.15bis). Per quanto riguarda i coperchi, invece, la formula

D(is) M(anibus) trova posto ora all'interno degli acroteri (os.30) ora, in modo per certi versi

anomalo, su uno dei lati minori (os.31).

Come già anticipato al §3.1.1, l'iscrizione può presentarsi a campo aperto oppure all'interno di uno specchio ben definito e corniciato; nella maggior parte dei casi, inoltre, lo specchio, è configurato a tabula ansata, peraltro con una estrema varietà di soluzioni. La tabula, infatti, si presenta il più delle volte ribassata, ma a Milano viene piuttosto rilevata (os.27). La tradizionali anse triangolari hanno in un caso forma semicircolare (os.17), mentre a Sesto Calende sono completate con bottoni rilevati (os.20) e a Bodio Lomnago da hederae (os.33). La corniciatura può riguardare l'intera tabula ansata oppure solo il riquadro centrale,

1 Sulla squadratura di un blocco lapideo si veda ROCKWELL 1989, pp. 85-88.

lasciando le anse semplicemente ribassate; la cornice è a solco, a listello – singolo, doppio o triplo – oppure, quando la pietra lo permette, a listello e gola rovescia (os.11). In tre casi, inoltre, la tabula ansata è inserita in un riquadro rettangolare parimenti ribassato (os.11, os.12, os.17).

Ben centrata sulla faccia anteriore della cassa, la tabula è solitamente circondata da una “fascia di rispetto”, per cui i bordi delle anse e del riquadro centrale non arrivano mai a toccare gli orli del supporto. Il punto in cui collocare la tabula e le dimensioni della stessa vengono stabilite – con risultati più o meno felici a seconda della lavorabilità della pietra e della capacità tecniche del lapicida1

– in base allo schema proporzionale dei rettangoli dinamici2

. Come si può vedere dalle immagini seguenti, il lapicida procedeva innanzi tutto col dividere la faccia anteriore della cassa a metà; lo spazio così ottenuto veniva poi ulteriormente diviso a metà: la linea che si otteneva costituiva la partenza per la costruzione “in orizzontale” della tabula ansata3

.

1 La precisazione è necessaria perché è facile imbattersi, su questo tipo di monumenti, in tabulae dai lati sghembi e dalle anse non perfettamente simmetriche, le quali si discostano, peraltro solo di pochi centimetri, da quelle che dovrebbero essere le proporzioni standard fissate dal modello dei rettangoli dinamici.

2 Come proposto da GROPPO-SARTORI-VAI 1996 e SARTORI 1996a.

3 Chiamando l l'altezza della tabula, il primo rettangolo che viene generato e che va a definire il bordo interno della corniciatura è l√2, mentre il terzo rettangolo, l√4, definisce il profilo esterno dell'ansa. La struttura può ovviamente essere ribaltata per ottenere l'altra ansa.

3.1.6 Impaginazione e sintassi

L'iscrizione prende sempre avvio nella metà superiore dello specchio, entro la quale si trova talora interamente concentrata (os.09, os.10, os.15, os.24); in un caso, l'unica linea iscritta viene collocata esattamente sulla linea mediana dello specchio (os.29). La presenza delle anse laterali costringe, in caso di tabula ansata, a non destinare all'iscrizione l'intera superficie disponibile sulla faccia anteriore della cassa, collocandola piuttosto in una colonna centrale; l'occupazione è dunque pari a 3/5 (3 casi), 1/2 (6 casi) oppure 1/4 (4 casi) della superficie totale. Le medesime percentuali si ritrovano poi sia nelle poche iscrizioni corniciate non a

tabula ansata sia nelle iscrizioni a campo aperto; tra queste ultime si registrano anche tre casi

di occupazione totale (os.14, os.21, os.28) e un caso in cui la superficie occupata è 1/5 del totale (os.29).

Una posizione di rilievo spetta alla dedica D(is) M(anibus), su cui si avrà modo di tornare nel §3.1.7. Essa si trova in tre casi nella anse della tabula (os.02, os.11, os.25) e in un caso a fianco dell'ansa sinistra, ribaltata di 90° verso sinistra (os.27). Anche i pennacchi di risulta tra le anse e il riquadro centrale della tabula possono essere occupati da una parte dell'iscrizione, tanto da D(is) M(anibus) (os.33) quanto dalla dedica b(onae) M(emoriae) (os.25).

L'impaginazione è prevalentemente centrata, in minor misura allineata a sinistra. In un caso (os.25) si ha un'impaginazione a paragrafo, che vede rientrare la l.2 e l.4, la prima contenente il cognomen della defunta, la seconda quello della dedicante. Sul già citato ossuario bisomo di

Milano (os.21), invece, l'iscrizione viene spezzata su due colonne, ognuna delle quali conta tre linee di scrittura: la prima colonna contiene il nome del titolare seguito dalla formula sibi et, la seconda il nome della moglie codestinataria del sepolcro; la colonna di sinistra ha un'impaginazione centrata, quella di destra allinea le tre linee sulla sinistra. La scelta dell'una o dell'altra tipologia impaginativa non pare dipendere da un fattore cronologico, quanto piuttosto dal gusto e dall'abilità dei singoli lapicidi.

Sono inoltre presenti alcuni casi di impaginazione mista. Su un ossuario di Vimercate l'iscrizione, a campo aperto, centra la formula di apertura D(is) M(anibus), mentre le due linee contenenti il nome del defunto e del dedicante vengono allineate sulla sinistra (os.14); lo stesso schema si ritrova a Somma Lombardo (os.07) e a Castelseprio (os.08), dove a essere centrata è la formula v(iva) f(ecit), forse già predisposta prima della vendita. Particolarmente interessante, su un ossuario ritrovato a Caravate (os.28), è la decisione di centrare l'a capo finale, mentre le linee precedenti sono allineate sulla destra, incolonnando le S che concludono ogni linea1

. Ad Angera, infine, l'ossuario di Albinia Iuliana (os.08) vede le prime

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