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13 - L’OTTICA NON GAUSSIANA - Le ABERRAZIONI

Nel documento PROBLEMI TECNICI della MICROSCOPIA OTTICA (pagine 97-116)

Tutto quanto si è detto finora presupponeva che fossero verificate le condizioni dell’“ottica parassiale” di Gauss, valida per le “lenti sottili” (§ 2.5.1).

Si possono riassumere quelle condizioni dicendo che si tratta di sistemi ottici ideali, centrati su un asse comune, con elementi semplici limitati da superfici piane o sferiche, con campi ango-lari ed aperture limitati alla zona parassiale, cioè prossima all’asse ottico, con spessori tra-scurabili delle lenti e degli oggetti, usati con radiazione monocromatica44.

Il risultato di quelle supposizioni è che le immagini godono anch’esse di proprietà ideali: 1) L’immagine di un oggetto esteso, piano e perpendicolare all’asse è geometricamente simile all’oggetto ed ancora piana, perpendicolare all’asse.

2) L’immagine di un oggetto senza dimensioni, cioè di un punto, è ancora un punto.

3) I valori dell’ingrandimento e della focale nonché la posizione dei punti principali sono indipendenti dalle dimensioni dell’oggetto (cioè dai valori del campo), dall’inclinazione dei raggi sull’asse (quindi dall’apertura), dalle lunghezze d’onda interessate, dalla posizione del diaframma.

4) Il contrasto nell’immagine è uguale a quello nell’oggetto.

In una parola, si avrebbero immagini piane non deformate e con risoluzione infinita, in quanto ogni punto dell’oggetto avrebbe il suo corrispondente nell’immagine, e si potrebbero ritrovare in quest’ultima strutture e dettagli dell’oggetto piccoli quanto si vuole, con contrasto immutato.

Ma a questo stato ideale si oppongono tre cause principali di deviazione:

1) Cause tecniche (irregolarità nella lavorazione delle superfici, difetti nell’omogeneità dei materiali trasparenti, luce diffusa per riflessioni sulle pareti laterali o sulle montature delle lenti, luce parassita per riflessioni alla superficie degli elementi trasparenti, difetti di montaggio e centratura, ecc.). Vi sono anche difetti legati all’utilizzazione (errori di messa a fuoco, di pulizia, ecc.). In linea di principio, si tratta di “difetti” eliminabili con opportuni accorgimenti tecnici, generalmente con un certo aggravio di costi di produzione e manutenzione.

2) Cause fisiche, legate alla natura ondulatoria della radiazione ottica ed a ciò che ne con-segue, soprattutto alla diffrazione. Ne parleremo nel § 18.

3) Cause geometriche, legate alla rifrazione alle superfici aria-vetro o vetro-vetro45, ana-lizzabili in base al concetto di “raggio” (§ 2.3) ed alle leggi della rifrazione (§§ da 2.3 a 2.6).

Ebbene, queste ultime deviazioni dalle condizioni ideali dell’ottica di Gauss, queste cause “geometriche” legate alla rifrazione, sono importanti quando si considerano sistemi reali di lenti spesse, con angoli di campo e di apertura non trascurabili, con radiazione non monocromatica. Esse provocano deviazioni dall’immagine ideale sopra descritta, chiamate globalmente “aberrazioni”.

13.1 – Le ABERRAZIONI del PIANO

Consideriamo ancora un oggetto esteso, piano, senza spessore, perpendicolare all’asse di un sistema ottico reale formato da lenti sferiche spesse, centrate su un asse comune, con apertura e

44 cioè con radiazione di un unico valore di λ .

45 o, in genere, alla superficie di contatto fra mezzi trasparenti con diverse caratteristiche ottiche (“immersione” ecc.)

campo non trascurabili.

Le aberrazioni del piano riguardano la forma dell’immagine di un tale oggetto. 13.1.1 - La curvatura di campo

A causa di quest’aberrazione, l’immagine di un oggetto piano non è piana, ma curva, e la curva rappresenta una figura solida di rivoluzione, con un asse di simmetria assiale che coincide coll’asse ottico del sistema.

Non si tratterà in genere di una calotta sferica. In una lente semplice convergente, la super-ficie dell’immagine reale curva sarà concava verso la lente. Ciò si spiega guardando la fig. 35 in cui il punto B dell’oggetto, lontano dall’asse, dista dal centro C della lente più del punto assiale O; quindi l’immagine B’ dovrà distare da C meno di O’ e nel complesso il campo immagine è curvo.

Questa semplice considerazione geometrica, che ignora l’astigmatismo (§ 13.2.5), porta alla considerazione di una superficie immagine ideale ricurva, detta “superficie di Petzval” 46.

La misura della curvatura dell’immagine, esprimibile come distanza assiale fra un punto immagine (B’) e quello che si dovrebbe avere se l’immagine fosse piana e tangente sull’asse alla superficie reale (B” in fig. 35), è in linea di massima proporzionale al quadrato del “campo”, cioè della distanza fra punto immagine ed asse.

In queste condizioni, si può dire che tale obbiettivo fornisce un’immagine piana a condizione che l’oggetto, cioè la “superficie di miglior fuoco”, sia curvo: occorre considerare una super-ficie oggetto che garantisca il “miglior fuoco” (cioè un’immagine47 piana), ma che è di per sé curva.

In microscopia l’oggetto può avere uno spessore non trascurabile (sezioni di tessuti, strati liquidi di culture, ecc.) e quindi la superficie curva di miglior fuoco può trovarsi interamente conte-nuta nello spessore dell’oggetto; in que-sto caso la curvatura di campo non nuoce ed è inutile cercare gli obbiettivi speciali “planari” in cui quella aberra-zione è più o meno corretta (§ 19.2.3.2).

Fig. 35

Se invece l’oggetto è molto sottile (striscio di sangue, cellule o batteri; superficie levigata di provini metallografici o rocce, ecc.), allora la curvatura nuoce molto: si vedrà a fuoco solo il centro del campo, o il suo orlo o qualche “zona” intermedia a forma di anello centrato, mentre il resto del campo è sfuocato. La situazione è però alleggerita dalla “profondità di fuoco” (vedi il § 14) la quale fa sì che non si veda a fuoco solo una superficie oggetto (piana o curva), ma un leggero spessore di oggetto sopra e sotto il “miglior fuoco”; ciò conferisce alla “zona” a fuoco dell’immagine, data da un obbiettivo non planare per un oggetto piano, una larghezza non trascurabile, generalmente almeno metà del raggio del campo immagine. Impareremo a calcolare e misurare la profondità di campo, ma dalla fig 36 si chiarisce quanto detto.

46 Joseph PETZVAL (pron. Pèzval), matematico austriaco (1807-1891).

Fig. 36

In alto è indicato in sezione un oggetto senza spessore (Ogg); l’asse del sistema è verticale e passa nel piano e per il centro della figura.

La curva indica la sezione mediana della “superficie di miglior fuoco”, che interseca il piano oggetto lungo un cerchio. Con tre frecce doppie è indicata la profondità di fuoco, cioè lo spazio sopra e sotto il miglior fuoco entro cui l’immagine si può ancora considerare focalizzata. Operando con la messa a fuoco, si può far sì che nel punto più basso della superficie di miglior fuoco l’oggetto disti da essa non più della profondità di fuoco, per cui si ha un fuoco accettabile per tutta la porzione inferiore della superficie di miglior fuoco. Quando quest’ultima passa sopra il piano oggetto, si vede ancora a fuoco finché le due superfici non distano più della profondità di fuoco. In questo modo, tutta la porzione di campo-oggetto indicata con C risulta contem-poraneamente a fuoco, nonostante la curvatura di campo dell’obbiettivo.

Nella parte inferiore della fig. 36 si vede la stessa situazione, ma l’oggetto ha uno spessore non trascurabile. Finché la superficie di miglior fuoco è compresa nello spessore dell’oggetto, il fuoco è assicurato; fuori dalle due superfici dell’oggetto è ancora possibile sfruttare la profondità di fuoco e, nelle condizioni della figura, si ha ancora un campo interamente a fuoco (C’), più largo del caso precedente per via dello spessore dell’oggetto.

La curvatura di campo è indipendente dalle altre aberrazioni, almeno concettualmente, tranne che dall’astigmatismo (vedi il § 13.2.5) di cui essa rappresenta un caso particolare.

Le lenti divergenti semplici hanno una curvatura di campo di segno inverso di quelle convergenti; ciò offre al progettista un metodo di correzione. Infatti, negli obbiettivi planari, come vedremo, si usano lenti divergenti per la correzione della curvatura, a volte più di una.

Sono stati fabbricati in passato degli oculari divergenti (gli “Homal” di Zeiss, per es) in grado di compensare la curvatura dell’obbiettivo, ma essi avevano applicazione solo in fotografia (§ 20.6).

In pratica, vi sono due modi di ottenere una misura della curvatura di campo:

◊◊ Per una data combinazione obbiettivo-oculare-sistemi intermedi, si osservi un oggetto molto sottile (striscio di sangue, micrometro oggetto) e si metta a fuoco il centro dell’immagine badando al senso di rotazione della manopola prima di raggiungere il fuoco. A questo punto si legga la posizione della manopola, che di solito è graduata ogni μ oppure ogni 2 o 5μ. Poi si metta a fuoco l’orlo dell’immagine, arrivando al fuoco con una rotazione nello stesso senso; si legga di nuovo la posizione della manopola e si faccia la differenza fra le due letture. Si ha così la freccia di curvatura della superficie di miglior fuoco, espressa in unità di lunghezza assolute.

Questo dato però non è significativo, poiché va rapportato alla dimensione del campo ed alla profondità di fuoco, che dipende dall’apertura dell’obbiettivo; esso è quindi solo utile per con-frontare due diversi obbiettivi di pari ingrandimento ed apertura molto simile.

Allo stesso modo, si può approssimare la superficie di miglior fuoco ad una sfera e calcolar-ne il raggio di curvatura (nota la freccia ed il diametro del campo oggetto); si troverà che, in un obbiettivo non planare, tale raggio è simile alla focale di esso. Ma anche qui occorre rapportare la curvatura del campo alle sue dimensioni ed alla profondità di fuoco.

fuoco simultaneamente, cercando il miglior compromesso. Si troveranno valori di 40 - 60% negli obbiettivi non corretti, e di 60 -100% in quelli “planari”. Però a questo punto occorre definire il margine che separa la zona a fuoco da quella sfocata ed il fattore soggettivo diventa preponderante: quando si può dire che un punto è “appena ancora a fuoco” o “appena sfocato”?

Una valutazione quantitativa della curvatura di campo è comunque utile per definire uno dei parametri funzionali dell’obbiettivo, e contribuisce allo studio comparativo di obbiettivi diversi.

Anche l’oculare può essere affetto da curvatura di campo, ma sempre in misura minore dell’obbiettivo a causa della minor potenza delle lenti. Gli oculari negativi hanno curvatura più forte di quelli positivi.

In tutti gli oculari, la curvatura si somma algebricamente con quella dell’obbiettivo. 13.1.2 - La distorsione

Ora non ci occupiamo della curvatura del piano immagine ma della forma dell’immagine e della sua similitudine coll’oggetto.

Due figure piane sono geometricamente “simili” quando gli angoli corrispondenti sono uguali ed il rapporto fra segmenti corrispondenti (cioè l’ingrandimento lineare trasversale) è costante. La distorsione, indipendentemente da tutte le altre aberrazioni, consiste proprio in una variazione dell’ingrandimento al crescere del campo, cioè della distanza di un punto (oggetto o immagine) dall’asse. Se l’ingrandimento cresce col campo, l’oggetto sembra dilatarsi verso la periferia: un quadrato diviene un cuscinetto e si parla di distorsione positiva o “a cuscinetto” (vedi fig. 37, a destra); se l’ingrandimento diminuisce col crescere del campo, l’oggetto sembra contrarsi e si parla di distorsione negativa o “a barilotto” (fig. 37, a sinistra; fig. 15 nel § 2.7).

Fig. 37 – A linea intera l’oggetto; in tratteggio l’immagine (non in scala reale).

Avevamo visto un esempio di distorsione a barilotto nella figura 15 (§ 2.7); sotto a de-stra, un esempio di distorsione a cuscinetto, con segni di cromatica trasversale (vedi oltre: orli colorati nelle righe più esterne).

In una lente sottile, la distorsione dipende dalla posizione del diaframma, e si annulla quando il diaframma coincide colla lente. In un sistema complesso, si può annullare la di-storsione, per es., quando il sistema è simme-trico rispetto ad un piano mediano perpen-dicolare all’asse, il diaframma si trova in quel piano e l’ingrandimento è vicino ad 1.

La distorsione di una lente sottile è in ge-nere trascurabile, ma è sensibile nelle lenti spesse; una lente spessa convergente tende a mostrare una distorsione positiva; se diver-gente, negativa.

Se però il diafamma in una lente convergente non coincide colla lente, la distorsione è positiva (“a cuscinetto”) se il diaframma è posto dopo la lente (dalla parte dell’immagine), negativa (“a barilotto”) se il diaframma è posto fa oggetto e lente.

di lunghezza sull’oggetto, ma in genere essa è assai contenuta. La si può misurare agevolmente osservando un oggetto contenente una sottile retta lontana dall’asse (un micrometro oggetto o l’orlo di una lamella, per es.) con un oculare contenente un micrometro oculare, meglio se del tipo quadrettato. Spostando l’oggetto, si potrà misurare la freccia di curvatura della sua im-magine in diverse posizioni del campo.

La distorsione, espressa come spostamento effettivo di un punto immagine rispetto alla sua posizione ideale, è proporzionale al cubo del campo (inteso come distanza del punto dall’asse). Facendo il rapporto con il valore del campo, essa può essere espressa in percentuale. In una lente non corretta, la distorsione può arrivare a 5 o 10 %.

Si può esprimere la distorsione anche come rapporto ΔM = (Mi - Mo)/Mo in cui Mo è

l’ingrandimento lineare sull’asse ed Mi è l’ingrandimento ai margini del campo.

In un normale microscopio, la distorsione è dovuta in prevalenza all’oculare; quella del-l’obbiettivo non supera in genere 1-3 %.

Un sistema corretto da distorsione (in certi casi s’intende anche da sferica e curvatura di campo) si dice “retto-lineare” o “ortoscopico” (vedi l’art. n° 53).

13.2 - Le ABERRAZIONI del PUNTO – La DEFINIZIONE

Le aberrazioni del piano alterano la forma di un’immagine estesa ma non l’immagine di dettagli fini e quindi non nuocciono alla risoluzione.

Adesso ci occupiamo invece delle aberrazioni capaci di deformare l’immagine di un punto oggetto, nel senso che rendono tale immagine mai puntiforme (aberrazioni del punto). Vedre-mo più avanti (§ 18) che vi sono altri fenomeni che allargano l’immagine di un punto oggetto, ma per ora limitiamoci alle aberrazioni, legate all’ottica geometrica. Nel complesso, tali aber-razioni allargano l’immagine ideale di un oggetto senza dimensioni fino a farla diventare una macchia di forma e di profilo fotometrico assai variabile, che si può chiamare genericamente “cerchio di confusione” (considerato nelle condizioni di miglior fuoco).

Ebbene, tale “cerchio” è certamente un fattore limitante della riso-luzione.

Supponiamo per semplicità che il “cerchio” sia effettivamente circolare e che abbia bordi netti ed un’illuminazione uniforme. Consi-deriamo nella fig. 38 due di tali “cerchi di confusione” ideali, corri-spondenti all’immagine di due punti oggetto in un sistema ottico af-fetto da aberrazioni del punto.

Fig. 38 – Due punti immagine molto ravvicinati, col loro cerchio di confusione ideale, su fondo nero.

Supponiamo anche che tali punti siano risolti quando le loro immagini, cioè i due cerchi, distano di una distanza d pari ad almeno il raggio r dei cerchi stessi. Torneremo su questo cri-terio, che è ovviamente convenzionale (criterio di Lord Rayleigh), ma si può dire che esso è molto utile in pratica. Dunque, il limite della risoluzione è r, vale a dire che due punti immagine sono considerati distinguibili quando la loro distanza d non è inferiore al raggio r del loro cerchio di confusione. E allora la risoluzione diminuisce quando il cerchio si allarga a causa delle aberrazioni. Ma non è solo un problema di risoluzione.

In fotografia, si chiama “microcontrasto” l’andamento fotometrico dell’immagine di un og-getto in cui una zona buia ed una luminosa sono separate da una linea netta, senza transizioni. Se il “cerchio” avesse raggio nullo, anche in quell’immagine si avrebbe una separazione netta fra zona scura e chiara; ma su questa linea netta si sovrappone il cerchio di confusione, che la fa di-ventare “sfumata”, indecisa; si può anche dire che i punti chiari più vicini alla linea di

sepa-razione invadono la zona scura con una parte del loro cerchio di confusione, e viceversa per i punti scuri. A questo punto, nell’immagine il passaggio chiaro-scuro non è più rappresentabile con una curva a gradino, ma con una pendenza più o meno regolare. Ebbene, questo orlo sfumato abbassa la “nitidezza” o “definizione” dell’immagine, nel senso che i contorni delle varie parti dell’immagine non sono netti o “definiti”.

La definizione si può dunque pensare come espressione e misura dell’inverso del raggio del cerchio di confusione: l’una è maggiore quanto più l’altro è piccolo; e questa diviene anche la misura del complesso delle aberrazioni del punto.

Vediamo ora quali sono le cause di quelle aberrazioni e quali i rimedi disponibili. 13.2.1 - L’aberrazione cromatica longitudinale o assiale.

Questa aberrazione, come la successiva, è legata alla lunghezza d’onda della radiazione e non esisterebbe con radiazione a lunghezza d’onda unica, cioè “monocromatica”. Si è visto in-fatti, parlando della rifrazione e del prisma, il fenomeno della dispersione dell’indice e della diversa deviazione dei raggi di diversa lunghezza d’onda λ (vedi i §§ 2.3.1 e 2.4). Se dunque si usa nella formazione dell’immagine la radiazione “bianca” fornita dalla maggior parte delle sorgenti usuali, avremo un’intero spettro continuo di radiazioni entro i limiti dello spettro ottico, cioè un numero infinito di lunghezze d’onda fra 400 ed 800 nm circa (vedi il § 1.1). Per ognuna di esse avremo un diverso valore dell’indice n e quindi della potenza e della focale di ogni lente. Questa variazione della focale al variare di λ provoca una variazione della coniugata immagine, e questa è appunto la “cromatica assiale”: in altre parole, un oggetto che emette o è attraversato da “luce bianca” fornisce di sé stesso una serie infinita di immagini di diverso colore, a diversa distanza dalla lente; la distanza massima si avrà per le lunghezze d’onda maggiori (regione del “rosso”) poiché l’indice è minore e la focale maggiore; l’inverso per l’altro estremo dello spettro ottico (regione del “viola”).

Si ha dunque una successione di immagini corrispondenti ai valori di lunghezza d’onda presenti, e tale successione si chiama “spettro primario”. L’immagine appare circondata da aloni colorati nel senso che si può mettere a fuoco l’immagine “nel blu” e rimane un alone rosso (immagine sfocata) o si mette a fuoco l’immagine “nel verde” e rimane un alone porpora (rosso + blu), ecc. (vedi la fig. 76 , § 19.5.4).

Le immagini corrispondenti ai valori estremi di lunghezza d’onda distano fra loro, in dire-zione parallela all’asse, di una lunghezza che può servire di misura dell’aberradire-zione. Ma in mi-croscopia ciò che conta è raggiungere il diametro minimo del cerchio di confusione, quale si ottiene ottimizzando la messa a fuoco. Tale diametro si può anche misurare, a mezzo dello “star test” e di un micrometro oculare (vedi il § 18.4); comunque esso, per un dato sistema ed un dato stato dell’aberrazione, è proporzionale all’apertura ed indipendente dal campo, nel senso che l’aberrazione cromatica longitudinale è la stessa in tutto il campo.

La fig. 39 dà un’idea del fenomeno.

Per ridurre l’aberrazione cromatica si sfrutta la differenza esistente fra i vari vetri ottici nella curva di dispersione. Se si traccia un diagramma cartesiano con l’indice n in ordinata e λ in ascissa, e relativo ad un dato vetro, si vedrà una curva inclinata con i minimi valori di n per i massimi di λ . Tale curva illustra la legge della dispersione, cioè la funzione nλ , per quel materiale.

Ora, per diversi materiali trasparenti, la curva ha forma ed inclinazione differenti. Per esprimere sinteticamente l’andamento della curva, si adopera la grandezza “numero di Abbe” o “inverso del potere dispersivo”, indicata con la lettera greca “nu” (ν) o n minuscola:

ν = (nD – 1) / (nF – nC)

in cui compaiono tre diversi valori dell’indice, per diversi valori di λ corrispondenti a certe “righe" dello spettro solare: riga C = 656 nm (rosso); riga D = 589 nm (giallo); riga F = 486 nm (blu).

Fig. 39 – NB: i termini “viola”, “verde”, ecc. sono solo indica-tivi e non corrispondono a valori definiti di lunghezza d’onda.

Sotto: una lente semplice, non corretta, può dare un fascio convergente in cui i vari colori vanno a fuoco a diverse distanze.

Per i vetri ottici usuali, ν varia da 30 a 60; i valori minori corrispondono ai vetri più disper-sivi, più pesanti (“Flint”); i valori maggiori ai normali vetri leggeri boro-silicati (“Crown”).

Ebbene, combinando vetri con diverso potere dispersivo, è possibile ottenere sistemi conver-genti o diverconver-genti in cui la cromatica è ridotta, nel senso che i valori di focale e di coniugata coincidono per due lunghezze d’onda agli estremi dello spettro ottico (nella regione del “rosso” e del “blu”)48.

Se costruiamo una curva avente in ascissa il valore di coniugata immagine a’ (cioè la posizione di un punto immagine assiale) ed in ordinata la λ , otteniamo una curva come quella di fig. 40 in cui le rette verticali indicano valori di riferimento per a’, e si vede che a’ varia al variare di λ. In A si vede la curva relativa ad una lente semplice, non corretta: la coniugata a’ aumenta col crescere di λ; la dispersione della coniugata immagine a’ nell’ambito dello spettro

Nel documento PROBLEMI TECNICI della MICROSCOPIA OTTICA (pagine 97-116)

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