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31 due sentimenti: ‘due modi di interpretare’ a seconda del valore assegnato a di, ossia preposizione semplice o imperativo di dire, cfr. infra.

32 proferta … parlare: cfr. vv. 94-5.

145 [102] e ʼl modo anchor m’offende: che a Francesca fosse tolta la persona dal marito non la doveva offendere, se non in quel tempo nel quale le fu tolta, non essendo dolore dopo la morte; ma perché le fu tolta essendo col cognato, et subitamente senza esserle dato tempo da pentersi, in guisa che come non pentuta è dannata, il modo col quale le fu tolta la persona anchora, cioè ‘tuttavia’34, l’offende.

[105] che come vedi anchor non m’abbandona: il qual piacere non m’abbandona, et dura anchora in me dopo la morte.

[108] Queste parole da lor ci fur porte: le parole non furono porte da loro, ma da una di loro, cioè da Francesca, né si possono adattare se non a Francesca per la maggior parte. Et Dante risponde a Francesca sola: Francesca i tuoi martiri etc.35.

Da che io intesi quelle anime offense, chinai il viso, et tanto il tenni basso,

fin che il poeta mi disse: «Che pense?». 111

Quando risposi, cominciai: «O lasso, quanti dolci pensier, quanto desio

menò costoro al doloroso passo!». 114

Poi mi rivolsi a loro, et parlai io, et cominciai: «Francesca, i tuoi martiri

a lagrimar mi fanno tristo et pio. 117

Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri, a che et come concedette amore

che conosceste i dubbiosi desiri?». 120

[109] Da ch’ io intesi quelle anime offense: adunque prima non le haveva intese, né conosciute; et tanto viene adire intesi quelle anime offense quanto io intesi l’offese loro et quello che gravava loro, il che non è altro che quello che è stato detto: e ʼl modo anchor m’offende36.

[112] Quando risposi: a Virgilio.

[115] et parlai io: non lasciando parlare a Virgilio alla Francesca.

[117] a lagrimar mi fanno et tristo et pio: cioè mi danno tanta tristizia, che prendo d’essi, che ho tanta compassione di te che io ne piango. I danni del prossimo generano tristezza in alcuni havendone compassione, et si dimostra questa compassione quanto è grande anchora con le lagrime. [118] Ma dimmi, al tempo de’ dolci sospiri: questo luogo è da notare, ché in historia si conviene narrare distesamente come si sieno congiunti insieme i parenti, le persone religiose et di

34 tuttavia: ‘tuttora’, cfr. GDLI, s.v. 2. 35 v. 116.

146 rispetto. Di che, sì come di cosa non fatta sempre, habbiamo ripreso il Boccaccio in alcune novelle conciosiacosa che il lettore, sì come cosa notabile, la desideri di sapere37.

Et ella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria; et ciò sa il tuo dottore. 123

Ma se a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto,

farò come colui che piange et dice. 126

[122] Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice: questa maggioranza di dolore si truova nel ricordarsi della felicità quando la somma felicità è stata cagione dell’infima miseria, et dipende quella da questa sì come fa l’amoroso diletto de’ |c. 30r| due cognati, che si convertì in dispiacere et fu cagione di questa miseria.

[123] et ciò sa il tuo dottore: la propositione anzi posta è tanto manifesta per sé che non haveva bisogno di confermatione di testimonio o d’essempio. Né Ovidio, che nelle Trasformationi se ben mi ricorda usa questa propositione, la conferma con essempio alcuno38. Ma lasciando ciò da parte, veggiamo come sa ciò il suo dottore. Prima io vorrei sapere come Francesca riconosca Virgilio per dottore di Dante. Certo, come è stato detto, gli altri che conoscono Dante, come ser Brunetto, non conoscono Virgilio39. Ma posto che Francesca lo conoscesse, se egli sa questo o lo sa perché egli ha scritta questa sententia ne’ suoi libri, il che non è vero percioché in niun luogo si truova scritta da lui questa sententia, o lo sa perché lo pruova che essendo stato in felice stato, et di grande autorità appo Augusto, nell’altro mondo hora si truova dannato et in miseria. La qual cosa non viene a dir nulla, conciosiacosa che la felicità non fosse cagione della presente miseria, né la presente miseria è tanta che sia da reputar miseria in rispetto di quella felicità, la quale non era soprana in questo mondo, ma mezzana et comune con molti; senza che Virgilio non raccontava la sua felicità passata, sì che per la memoria si dovesse aumentare la miseria. Resta adunque che diciamo che questa confermatione è superflua, et un riempimento, et una trascutaggine, presupponendosi che Francesca conoscesse Virgilio per dottore di Dante contro quello che si doveva presupporre, et che, come intendente et anima seperata dal corpo, sappia questa propositione essere vera, la quale sa ogni mezzano intelletto di huomo.

37 Cfr. CASTELVETRO, Opere varie, pp. 111-14: «Difetti commessi dal Boccaccio nelle richieste d’amore che sono fatte

alle donne dalle persone religiose», sezione censurata dal Muratori; le osservazioni sono contenute nello Zibaldone

estense a S. 5.1 (It. 284), cc. 79r-80v.

38 se ben mi ricorda: si tratta, forse, di un ricordo sbiadito, visto che OVIDIO, Met. VII, 797-99 afferma l’esatto contrario: «iuvat o meminisse beati / temporis, Aeacida, quo primos rite per annos / coniuge eram felix, felix erat illa marito». 39 Cfr. CASTELVETRO, vv. 88-93.

147 Noi leggiavamo un giorno per diletto

di Lancilotto come amor lo strinse;

soli eravamo et sanza alcun sospetto. 129

Per più fïate gli occhi ci sospinse quella lettura, et scolorocci il viso;

ma solo un punto fu quel che ci vinse. 132

Quando leggemmo il desïato riso esser basciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso, 135

la bocca mi basciò tutto tremante. Galetto fu il libro et chi lo scrisse:

quel giorno più non vi leggemmo avante». 138

[133] il desïato riso: riso per ‘bocca’ usa anchora il Petrarca40.

[137] Galetto fu il libro: il libro fece l’ufficio verso noi in farci basciare che fece Galeotto verso Lancillotto et la reina Ginevra in fargli basciare; et chi lo scrisse: fu galeotto verso Lancillotto et la reina Ginevra; cioè quello ufficio che fece lo scrittore del libro, fece il libro41.

[138] quel giorno più non vi leggemmo avante: attendendo a scoprirsi l’amore nostro e ʼl desiderio l’un verso l’altro con parole chiare et manifeste.

Mentre che l’uno spirto questo disse l’altro piangeva sì, che di pietade

io venni men, così come io morisse. 141

Et caddi come corpo morto cade.

[139-142] L’uno spirito, cioè quello della Francesca, parlava et piangeva, percioché di sopra fu detto farò come colui che piange et dice42; et l’altro, cioè quello di Paolo, piangeva solamente, ma in modo che mosse compassione col pianto in Dante, sì che venne meno.

40 Cfr. PETRARCA, RVF CXXIII, 1 e CASTELVETRO, Rime I,p. 266: «CHE ʼL DOLCE RISO: si prende per la faccia ridente. Altrove si prende per tutta la persona. Dante, Infern. Canto V v. 133 pone Riso per la bocca».

41 Cfr. CASTELVETRO, Poetica I, pp. 489-90, dove il passo è pesantemente criticato: «il particolare, che fa riconoscere l’universale essere di certe persone, non si può trasportare in altre favole. E se questa cosa particolare vi si trasporterà, sarà meritatamente biasimata, sì come furata; … sì come fu particolare la lettura del principe Galeotto in fare riconoscere l’amore celato alla coppia d’Arimino, appo Dante. Adunque le cose particolari che operano che operano che gli accidenti non possono essere di molti, apparendo per quelle essere di certe persone, non si possono prendere dal poeta con l’universale, in fare nuova poesia, senza biasimo di furto, ma ne dee riporre dell’altre in suo luogo, le quali, secondo Aristotele, domanderemo episodi».

148 |c. 29v|

CANTO SESTO

Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pietà de’ due cognati,

che di tristitia tut[t]o mi confuse, 3

nuovi tormenti et nuovi tormentati mi veggio intorno, come ch’io mi muova

et come ch’io mi volga, et ch’io mi guati. 6

Io sono al terzo cerchio de la piova eterna, maladetta, fredda, et greve;

regola et qualità mai non l’è nuova. 9

Grandine grossa, et acqua tinta, et neve per l’aer tenebroso si riversa;

pute la terra, che questo riceve. 12 [1-2] Al tornar de la mente che si chiuse / dinanzi a la pietà de’ due cognati: pietà in questo luogo significa ‘miseria’ et ‘infelicità’, et mente significa in questo luogo ‘anima’1, la quale essendosi tutta ristretta a pensare della miseria de’ due cognati, haveva abbandonato il corpo, e ʼl corpo come del tutto abbandonato dall’anima era caduto. Hora l’anima, lasciato quel pensamento tanto fisso, ritornò a dar vigore alle membra et a sostentarle, et è da presupporre che si levasse in piedi. Dante, essendo in su la ripa d’Acheronte, s’addormentò et così addormentato fu trasportato di là dal fiume, senza destarsi, et fu tratto di barca se fu fatto passare per barca, né si dice come o perché; ma Charone et Virgilio poterono fare questo ufficio. Ma hora che è caduto come morto2, è trasportato dal secondo cerchio al terzo, né similmente si dice come o perché. Né veggo come sia da comportare |c. 30r| questa trasportanza3. Appresso è da porre mente che non si pone quale termine fosse traposto tra il secondo cerchio e ʼl terzo, cioè o argine o fosso o altra cosa seperativa.

[4] nuovi tormenti et nuovi tormentati: è di necessità sporre nuovi tormentati per ‘altri et diversi tormenti’ da quelli che erano nel secondo cerchio, percioché là era il vento con l’aer nero che era il tormento, et qui è la piova, la grandine, la neve, et Cerbero che sono i tormenti del terzo cerchio; et similmente è di necessità a sporre nuovi tormentati per ‘altri et diversi tormentati’ da quelli che sono nel secondo cerchio, percioché là erano gli ʼnamorati stemperati et qui sono i golosi

1 Cfr. GELLI, Inf. VI, 1-6: «la mente e la parte divina dell’anima nostra (ché così significa questa voce mente secondo il Poeta), non potendo operar, né intendere come si è detto più volte, senza l’aiuto de’ sensi che le sono come fenestre, resta racchiusa e serrata in sé stessa, insino a tanto che, ritornando ne’ sentimenti gli spiriti, ella può ritornar libera a far per lor mezzo le sue operazioni».

2 Inf. V, 142.

3 comportare: ‘ammettere’, cfr. GDLI, s.v. 3; trasportanza: voce non attestata in GDLI, di fatto equivalente a

149 stemperati. Et così la novità ha rispetto al secondo cerchio et non al terzo4, dove non è novità niuna, havendo rispetto a tormenti et a tormentati in esso, et spetialmente dicendo Dante regola et qualità mai non l’è nuova; et perciò non è detto con tutto quel consiglio, ché si poteva dire come ch’io mi muova et come ch’io mi volga, et ch’io mi guati convenendosi più queste parole a novità che havesse rispetto a questo medesimo cerchio che al secondo.

[5-6] come ch’io mi muova: procedendo inanzi; come ch’io mi volga: in giro o indietro; ch’io mi guati: o lontano o vicino.

[7-9] Io sono al terzo cerchio de la piova: non faceva bisogno che poi tornasse a dire acqua tinta, non essendo altro acqua tinta che la piova già descritta; eterna: che mai non cessa; maladetta: a diferenza delle piove benedette che fanno crescere l’herbe, le biade et i frutti; o maladetta ‘nociva’ et ‘punitiva’ con la sua freddezza et gravità; regola et qualità mai non l’è nuova: non è mai rimessa et regolata, et sempre ha quella medesima qualità.

[12] pute la terra, che questo riceve: questo è uno effetto della piova, della grandine et della neve che la terra pute.

Cerbero, fiera crudele et diversa, con tre gole carinamente latra

sovra la gente che quivi è sommersa. 15

Gli occhi ha vermigli, et la barba unta et atra, e ʼl ventre largo, et unghiate le mani;

graffia gli spirti, et ingoia et isquatra. 18

Urlar gli fa la pioggia come cani; de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;

volgonsi spesso e miseri profani. 21

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, la bocca aperse et mostrocci le sanne;

non havea membro che tenesse fermo. 24

E ʼl duca mio distese le sue spanne, prese la terra, et con piene le pugna

la gittò dentro a le bramose canne. 27

Qual è quel cane che abbaiando agugna, et si raccheta poi che il pasto morde,

ché solo a divorarlo intende et pugna, 30

cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che ʼntrona

l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde. 33

[13-33] Descrive Cerbero, che è un de’ tormenti degli spiriti che sono nel terzo cerchio, et lo chiama fiera, gran vermo, et dimonio. Lo chiama fiera perché ha forma di cane con tre teste, lo

4 la novità … terzo: ossia nel passaggio dai peccatori dell’antinferno agli incontinenti (stemperati), lussuriosi o golosi che siano, cfr. infra.

150 chiama gran vermo come quello che si pasce di terra come fanno i vermi5, lo chiama dimonio perché punisce i dannati che è ufficio de’ dimoni. È adunque fiera crudele in punire senza compassione e malfattori, et diversa di forma dall’altre fiere havendo tre teste.

[14-15] latra / sovra la gente che quivi è sommersa: con l’abbaiare punisce i peccatori, sì come anchora dice di sotto che ʼntrona l’anime sì / ch’esser vorrebber sorde6. La gente è detta sommersa forse sì come altrove si dice «de la prima canzon, che è de’ sommersi»7, cioè de’ posti sotterra in inferno, et forse s’ha rispetto alla gran piova che si può dire sommergere queste anime.

[16] Gli occhi ha vermigli: sanguinosi; la barba unta: chiama barba i peli del mento, li quali peli sono unti o per la bava che scola dalle bocche o per lo sangue dell’anime ingoiate et squartate.

[17] unghiate le mani: chiama mani i piedi del cane.

[18] graffia gli spirti, ingoia et isquatra: questo effetto di pena attribuisce Dante a Cerbero, il che non fa Virgilio, ma quanto bene veggaselo egli8.

[19-21] Urlar gli fa la pioggia come cani etc.: questi tre versi sono posti qui senza ragione niuna, percioché si parlava di Cerbero et della pena che egli dava all’anime del terzo cerchio; et senza cagione niuna, non havendo anchora posto fine al parlar di Cerbero, torna a parlar della pena della piova della quale doveva parlar di sopra, quando si parlò della predetta piova.

|c. 30v|

Noi passavam su per l’ombre ch’adona la greve pioggia, et ponavam le piante

sopra lor vanità che par persona. 36

Elle giacen per terra tutte quante, fuor che una ch’ascoltar si levò, ratto

ch’ella ci vide passarsi davante. 39

[34-36] adona: cioè raccoglie dentro da questo terzo cerchio et contiene. Et è detto adona per aduna, per servire alla rima9; la greve pioggia: prima si dubita perché cagione Dante faccia che egli, passando per lo ʼnferno, non fugga tutte le pene ugualmente contentandosi della vista sola et dello ʼntenderne, ma ne patisca alcuna senza dubbio come questa della piova grave, non havendo cappello da difendersene, et quella del vento che tormentava gli amanti, non havendo papafico10 che lo difendesse dalla buffera infernale, anchora che per havere il corpo non fosse rapito per l’aere dal

5 Cfr. LANDINO, ad loc.: «chiama Cerbero gran vermo, perché … pascesi di terra». 6 vv. 32-3.

7 Inf. XX, 3.

8 Cfr. VIRGILIO, Aen. VI,417-25.

9 Cfr. GABRIELE, ad loc.: «CHE ADONA, idest, aduna: ha mutato la u in o per la rima». 10 papafico: ‘cappuccio con maschera di panno’, cfr. GDLI, s.v. 1.

151 vento come loro, o come non fuggì la pena del freddo in Cocito con caldo di fuoco, o con vestimento di pelle dicendo 77 a 28 [Inf. XXXIII, 100-03] «Et avegna che, sì come d’un callo, / per la

freddura ciascun sentimento / cessato havesse del mio viso stallo, / già mi parea sentire alquanto vento». Poi si dubita perché dica et ponavam le piante / sopra lor vanità che par persona qui, et dica altrove che l’ombre non sieno vanità, 73 b 16 [Inf. XXXII, 19-21] «dicer udimmi: “Guarda come

passi: fa’ sì, che tu non calchi con le piante / le teste de’ fratei miseri lassi”» et 74 b 13 [Inf. XXXII,

76-9] «Se voler fu o destino o fortuna / non so, ma passeggiando per le teste / forte percossi il piè nel viso ad una. / Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste?”».

«O tu che sei per questo inferno tratto», mi disse, «riconoscimi, se sai,

tu fosti prima, ch’io disfatto, fatto». 42

Et io a lei: «L’angoscia, che tu hai, forse ti tira fuor de la mia mente,

sì che non par ch’io ti vedessi mai. 45

Ma dimmi, chi tu sei, che ʼn sì dolente luogo sè messa, et a sì fatta pena

che s’altra è maggior, nulla è sì spiacente». 48

Et egli a me: «La tua città ch’è piena d’invidia sì, che già trabocca il sacco,

seco mi tenne in la vita serena. 51

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola,

come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. 54

Et io anima trista non son sola, ché tutte queste a simil pena stanno

per simil colpa». Et più non fé parola. 57

[40-42] O tu che sè per questo inferno tratto, condotto dalla guida tua Virgilio essendo anchora vivo, et dovendo ritornare nell’altro mondo, et sei Dante Alighieri, riconoscimi percioché m’hai conosciuto nell’altro mondo, acciocché possi far memoria di me come hai me veduto in questo luogo. Queste cose tutte si presuppongono nelle parole di Ciacco. Hora altri, non senza ragione, potrebbe dubitare et domandare a quale segnale Ciacco havesse riconosciuto Dante esser vivo et saputo che dovesse ritornare in questo mondo, et non pur Ciacco, ma tanti altri come Charone 7 a 10 [Inf. III, 88], Philippo Argenti 17 b 9 [Inf. VIII, 33], i dimoni 18 a 30 [Inf. VIII, 84-

85], messer Cavalcante 22 b 1 [Inf. X, 58-60], Farinata 22 b 24 [Inf. X, 23], ser Brunetto 33 b 23

[Inf. XV,47], Theggiaio e i compagni 35 b 24 [Inf. XVI, 42], conciosiacosa che non sia conosciuto

senza segnale da Chirone 27 a 9 [Inf. XII, 80-2] «Sete voi accorti, / che quel di retro muove ciò che

tocca? / Così non soglion fare i piè de’ morti». Et similmente da’ frati godenti 52 b 25 [Inf. XXIII,

152 come indovini et anime seperate da’ corpi senza haver bisogno di segnale, perché i non riconoscentilo vivo senza segnale, che sono altresì anime seperate da’ corpi et per conseguente dovrebbono essere indovine, non lo riconoscono vivo senza segnale?

[42] tu fosti prima, ch’io disfatto, fatto: questo non basta a riconoscere alcuno, ma bisogna che l’habbia veduto et sia vivuto seco, percioché molti sono vivuti ad un tempo medesimo che non si conoscono per non esser vivuti in un luogo medesimo.

[46-48] Ma dimmi, chi tu sei, che ʼn sì dolente / |c. 31r| luogo sè messa etc.: infino a qui Dante non sa che gente sia questa che è tormentata in questo terzo cerchio, né per qual peccato, et non n’ha domandato Virgilio, né Virgilio gliel’ha detto. Le quali cose paiono poco verisimili, et hora ne domanda Ciacco cui non conosce; et a sì fatta pena / che s’altra è maggior, nulla è sì spiacente: Dante non ha veduta pena niuna se non quella degli sciagurati et quella degli ʼnamorati stemperati, né ha notitia anchora dell’altre, et quasi come le havesse vedute tutte et havesse piena conoscenza di tutte, dice che s’altra è maggior, nulla è sì spiacente: et come hora il sapeva egli?

[49-50] La tua città ch’è piena / d’invidia sì che già trabocca il sacco: par che habbia voluto distinguere et seperare la città di Firenze, patria di Dante, dalla città celestiale, pur patria di Dante, per esser degli eletti11, con queste parole che è piena d’invidia, non essendo la celestiale piena d’invidia, ma di carità et d’amore; sì che già trabocca il sacco: la ʼnvidia produrrà i suoi effetti che poco appresso dirà: dopo lunga tentione / verranno al sangue etc.12

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