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P Hib II 185 (riedito)

1. Prosa etno-geografica adespota

1.2 P Hib II 185 (riedito)

Provenienza: El-Hibeh ca. 280-250 a.C.

LDAB 6989 MP³ 2272

Il testo in esame, facente parte della collezione manoscritta della British Library di Londra (ove è inventariato con il nr. 2958), proviene da cartonnage e si compone di diversi frammenti di dimensioni talora assai diseguali. Il papiro fu edito per la prima (e unica) volta da Eric Gardner Turner nel 1955 nel secondo volume dei papiri provenienti da El-Hibeh1 e identificato come frammento etnografico.

Nell’editio princeps costituivano il testo sei frammenti2, che, al momento della riedizione oggetto di questo studio, si sono scoperti arricchiti di alcuni ulteriori frustoli raccolti sotto l’etichetta di «new fragments». Di questi ultimi – di cui tanto la lettura, quanto la storia appaiono piuttosto oscure e complesse – si dirà successivamente (vd. infra 84). Conviene per ora soffermare maggiormente l’attenzione sui sei frammenti presenti anche nell’edizione principe, che rappresentano senza dubbio la porzione più cospicua del testo nel suo complesso. Essi – ricomposti e accostati da Turner con l’aiuto delle fibre presenti sul retro della superficie recante scrittura – restituiscono, secondo l’editore, due o più colonne di testo apparentemente scritto contro le fibre3; per quanto riguarda quest’ultima prudente affermazione, si può dire che l’esame autoptico condotto sul papiro conferma in maniera chiara la natura transfibrale della scrittura. Vi è da osservare che non appare possibile proporre nessuna ricongiunzione tra i sei frammenti, sebbene, a questo proposito, l’immagine del papiro dia luogo ad alcune ambiguità e susciti perplessità: a giudicare dalle fotografie del testo messe a disposizione dalla British Library, la realtà fisica del testo appariva in contrasto con alcuni rilievi dell’editore principe (peraltro

1 Comunemente indicati dalla sigla P. Hib.

2 Le misure dei singoli frammenti saranno per maggior praticità apposte di volta in volta in capo alle trascrizioni dei frammenti stessi.

3 Cf. Turner 1955, 49: «parts of two or more columns of particularly brittle and abraded cartonnage, pieced together with the help of the pattern still remaining on the back. The text is written across the fibres, apparently on the verso; there is no ink visible on a clean portion of the recto».

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assolutamente condivisibili anche solo sulla base di un rapido esame a occhio nudo). Egli infatti riteneva di poter individuare il margine inferiore del fr. 1, che – come lascerebbe intendere la ricostruzione del testo quale appare dalle fotografie – sembrerebbe però doversi considerare congiunto al fr. 3. Ovviamente, si tratta di due realtà che – nel caso specifico – sono in aperto contrasto e palesemente incompatibili, a meno di non supporre l’esistenza di un prodotto librario alquanto originale e, probabilmente, senza alcun parallelo. Nella presente riedizione, anche alla luce dell’esame autoptico effettuato sul testo, si considerano – come nell’edizione a opera di Turner – senz’altro disgiunti i frr. 1 e 3. Una tale concezione del testo e dei vari frammenti che lo compongono è resa certa da alcune ulteriori verifiche rese possibili dalla cortesia del Dr Cillian O’Hogan, ‘Curator of Classical and Byzantine Studies’ presso la British Library di Londra. Diverse immagini al microscopio da lui messe a disposizione dimostrano infatti che il fr. 1 e il fr. 3 sono senza alcun dubbio da ritenersi disgiunti e semplicemente (e forse anche discutibilmente) accostati nella ricostruzione del testo quale è riflessa dalla fotografia fornita dalla British Library.

Il contenuto potrebbe essere sommariamente descritto da quanto ancora si può leggere sul r. 34, dove vi è un riferimento a ὀνομαϲτὰ καὶ ἀξι[όλογα che è possibile rinvenire presso un popolo di cui il nome non è conservato nella porzione di testo a oggi leggibile. Si parla infatti in primo luogo di animali selvatici, quindi di un complesso di edifici sui quali ci si sofferma, con l’accento che cade sulla loro ricchezza in metalli più o meno preziosi, ma anche in vino e olio; si passa poi a una descrizione che pare riferirsi a statue. Simili dati hanno portato l’editore principe a riconoscere in questo frammento un brano etnografico, probabilmente parte di un’opera che doveva coprire un’ampia area geografica. Come osserva l’editore, potrebbe trattarsi di una località orientale, Arabia o India; così almeno sembra suggerire il riferimento pressoché costante a pietre preziose. In particolare, a favore dell’ultima candidata, l’editore (Turner 1955, 50) fa notare la lista di metalli, stagno in primis, che, confrontata con il

4 La numerazione dei righi qui adottata differisce da quella di Turner, poiché rende conto di una traccia di inchiostro non registrata dall’editore, ma che pure si può vedere piuttosto chiaramente a un esame autoptico, e che identifica così la prima riga. Pertanto, in questa riedizione la numerazione di ogni singolo rigo apparirà aumentata di un’unità rispetto alla numerazione dell’edizione Turner.

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resoconto diodoreo sulle ricchezze dell’India (II 36,2)5, costituirebbe un prezioso indizio. A tal proposito, Turner (ibid.) prosegue osservando come la fonte di Diodoro non sia nota in questo preciso punto del testo; in particolare, si mette in dubbio la possibilità che Megastene sia qui la sola base di Diodoro, sulla base di quanto affermato anche da Stein nel suo articolo della RE dedicato a Megastene6. Al contrario, che la descrizione dell’India in Diodoro sia in sostanza derivata da Megastene ritiene Oldafther, editore dell’opera diodorea7. Si tornerà in sede di commento su questo punto: per ora basti notare come uno dei più recenti contributi in materia (Muntz 2012) proponga di riconsiderare la presunta pratica di utilizzo di una singola fonte da parte di Diodoro, il quale invece procederebbe ‘sezionando’ e attingendo da una pluralità di fonti per la trattazione di uno stesso argomento8. Come osserva Turner (1955, 50), ogni tentativo di identificazione dell’autore del testo che compare sul papiro non potrebbe – a maggior ragione alla luce delle considerazioni sopra esposte – che risultare rischioso e azzardato, seppur si possano mettere in campo alcuni nomi tutto sommato plausibili: Ctesia (in particolare, lo Ctesia degli Indika), e appunto Megastene o suoi contemporanei (Daimaco, Onesicrito, Nearco). Anche sul problema dell’attribuzione si tornerà in maniera più dettagliata in sede di commento (vd. infra 77-84).

Per quanto concerne l’aspetto paleografico, l’editore (1955, 49s.) osserva che «the hand is medium-sized, quickly-written ugly angular capital, approximating to the type of business hand seen in P. Enteux. I (Plate I) of 259 B.C., and is to be dated to about the same period. It is certainly not later than Philadelphus»; il range cronologico proposto è pertanto compreso tra il 280 e il 250 a.C. Per quanto l’unica immagine disponibile di P. Enteux. 1 sia quella della tavola pubblicata nell’edizione di riferimento, citata anche da Turner, di qualità

5 Per una generale descrizione dell’India, cf. Diod. Sic. II 35-42. 6 Cf. Stein 1931, 230-326.

7 Cf. Oldfather 1953, vii: «Book II, 35-42 is devoted to a brief description of India which was ultimately derived from Megasthenes. Although Diodorus does not mention this author, his use of him is established by the similarity between his account of India and the Indica of Arrian and the description of that land by Strabo, both of whom avowedly drew their material from that writer».

8 Secondo l’autore, questo fenomeno si può a maggior ragione constatare proprio nel caso del resoconto sull’India, grazie alla sopravvivenza di altre fonti aventi il medesimo oggetto (Strabone e Arriano). Il racconto di Diodoro sarebbe in questo punto – a parere di Muntz (2012, 21) – debitore soprattutto nei confronti di Eratostene.

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insufficiente ai fini di un puntuale controllo paleografico lettera per lettera, non vi è tuttavia alcun dubbio che P. Enteux. 1 costituisca un parallelo assolutamente calzante per P. Hib. II 185; si potrebbe citare a tal proposito almeno un altro tra i documenti datati a questo periodo, ossia P. Petr. I IV 9, datato tra l’anno 31 e l’anno 30 di Tolomeo II, dunque sostanzialmente contemporaneo di P. Enteux. 1, datato all’anno 27 dello stesso sovrano. Il primo (ossia P. Petr. I IV 9) potrebbe apparire, in un confronto con P. Hib. II 185, meno simile del secondo, ma l’osservazione di alcune singole lettere (epsilon, lambda, my, ny, omicron, pi, sigma, tau, ypsilon) non lascia dubbi sulla legittimità di un tale accostamento. Del resto, a consentire l’attribuzione del manufatto al III sec. a.C. non è solo il parallelo con documenti esattamente datati, ma anche e soprattutto la presenza di caratteristiche per così dire standard delle scritture di quest’epoca. Si potrà citare a questo riguardo in primo luogo un fatto generale quale la profonda distanza che spesso è possibile misurare nella realizzazione dei singoli glifi: secondo le affermazioni di Guglielmo Cavallo (2005, 75), infatti, «nell’articolazione della maiuscola greca, ad una stessa classe stilistica appartengono le scritture del III sec. a.C. caratterizzate dalla differenza modulare dei segni, con alternanza tra lettere larghe (soprattutto alpha, my, ny, pi, tau) e lettere strette o piccole (in particolare epsilon, sigma, omicron, theta)». In secondo luogo, quando si scenda in un’analisi più dettagliata delle forme delle singole lettere, appariranno evidenti le seguenti caratteristiche proprie delle scritture non librarie del III sec. a.C.: «with regard to the forms of individual letters in documents of the third century, the most characteristic are Α, Μ, Ν, Π, Τ, Υ and Ω […]. M, as described above, has a very shallow curve between two nearly perpendicular strokes; N frequently has its final upright stroke carried up far above the line; Π is either broad and low or rounded into an almost semi- circular curve; T is almost always without the right-hand portion of its cross-bar, being written with a single stroke of the pen; Y generally has a large loop, carried further to the left than to the right; while Ω habitually has its second loop represented by an almost or quite straight line. These characteristics are, no doubt, most apparent when the writing is least careful and formal; but few documents of the period are without some of them […]. Hence the writing of this century, free and flowing though it often is, is rarely very ornamental […]; an unprejudiced comparison of it with the hand of the succeeding centuries will

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show that, at least in the specimens hitherto known, it is inferior in regularity and handsomeness» (Kenyon 1899, 38). Tali caratteristiche si possono ravvisare senza difficoltà anche in P. Hib. II 185 – che pure non è un documento – anche se, sempre a parere di Kenyon (1899, 63), «between the literary hands which have hitherto been described, and the non-literary hands of the same period, there is no very marked resemblance». Tuttavia, tale affermazione non è da ritenersi sempre e comunque valida: prima di tutto, P. Hib., pur presentando un contenuto di carattere letterario, potrebbe non essere stato vergato in una scrittura libraria per così dire ‘formale’, ma in una scrittura più ‘quotidiana’ e dunque più vicina a quella documentaria9; secondariamente, altri paralleli – di nuovo nel novero dei P. Petr. – possono essere addotti come esempi di testi letterari che, da un punto di vista paleografico, devono essere più opportunamente assimilati a documenti contemporanei per ammissione dello stesso Kenyon (1899, 63s.), che cita a tal proposito P. Petr. I X e XXV, entrambi frammenti retorici. In definitiva, si deve senz’altro accogliere e confermare la proposta di datazione avanzata dall’editore principe del testo.

Trascrizione diplomatica Fr. 1 cm 11.2 x 14.5 ↓ . . . . ] [ ] ] ανονομαϲτακαιαξι[

9 Questa riflessione, ovvia se si vuole ma fondamentale, è così formulata sempre da Kenyon (1899, 56): «nor can all manuscripts which contain literary works come properly into consideration here [ossia nel capitolo dedicato ai papiri letterari del periodo tolemaico], since some of them are not written in formal book-hand at all, but in the ordinary private or non-literary hand of the day». Lo stesso Turner (cf. supra 32) ha del resto sottolineato la scarsa, per non dire nulla grazia della scrittura in cui è vergato P. Hib.

35 ]ππ ϲτ αραγριοιε[ 5 ] εϲουθε ϲτοιϲαλ[ ] τ ϲ ] τεϲοιμε εϲωθενπω[ι ] [±2] νχρυϲοιοιδεεξω ε [ ] εκαιοικιαϲμεϲτα[±1]ε[ 10 ] φ[±1]αλωναργυρωνκαιετερα[ ] αχαλκεωνκαιετ[±4]οι [ ] μ α ποικιλωνι [±1] ιω [ ] τρ αϲιματιωνπ [ ] [±2] ι[±3]ωματωνπαντοδαπ[ 15 ] νδε[±2]ικαϲϲιτεροϲκαιχαλκοϲ[ καιϲιδηροϲϲιτουδεκαιοινουκαιελ[ πληθοϲεντοιϲταμιοιϲτοιϲβαϲιλ[ τοϲουτονοϲονανειποιαντιϲοϲε[ λογονψευδηα εουκαντ [ 20 γ[±3] μ αρετερ [ ] [±3] α ατεκα[ ] κα [±2] απερκαιοιβ [ ] ϲιν

∥1 Come già accennato (supra n. 4), si ritiene di poter scorgere chiare tracce – forse effettivamente più d’una, anche se nella trascrizione si è scelto di segnalare, in via prudenziale, l’unica che appare certa – appartenenti ad un primo rigo di scrittura, non registrato dall’editore principe. ∥2 Non pienamente condivisibile la trascrizione di Turner – ]ονα – limitatamente alle primissime tracce che si possono vedere su questo rigo: in primo luogo, sembra di poter intravvedere (e pertanto di dover segnalare) un’ulteriore traccia prima delle tre trascritte dall’editore; secondariamente, pare di dover respingere la lettura omicron di Turner, a favore di un più compatibile, seppur non certo, epsilon. La presente trascrizione e quella di Turner divergono anche per quanto riguarda la parte finale del rigo: non sembra infatti in nessun modo dall’editore. L’esame autoptico ha portato a ipotizzare un omega, forse seguito da una lettera che per sua morfologia si estenderebbe al di sotto del rigo di scrittura; il confronto con altre lettere con queste caratteristiche presenti sul papiro non è però risultato illuminante. Pare dunque che ci si debba limitare all’indicazione di semplici tracce non meglio identificate. ∥3 La lettura alpha è certa (non un’ulteriore traccia. Da notare inoltre, su questo rigo, la difformità che mostrano i due ny. ∥4 Il

rigo si apre con due pi ἵ ϲ: non vi è

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convincente nemmeno la lettura ο dopo i due pi: di omicron non è possibile scorgere nulla, a causa di un’apparente abrasione delle fibre superficiali recanti scrittura. Nell’apparato, Turner (1955, 53) nota: «ἵ ϲ or ἱ ῖϲ may be read». A seguire, una debole traccia, forse di iota, può essere scorta. Infine, per quanto riguarda questo rigo, vi è forse da segnalare un uso peculiare delle parentesi quadre: l’editore utilizza qui alcuni sottopunti entro parentesi quadre in riferimento a una porzione del testo fisicamente conservata, ma danneggiata e tale dunque da consentire il riconoscimento di singole tracce, ma non la loro identificazione in quanto lettere. Altrove (r. 1 secondo la numerazione dell’editio princeps), entro le quadre è indicato il numero di lettere presumibilmente mancanti in corrispondenza di una lacuna materiale. Io ho preferito limitare l’uso delle quadre a casi quali quest’ultimo, dove cioè manca fisicamente la superficie scrittoria (e non è perciò ovviamente possibile scorgere nulla di quanto inghiottito dalla lacuna, ma solo avanzare ipotesi in merito), indicando invece con sottopunti (o con segni del tipo ±x) qualunque traccia d’inchiostro anche solo minimamente visibile, seppur collocata in un luogo del testo dove la superficie scrittoria è talmente danneggiata da non consentire la certa identificazione di una sequenza più o meno lunga di segni10. ∥5 Dopo la sequenza θε vi è una serie di lettere la cui decifrazione è resa pressoché impossibile dal fatto che la superficie è in parte abrasa, in parte perforata. Si può ragionevolmente ipotizzare, come emerge dalla trascrizione, un numero complessivo di sei tracce, ma occorre tenere presente la dimensione estremamente variabile dei glifi (che pertanto potrebbero anche essere qui in numero leggermente inferiore o superiore). ∥6 Rigo di lettura abbastanza difficile. Da notare la terza lettera: se la sua identificazione come pi fosse corretta, esso apparirebbe qui in una realizzazione piuttosto diversa dalle restanti presenti sul papiro – si prenda ad esempio la medesima lettera al r. 4 o al r. 12. La trascrizione qui proposta concorda con quella di Turner, ad eccezione della sequenza che precede la lettura βαϲ

leggere χων. Il confronto con altri chi (rr. 8, 11, 15) potrebbe non risultare del tutto dirimente, ma occorre tenere presente la scarsa omogeneità di cui lo scriba dà prova anche nella realizzazione del medesimo modulo, e, principalmente, il fatto che all’esame autoptico la lettura

chi risulta, tra le possibili, quella maggiormente compatibile con la traccia. ∥7 Anche in questo caso la trascrizione qui presentata coincide perlopiù con quella dell’editore principe. Si segnala, nella parte finale del rigo, la lettura (certa) di Turner τω[ di contro a quella qui adottata, seppur che farebbe pensare al tau di Turner, è altrettanto vero che sembra di poter scorgere parte di un ulteriore tratto verticale che identificherebbe invece un pi. ∥8 A differenza di Turner, la cui trascrizione prende avvio dalla prima lettera certamente leggibile ny, mi pare di scorgere prima ulteriori tracce, come risulta dalla mia trascrizione. Della parte finale del rigo, collocata in corrispondenza di una sezione piuttosto danneggiata del supporto, non è stato possibile leggere – nemmeno in fase di autopsia – la sequenza θεναργ (ad eccezione di epsilon) riconosciuta e trascritta da Turner. ∥9 Per la parte iniziale del rigo, nella trascrizione qui proposta sono segnalate quattro tracce di inchiostro non registrate da Turner, la cui trascrizione inizia di fatto dalla prima lettera ben visibile, che egli identifica con un sigma (sottopuntato) preceduto da una parentesi quadra, come se prima di esso vi fosse una vera e propria lacuna. Anche in questo caso si è preferito segnalare le tracce che sembrano potersi vedere ancorché deboli, seguite da un espilon

(in luogo del sigma di Turner). ∥10 Turner indica, nella propria trascrizione, due sottopunti prima del phi abbastanza chiaramente leggibile; in questa trascrizione, effettuata prima sulla base dell’immagine e in questo punto confermata dal successivo esame autoptico, le tracce che si possono qui scorgere sembrerebbero più compatibili con una sola lettera (che però non è purtroppo possibile identificare). ∥11 Turner identifica la prima traccia come residuo di un omega

(sottopuntato); qui si è preferito trascrivere alpha, seppur incerto. Dopo questa lettera Turner inserisce tra parentesi quadre un ny frutto di integrazione, poiché in questo punto la superficie scrittoria appare abrasa al punto da aver determinato la scomparsa totale non solo della lettera,

10 Così intende l’uso delle quadre Orsolina Montevecchi (1973, 65): «Nella trascrizione si usano i seguenti segni: Lettere illeggibili di cui si può stabilire il numero approssimativo: oppure — 4 — oppure ±4. Lacuna, in cui sono perite lettere delle quali si può stabilire il numero approssimativo: [ ] oppure [— 4 —] oppure [±4]». Così Turner (1968, 70) sull’uso delle parentesi: «square brackets [ ] enclose what is lacking from the papyrus […]. The approximate number of letters that cannot be read is given either by a precise number of dots (I prefer them set below the line) or a figure such as ±5 (or say [— 5 —])».

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ma anche di una sua eventuale traccia. Come ultima lettera visibile sul rigo, Turner trascrive un

kappa con sottopunto: si tratta di una lettura senz’altro compatibile con la traccia d’inchiostro a cui essa si riferirebbe, ma nella trascrizione diplomatica si è preferito mantenere un semplice sottopunto, poiché la traccia in esame potrebbe per sua morfologia appartenere – in linea di principio – a qualunque lettera che presenti un analogo tratto verticale (e dunque rho, iota). ∥12 ϲ ὰϲ. L’unica lettura che pare sufficientemente certa, all’interno di questa sequenza, è quella di alpha (che potrebbe effettivamente essere seguito da sigma, il quale apparirebbe qui in una versione piuttosto ridotta, fatto che comunque alla luce delle più generali considerazioni di carattere paleografico svolte sopra non stupirebbe particolarmente. Si preferisce qui tuttavia mantenere un più prudente sottopunto). Per quanto riguarda invece ciò che precede alpha, è probabile che vi sia un my. A differenza di Turner, ci si limita per questo punto – salvo che per le lettere my e alpha, della cui lettura si è dato conto sopra – a trascrivere sottopunti a segnalare le tracce visibili. Nella parte finale del rigo, la trascrizione qui proposta è in sostanziale accordo con quella di Turner. Si noterà che la lacuna presente su questo rigo dovrebbe, secondo la proposta (altamente plausibile) d’integrazione dell’editore e secondo i rilievi paleografici, ospitare la parte finale di my, un alpha e la parte iniziale di un tau. Al rigo superiore si supponeva invece, per una lacuna di pressoché identica estensione, la presenza al suo interno di ben quattro lettere perdute. Ciò si può spiegare, oltre che con la diversa morfologia delle singole lettere coinvolte, con la più volte ricordata varietà che si può di frequente constatare nella realizzazione dei vari glifi. ∥13 La trascrizione qui proposta si differenzia da quella di Turner limitatamente alla parte finale del rigo, ove l’editore trascrive ῶν. L’ultima lettera di fatto abbastanza chiaramente leggibile è pi, senza che sia in alcun modo possibile identificare le lettere successive, delle quali si scorge solo la parte che poggia sulla linea di scrittura. ∥14 Per l’editore il rigo inizia con una lettera perduta in lacuna a sinistra della quale si conserverebbe – come di tutta evidenza per i cinque righi sottostanti – il margine sinistro; tuttavia, a sinistra di questa lacuna e della lettera in essa presumibilmente perduta, vi è una traccia d’inchiostro minima, ma ben visibile (di cui si rende conto in questa

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