IL SETTORE ENERGETICO
Tab 1 Paesi ordinati in base alla quota % sulla produzione manifatturiera mondiale al
129 In testa alla classifica la Cina è saldamente al primo posto con un balzo di 22 punti percentuali in poco più di 10 anni e di 16 punti solo negli ultimi cinque con una quota al 30,3%. Distanziati sia gli Stati Uniti, al secondo posto con il 14,3%, che il Giappone, al terzo posto con una quota del 7%. Gli emergenti continuano a correre e dal confronto dell‟andamento delle quote dei paesi avanzati e dei Bric si evince come la caduta dei primi, passati complessivamente, solo negli ultimi cinque anni, dal 54,4% al 39,3%, sia speculare all‟ascesa dei secondi.
Per l‟Italia il quadro che viene mostrato è quello di un crollo repentino del settore secondario. Se nel 2000 il peso sulla manifattura mondiale era del 4,2% e nel 2007 del 4,5%, nel 2013 la quota è scesa ad un misero 2,6%. Sempre riferendoci ai dati dello studio del Csc, è proseguita la massiccia erosione della base produttiva: dal 2001 al 2013, la crisi ha fatto perdere al Paese circa 1 milione 160 mila occupati e bruciato oltre 120 mila fabbriche.
Sono menzionati anche quei settori in cui Fortis e Becattini conferivano dinamicità e prosperità negli anni Novanta, visti oggi come comparti in crisi d‟identità. Nella produzione made in Italy crollano infatti l‟industria dei computer e macchine per ufficio; inoltre il Csc definisce „quasi azzerata‟ la manifattura dei tabacchi , „più che dimezzate‟ l‟elettronica e il comparto automobilistico. Male anche il settore tessile, prossimo al 50% della produzione pre-crisi, così come la pelletteria ed il legno. Marciano positivamente ed hanno retto alla crisi meglio di tutti solo il settore alimentare, in crescita del 7,2%, e l‟industria cartaria.
Ulteriore conferma della tesi di declino industriale ci arriva dallo studio del 2008 di Mediobanca-Unioncamere110, che, in riferimento alla crisi dei settori del made in Italy, recita testuali parole:
„‟..il manifatturiero italiano però in 10 anni si è profondamente trasformato perdendo terreno anche in settori tradizionalmente appannaggio del Made in Italy: tra il 2001 ed il 2011 infatti, il tessile ha perso il 27,8% di siti produttivi, fabbriche e il 41,9% di forza lavoro. Peggio ha fatto l‟abbigliamento la cui flessione è stata pari al 31,6% in termini di stabilimenti e al 37,6% di occupati. L‟industria dei prodotti in metallo perde quasi il 20% di fabbriche e 130 mila addetti mentre un vero crollo lo registra il settore mobili che mette a segno un doloroso -40% di siti produttivi e 55 mila occupati in meno, circa il 27%..”
130 Le difficoltà incontrate dalle produzioni tipiche del made in Italy risentono in parte anche della crisi del distretto come modello organizzativo dell‟attività industriale.
Il distretto produttivo tradizionale, che ha svolto fino agli inizi degli anni Duemila un ruolo importante di trascinatore dello sviluppo dell‟economia italiana, appare un sistema fortemente legato alle attività di trasformazione manifatturiera, e questo di per sé non è un aspetto negativo, ma a volte mostra di essere un po‟ lento nel riposizionarsi rispetto alle profonde trasformazioni che stanno caratterizzando l‟economia mondiale. La globalizzazione ha infatti messo a dura prova la tenuta dei distretti industriali manifatturieri, provocando inevitabilmente dei rimescolamenti nei processi di produzione e di sviluppo, ed accentuando l‟importanza del rapporto tra attività economiche e territorio. Inoltre, il modello operativo - organizzativo dei distretti non è più prerogativa dei sistemi produttivi locali con caratterizzazione strettamente manifatturiera, ma si è diffuso in molti altri settori: agro- alimentare, high tech, turismo, cultura, ecc. 111
La specializzazione nei settori tradizionali e a bassa tecnologia, che ha consentito l‟affermarsi dei distretti sui mercati internazionali negli anni Settanta, è la stessa ragione che a partire dagli anni Duemila ne ha determinato la crisi. I settori maturi nei quali si colloca la produzione dei distretti sono infatti caratterizzati da una lenta dinamica della domanda e, poiché tra gli anni ‟70 e ‟80 le esportazioni delle imprese italiane avevano raggiunto una quota di mercato pari al 50 - 60% dei mercati occidentali112, si è giunti ad una fase di saturazione. Sul terreno dei beni per la persona e per la casa, base della produzione dei distretti, le famiglie preferiscono oggi merci e servizi standardizzati, meno costosi e di medio- bassa durevolezza, prodotti da grandi multinazionali (si pensi, nel settore dell‟arredamento, al fenomeno IKEA). Alla crisi di domanda si affianca una crisi del segmento geografico dovuta ad un calo degli acquisti nel mercato dell‟Europa Occidentale e del Medio Oriente, sbocchi tradizionali delle produzioni dei distretti nazionali. Contestualmente, i processi di liberalizzazione dei mercati mondiali avviatisi a partire dal 1995 in ambito OMC, costringendo la stessa Comunità Europea ad abbassare molte delle sue barriere protezionistiche, hanno consentito l‟accesso nei mercati europei delle produzioni dei Paesi di nuova industrializzazione, avvantaggiati dai bassi costi produttivi.
111 D. Schilirò, I distretti industriali in Italia quale modello di sviluppo locale: aspetti evolutivi, potenzialità e
criticità, Vita e pensiero, Milano, 2008.
112 Dati contenuti nell‟intervista a G. Garofoli, professore di Economia dell‟Università Insubria di Varese,
131 A tali fenomeni di carattere congiunturale si affianca la carenza strutturale delle imprese distrettuali nell‟attivazione di forme di esportazione „evoluta‟, fondate cioè sui trasferimenti di unità produttive e sulla creazione di canali diretti commerciali nei Paesi che costituiscono mercati di sbocco o in Paesi nei quali è possibile la produzione a costi più vantaggiosi.
Il crollo repentino dell‟industria italiana nel periodo post-crisi sembra però non aver intaccato le tesi di alcuni studiosi sulla forza competitiva dei distretti industriali.
E‟ sempre Fortis113
a sostenere che non sono i distretti ad essere in crisi, ma spesso lo sono i settori manifatturieri in cui essi operano: tessili, mobili, calzature. Le difficoltà che l‟Italia sta attraversando non sono avvertite nella stessa misura anche nel resto dell‟Europa, perché gli altri Paesi europei hanno abbandonato molti settori manifatturieri, in cui l‟Italia è ben presente e mostra, pur tra le difficoltà, vitalità e voglia di competere, cercando di trasformarsi per adeguarsi alle mutate condizioni dei mercati.
In un recente intervento presso la Confindustria di Bergamo,114 Fortis ha provato a difendere le peculiarità industriali italiane ed ha tentato di dare una lettura dei dati macroeconomici in un‟ottica maggiormente positiva rispetto agli analisti mainstream. Egli sostiene che la manifattura italiana è ancora la seconda d‟Europa e la quinta al mondo per valore aggiunto. E la sua analisi vede l‟Italia, secondo l‟indice del commercio mondiale, prima al mondo per competitività in tre settori: tessile, abbigliamento, pelli-calzature; è peraltro seconda dopo la Germania in altri tre settori: meccanica non elettronica, manufatti di base (cioè metalli, ceramiche, ecc.) e altri prodotti manufatti (cioè occhialeria, gioielleria, articoli in materie plastiche).
Si potrebbe affermare che il made in Italy non è più solo cibo, moda e mobili, ma trova la propria identità soprattutto nella meccanica. In questo settore, che è sorretto da un‟importante filiera metallurgica e dei prodotti in metallo, il surplus italiano con l‟estero è il terzo al mondo dopo quelli di Giappone e Germania. Secondo l‟indice Fortis-Corradini115 elaborato dalla
113 M. Fortis, Le due sfide del made in Italy: globalizzazione e innovazione. Profili di analisi della seconda
conferenza nazionale sul commercio estero, Il Mulino, Bologna, 2005.
114
M. Fortis, Competitività e debito: una rappresentazione diversa dell’Italia, Confindustria Bergamo, 26 Febbraio 2014.
115
Si tratta di un algoritmo con il quale è possibile misurare istantaneamente e con elevato livello di dettaglio, il numero dei prodotti in cui un Paese è primo, secondo o terzo esportatore mondiale. L‟indice si basa sulle informazioni statistiche tratte dalla banca dati sul commercio internazionale dell‟Onu e prende come riferimento i 5.517 prodotti della disaggregazione a 6 cifre della classificazione HS 1996 che suddivide in modo estremamente dettagliato il commercio internazionale. La prima analisi è stata avviata dalla Fondazione Edison nel 2008.
132 Fondazione Edison, su circa 5.000 prodotti, l‟Italia è risultata prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l‟estero in quasi 1.000 prodotti.
Inoltre Fortis afferma: “Se l‟industria italiana va indietro non è perché non sia competitiva o esporti poco, infatti il fatturato estero italiano corre. Se l‟industria italiana è in crisi è perché l‟eccessiva austerità ha spento la domanda interna di consumo e di investimento. La UE ha confuso la crisi di credibilità politica dell‟Italia con una crisi di «fondamentali» economici ed ha chiesto al nostro paese di applicare una cura fiscale «greca» assolutamente sbagliata nel nostro caso perché il debito pubblico italiano non era, né è oggi, così pericoloso da richiedere una politica fiscale restrittiva ed aggressiva come quella che è stata applicata in questi ultimi due anni e perché non si può chiedere ad un importante paese produttore come l‟Italia di mortificare per un lungo tempo la propria domanda interna e di investimento, perché si mortifica così la stessa produzione e si distrugge capacità produttiva, innescando una pericolosa crescita della disoccupazione”.
L‟analisi di Fortis, se da un lato mette in risalto problematiche di politica economica depressive per i consumi interni, dall‟altro forse pone troppa enfasi su quei pochi settori che riescono a sopravvivere soprattutto per via di una forte vocazione all‟export. Le teorie sui distretti industriali e sul made in Italy hanno forse nel tempo perso la propria incisività, per via delle diverse problematiche prima menzionate che hanno influito su un declino industriale palese e che ormai sembra inarrestabile.
Anche se le vicende politico-economiche che dagli anni Settanta fino alla fine dei Novanta hanno accompagnato la vita del nostro Paese non lasciavano di certo presagire ad un periodo di sviluppo, era comunque possibile trovare una certa dinamicità in diverse tipologie di settori, non necessariamente appartenenti ai distretti industriali. Il presente lavoro infatti conferisce la performance economica migliore del periodo 1996-2000 al settore farmaceutico, non facente parte del circuito del made in Italy.
Di certo la ricerca non ha mostrato risultati esaltanti per l‟industria in genere; ex-post, conoscendo quanto avvenuto nell‟ultimo decennio, si può concludere affermando che nella seconda metà degli anni Novanta stavano semplicemente covando i germi di una successiva ed imminente distruzione della base industriale, forse più devastante di quella che de Cecco ipotizzava nei suoi scritti.
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