IL SETTORE ENERGETICO
6.5 Una panoramica finale
La configurazione dello stato patrimoniale evidenzia come il settore sia contraddistinto da una smisurata predominanza dell‟attivo immobilizzato rispetto all‟attivo corrente e alle fonti necessarie per la sua copertura. Ne risulta quindi una situazione di possibile insolvibilità nel breve periodo, come testimoniato appunto dall‟indice di liquidità secondaria.
La composizione degli impieghi è quindi non equilibrata, caratterizzata da un insufficiente grado di elasticità.
Si rileva un quoziente di indebitamento elevato, sinonimo di una situazione patrimoniale fortemente squilibrata che espone il settore a rischi di insolvenza più che certi qualora si verifichino ipotesi di rallentamento delle vendite o contrazione della domanda (gli alti valori assunti dal Ros possono provare tale assunto). Un quoziente di indebitamento che però, per via dei bassi tassi che le imprese del settore riescono a spuntare sul mercato per finanziarsi, consente ancora di ricorrere al capitale di terzi con un effetto di leva finanziaria positivo sul Roe. 0,00% 2,00% 4,00% 6,00% 8,00% 1996 1997 1998 1999 2000 ENER
Graf. 18 – Differenziale Roi-Rod del settore energetico nel periodo 1996-2000. (in %)
126 Nel periodo 1996-2000 il settore energetico appare ancora redditizio e piuttosto efficiente dal punto di vista del „capitale umano‟ impiegato in azienda.
A spingere in alto il valore del Roe è un continuo aumento del margine delle vendite a cui corrisponde un non proporzionale aumento dei costi diretti e indiretti di produzione (i prezzi- ricavo superano quindi abbondantemente i prezzi-costo).
Miglioramenti dovrebbero essere apportati al valore del Roi, agendo sulle attività in cui le aziende del settore sono impegnate in modo continuativo e consuetudinario, e generare un flusso di reddito maggiore grazie all‟area prettamente operativa.
In generale il settore denota una situazione reddituale quasi ottimale, non accompagnata da una medesima ideale situazione finanziaria, che mostra una certa sottocapitalizzazione del settore in genere. Il capitale proprio è infatti insufficiente alla copertura degli impieghi di lungo periodo, e quindi un ruolo importante è svolto dai capitali di credito di lungo termine. Ma, come visto, nonostante il settore riesca ancora a finanziarsi a tassi alquanto convenienti, le aziende che lo compongono risulterebbero insolventi anche nel medio-lungo periodo nel caso di mutamenti improvvisi dello scenario economico e di mercato.
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CONCLUSIONE
Nei capitoli precedenti si è avuto modo di notare quanto complesso sia dare conclusioni nette riguardo l‟industria italiana della seconda metà degli anni Novanta. L‟analisi realizzata attraverso i dati Mediobanca ha contribuito a metter luce soltanto a quella che è una minima parte del panorama industriale italiano, basandosi inoltre su alcune tipologie di imprese che riuscivano in quegli anni a soddisfare determinati criteri dimensionali e di fatturato. E‟ scontato che tralasciare le dinamiche della piccola e media impresa, soprattutto per quel che riguarda i distretti, comporta distorsioni rispetto al pensiero della letteratura, così come può portare a conclusioni contrastanti riguardo la tesi di crescita diseguale portata avanti nel lavoro.
Se sugli anni Novanta è stato detto abbastanza, può risultare interessante un confronto di più lungo periodo, in modo da verificare se effettivamente nei nostri giorni si sia assistito o meno al „declino industriale‟ previsto nei decenni precedenti. E soprattutto esaminare se i distretti rappresentano tuttora un modello industriale vitale e competitivo.
In Italia si vive da diversi anni in una fase di bassa crescita economica ed anche di transizione politico-istituzionale, di cui però non si è ancora riusciti a stabilire un epilogo chiaro e ben definito. Il sentiero di sviluppo industriale italiano, fortemente caratterizzato dalla presenza e dal contributo dei distretti, è apparso a molti osservatori107 caratterizzato da varie criticità: anzitutto, la dimensione media delle imprese troppo piccola rispetto a quella degli altri Paesi (sia UE che extraeuropei). In secondo luogo, la scarsa intensità di ricerca e sviluppo (R & S): l‟Italia è infatti fra i Paesi europei che destinano una quota molto modesta alla ricerca (1,16% del Pil), lontana da quel 3% fissato dall‟Agenda di Lisbona. Pesa anche la vulnerabilità energetica che comporterà in futuro una necessaria diversificazione delle fonti e dei fornitori. Obbligatorio menzionare la concorrenza asimmetrica di Cina e di altri Paesi emergenti. A queste criticità si potrebbero aggiungere: calo della domanda interna, asfissia nel credito, aumento del costo del lavoro slegato dalla produttività, un utilizzo tuttora relativamente contenuto delle nuove tecnologie ICT soprattutto nelle piccole imprese, il basso grado di
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Il declino industriale è stato trattato negli anni Duemila da economisti, istituzioni finanziarie, Autorità pubbliche, ecc. Racchiudere in poche righe una letteratura così sterminata risulta improbabile, per cui ci si limita a suggerire alcune letture sul tema: L.Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Milano, 2003, P. Giovannini, La sfida del declino industriale. Un decennio di cambiamenti, Carocci, Roma, 2006, E. Brancaccio, M. Passarella, L’austerità è di destra: e sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano, 2012.
128 istruzione di molti imprenditori, l‟esigua presenza di imprese italiane nei settori strategici e ad alta tecnologia, il posizionamento di molte imprese distrettuali in settori a tecnologia medio- bassa, e soprattutto il peso di un settore tradizionale come il tessile. Un settore, quello tessile, che subisce la forte concorrenza delle imprese cinesi e dei paesi asiatici, le quali in genere hanno costi molto più bassi. Inoltre il settore tessile nel suo insieme ha un peso in termini di quota di prodotto e di occupazione sproporzionato rispetto ad altri settori più innovativi, e molte delle imprese tessili non appartengono al circuito di qualità del „Made in Italy‟108
. A conferma di quanto affermato finora giunge il prezioso contributo del Centro Studi Confindustria109 (Csc), che ha delineato un quadro molto specifico sulla manifattura e sul commercio mondiale. Come si può vedere nella tabella 1, il Csc ha confrontato la produzione manifatturiera a livello globale per il periodo 2000 – 2013, evidenziando il peso percentuale del settore secondario delle principali potenza industriali sul totale della manifattura.
108 G. Mingione, R. Nasti, S. Pugliese, Distretti industriali e competizione internazionale, XIII Master in Local
Development, Università degli studi di Padova, 2006.
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Centro Studi Confindustria, In Italia la manifattura si restringe, in Scenari industriali, n. 5, giugno 2014