«Senza Paolo Fresu non ci sarebbe il festival, ma il festival senza Berchidda e i berchiddesi non esisterebbe neppure, e neanche Paolo Fresu, che in un certo senso è figlio di Berchidda e della banda».
Attraverso queste parole Giuseppe, berchiddese e “musicante” nella banda, esprime oggi un sentire comune molto diffuso tra la gente del paese, che in questo modo, da un lato stabilisce un nesso di paternità e continuità tra la cultura musicale di Berchidda e il talento artistico di Paolo Fresu, che di quella cultura è ritenuto la massima espressione. Dall’altro, ribadisce il legame inscindibile stabilitosi tra il Time in Jazz e il contesto locale, rappresentati dal territorio e dalla comunità di Berchidda. In tal modo il successo del festival viene considerato un risultato dell’intera collettività, anche da parte di coloro che non vi partecipano direttamente.
Questo senso di appartenenza al festival e la consapevolezza che il Time in Jazz, la figura di Paolo Fresu e il paese di Berchidda siano i tre aspetti interrelati che costituiscono la chiave di volta dell’unicità e del successo del festival Time in Jazz, per i berchiddesi è un’acquisizione che è maturata nel tempo. Fresu, invece, lo ha dichiarato da sempre in molteplici occasioni.
54 Cfr. Middleton, 1994; Fabbri, 2001; Chambers, 2003; Lomax, 2005; Shipton, 2011.
55 Sulla ricezione dei prodotti dell’industria culturale in relazione alle preferenze dei ceti sociali
popolari, borghesi e aristocratici cfr. Bourdieu, 1983; Moores, 1998 (in particolare per un confronto con l’opera di Bourdieu, La distinzione, le pp. 7-24, 203-242.
«Io sono convinto che questo festival non avrebbe avuto tutto questo successo se non fosse stato fatto a Berchidda. La stessa manifestazione con gli stessi artisti fatta a Roma, a Milano, o anche in un altro paese della Sardegna, probabilmente non avrebbe avuto la stessa riuscita. No, secondo me non possono vivere l’uno senza l’altro. Poi c’è stata una convergenza di cose che sono: uno, che ero io che l’avevo inventato; due, che io venivo da Berchidda; tre, che io ero un musicista, in quel momento lì neanche troppo conosciuto, tutto sommato, parliamo del 1988» (Paolo Fresu, 2011).
Fresu, artista nomade e cosmopolita, parla spesso del suo forte legame con il paese in cui è nato e con la Sardegna. Questa è la ragione fondamentale per la quale, nonostante le difficoltà attraversate in venticinque anni di storia del festival, il musicista non abbia mai accettato di spostare la manifestazione altrove.
«Per me ha un significato, è un modo di essere vicino al mio paese e alla mia terra. (…) Ho partecipato a tanti festival di jazz in giro per il mondo, ma poche volte mi è capitato di vivere esperienze simili a quella di Berchidda. Mi rendo conto, e facciamo di tutto perché sia sempre così e perché questa realtà non si snaturi mai. Helen Merril, ad esempio, è stata letteralmente presa da New York e portata da noi e, successivamente, riaccompagnata all’aeroporto destinazione Stati Uniti. È arrivata all’improvviso in un paesino di tremila anime che puoi abbracciare con uno sguardo. Tutto si svolge lì con gli incontri con gli altri musicisti ed artisti, con gli anziani del paese che ti invitano al bar comunicando con te in improbabili lingue attraverso le quali, in realtà, ci si comprende benissimo. È come se qualcosa di inspiegabile, di magico, serpeggiasse tra la gente e nelle strade; forse anche nell’atmosfera, indefinibile, che ogni anno cala in quei giorni a ridosso di ferragosto.
Un’altra ragione è la sfida. Voler mettere in piedi un appuntamento internazionale in un luogo e in un’isola apparentemente isolati. Ma, probabilmente, il vero motivo per cui è nato e continua questo festival è di portare il jazz, la mia vita, dove sono nato e a persone, i miei paesani, che non conoscono questa musica. È un modo di farmi conoscere.
Non trascurerei, infine, anche un elemento legato allo sviluppo territoriale: fare in modo che a Berchidda e tutte le zone limitrofe abbiano un ritorno culturale ed economico. L’Associazione “Time in jazz” che presiedo può contribuire a dare un futuro ai giovani della zona…il problema, comunque, abbraccia tutta la Sardegna che ha bisogno di avere progetti nati e cresciuti nei suoi luoghi. I seminari internazionali del jazz di Nuoro, dei quali sono direttore artistico e docente, per me è un’altra realtà importante per seminare qualcosa in quest’isola che ha un potenziale creativo enorme e giovani curiosi, affamati di musica e di conoscenza» (Fresu in Gravante, 2004, p. 39)56.
Il percorso umano, artistico e intellettuale di Fresu parte dal paese in cui è nato e si riflette nel festival; rappresenta dunque il filo conduttore da cui partire per comprendere la nascita, i caratteri e gli sviluppi del Time in Jazz.
Paolo Fresu nasce a Berchidda nel 1961 in una famiglia agropastorale. Sua madre è casalinga, suo padre, come molti pastori isolani, è poeta, scrittore
56 Il volume di Enzo Gravante, Paolo Fresu “La Sardegna, il jazz, dal quale ho tratto questo brano,
dilettante e studioso della lingua sarda logudorese. Attualmente Fresu collabora con il padre alla redazione di un vocabolario sardo-italiano nella variante logudorese di Berchidda; continua a parlare e a pensare in sardo, come dichiara, e scrive anche una versione in logudorese delle presentazioni del festival Time in Jazz.
«Pensare in sardo ‒ ha dichiarato il trombettista ‒ significa suonare in sardo, fondamentalmente. (…) Il mio pensare sardo mi pone, dal punto di vista sonoro, in un rapporto preciso con la musica che non è quello degli americani (…), non è quello degli inglesi, non è quello dei francesi e non è neanche quello degli italiani. Per me pensare in sardo significa avere il mio rapporto con la tonalità, in senso generale, che non è lo stesso di chi parla un’altra lingua» (Fresu in Onori, 2006, p. 15).
Nella famiglia di Fresu non ci sono musicisti, ma a Berchidda è facile entrare in contatto con la musica ed è raro che in casa non sia presente uno strumento musicale. A casa sua, come racconta Fresu, a nove anni cominciò a suonare la tromba lasciata in casa dal fratello che si era iscritto al corso della banda, e che aveva poi abbandonato quando entrò in seminario.
«Lo ricordo come fosse ieri. La vecchia Orsi aveva una custodia nera foderata di velluto rosso e odorava dell’olio per i pistoni. Io la guardavo rapito. Avrò avuto si e no nove anni: mi portai il bocchino alle labbra e dopo un paio di tentativi ottenni qualche suono decente. In poco tempo riuscii a scoprire le posizioni e a individuare le note corrispondenti. (…) Da allora la tromba diventò il mio strumento e difficilmente me ne separavo. Di giorno la portavo in campagna per esercitarmi e la sera andavo ad ascoltare le prove della banda musicale Bernardo De Muro diretta da su mastru Tiu Bustianu Piga e sognavo di entrare a farne parte.
Conoscevo tutti i componenti e sapevo a memoria ogni marcetta e aria d’opera, dalla Lucia di Lammermoor fino all’Aida, da Topolino a Pianti e fiori, Lacrime e Mesto ricordo. Li seguivo in tutte le occasioni, e a dieci anni mi iscrissi finalmente alla scuola della banda con il sogno di suonare fra le sue fila. (…)
Le lezioni di musica si tenevano non lontano dalla piazza del paese, in uno stanzone con una luce al neon che ci sparava negli occhi. C’era anche un biliardino con cui noi ragazzi giocavamo nei momenti di pausa. Gli strumenti penzolavano senza custodia alle pareti, appesi agli attaccapanni di legno, ed emanavano un odore forte, uno strano misto di metallo, olio e sudore, che mi stregava» (Fresu, 2011, pp. 34-35).
I ricordi di Paolo Fresu ci introducono nell’ambiente musicale della banda di Berchidda e nelle suggestioni, prima ancora che negli apprendimenti, che esso poteva suscitare in un ragazzo della sua età, con una forte propensione e un interesse precoce per la musica.
«Una delle domande che mi vengono poste più spesso è come mai sono diventato musicista di jazz crescendo in un paesino come Berchidda e in una famiglia come la mia di contadini e pastori. (…) So che le cose non sono mai casuali e che obbediscono a un pensiero preciso e a un percorso logico e rigoroso che è sostenuto da passione, umanità e dedizione. Allora rispondo che non sarei diventato jazzista se a Berchidda non ci fosse stata la banda musicale e se i miei genitori non fossero stati saggi e appassionati di musica» (Fresu, 2011, p. 33).
La banda Bernardo Demuro fu fondata nell’estate del 1913 da un comitato di berchiddesi del quale faceva parte il parroco di allora Don Pietro Casu. Prese tale nome in onore del tenore di Tempio Bernardo Demuro, la cui nonna aveva origini berchiddesi. Nel paese la banda è un’istituzione carica di significati. Gode di un grande prestigio per la sua longevità e per aver suonato in importanti occasioni di fronte a sovrani e pontefici: dal Re Vittorio Emanuele III al Presidente della Repubblica Antonio Segni al Papa Giovanni Paolo II nel 2000, in occasione del Giubileo, e nel 2003, sempre in Vaticano. Oggi tale prestigio risulta accresciuto dal fatto che «tra i suoi allievi illustri» figura appunto Paolo Fresu, e dal fatto che lo stesso musicista abbia inserito da tempo la banda Bernardo Demuro nel programma del festival «riprendendo il suo posto», come dicono i suoi colleghi bandisti. Il trombettista inoltre, sottolineano i componenti della banda, quando si trova in paese si unisce al gruppo per la processione di Pasqua o in altre occasioni.
Questi ultimi due aspetti hanno contribuito non poco, prima alla legittimazione di un festival che per diversi anni aveva trovato il consenso e l’appoggio solo di una parte della popolazione; in seguito, alla costruzione di una pressoché piena identificazione tra il Time in Jazz e gli abitanti del paese, per i quali oggi il festival e Paolo Fresu costituiscono un motivo di orgoglio, come emerge dal racconto di Ninnio Fresu. Lui e Giuseppe Casula sono i musicanti attivi più longevi della Bernardo Demuro: Ninnio ha ottantadue anni e Giuseppe 81. Suonano in banda da sessantotto anni, ma per loro la musica e la banda sono ancora fonte di emozioni.
«Quando abbiamo suonato a Castelgandolfo io ero in posto d’onore, mi ha dato molte emozioni. Il papa Giovanni Paolo II ha fatto il discorso e ha detto: “ringrazio la banda musicale di Berchidda”. Le ragazze piangevano, si vede anche nel quadro che abbiamo nella sala di musica. Ne abbiamo un sacco di queste fotografie, vecchie, nuove, le stanno cercando per il centenario. Sono cose belle quelle, eh! Quando siamo andati a Sala Nervi ho appoggiato la grancassa lì, nella Basilica di San Pietro, vicino agli strumenti con la scritta Berchidda. Passavano i turisti, per lo più erano tedeschi o americani. Guardavano la scritta
e dicevano: Berchidda!, Time in jazz!, Paolo Fresu! Lì, a Roma, nella basilica di San Pietro, puoi immaginare, io ero gonfio di orgoglio! Paolo è bravo, però se è arrivato lo deve anche alla banda musicale e non lo dimentica, perché gli piaceva stare con noi. Ogni tanto, quando è a Berchidda, a un tratto lo vedi che viene a suonare in banda con noi. A Pasqua, se suoniamo alla processione ed è qui, viene a suonare. Io per scherzo gli ho detto: quest’abitudine non va bene. Alle prove non vieni, però a suonare! Figuriamoci…» (Ninnio Fresu, 2012, traduzione dal sardo logudorese).
Il Paolo Fresu artista famoso che suona nella banda Bernardo Demuro come uno tra i tanti consolida l’immagine del musicista che si pone sullo stesso piano di eguaglianza con gli altri suonatori e, nello stesso tempo, contribuisce a rafforzare il valore della banda stessa come istituzione culturale e sociale. Il comportamento di Fresu ha da un lato, un valore pedagogico e simbolico molto forte, dall’altro costituisce forse uno dei maggiori collanti tra il festival e il paese. I musicanti57 e, più in generale la popolazione di Berchidda percepisce questo fatto non tanto come un annullamento della distanza professionale che separa l’artista dal resto dei componenti, quanto come un annullamento della distanza sociale tra il musicista ora famoso e i vecchi compagni di un tempo insieme ai quali ha appreso i primi insegnamenti musicali e ha condiviso un periodo importante della sua formazione individuale e sociale. Anzi, l’enfasi posta sia dai componenti della banda, sia dai berchiddesi, sul successo artistico di Fresu, rafforza tale percezione, poiché maggiore è la sua fama e tanto più acquista significato il riconoscimento pubblico del valore della banda come istituzione e contesto nel quale si sono consolidati legami e affetti dei quali, il trombettista come persona, dimostra l’importanza.
Ciò assume un rilievo simbolico anche per i giovani musicisti di Berchidda, per i quali Fresu rappresenta un modello, come esortazione a proseguire il percorso intrapreso nella banda o ad avvicinarsi ad essa e allo studio della musica con serietà e impegno, perché la sua carriera di artista è l’esempio più esplicito del fatto che un talento coltivato anche in un piccolo centro di quella che viene considerata una “periferia” del mondo, può crescere e affermarsi a livello internazionale.
57 Nel corso della ricerca diversi musicisti appartenenti alla banda si sono definiti come «musicanti»
come per differenziare il loro status e la loro condizione professionale di non professionisti rispetto ai musicisti di professione.
Le esibizioni della banda Bernardo Demuro assumono dunque significati diversi per il pubblico formato da persone del posto e per quello composto da turisti e suscitano differenti emozioni, anche se l’atmosfera della festa che la musica della banda intende creare risulta coinvolgente per tutti.
Per i turisti che assistono ai concerti mattutini della Bernardo Demuro quando si esibisce al fianco di famosi musicisti sui monti del Limbara, quando tiene il concerto di mezzanotte a Funtana inzas con Paolo Fresu che suona nella banda sotto la direzione del maestro, o che accoglie altri musicisti che arrivano in treno alla stazione del paese, la banda rappresenta una delle espressioni della cultura locale. La presenza di Fresu che suona tra le sue fila pone ulteriormente in risalto il nesso, che per alcuni aspetti lo stesso musicista stabilisce, tra il jazz e questa espressione della musica popolare.
Alla mia domanda su come si inserisca la banda cittadina nel contesto del Time in Jazz, Fresu afferma:
«Direi che si inserisce bene, perché Time in Jazz è un Festival che coinvolge la comunità locale, in cui si sta sempre molto attenti a garantire questo rapporto corretto tra la familiarità del luogo, anche la promiscuità dell'artista con il pubblico, le Chiese ecc., e quella professionalità però che è necessaria in un grande palcoscenico. É importante ma allo stesso tempo poi è quel carattere che fa sì che Time in Jazz fatto in un altro luogo non avrebbe sicuramente lo stesso tipo di successo, e non ci sarebbe sicuramente la stessa atmosfera. In questo senso l'unica realtà musicale che c'è a Berchidda è quella della banda, e quindi non può essere che la banda non sia coinvolta all'interno di questo percorso, spesso con repertorio ad hoc. Io chiedo alla banda possibilmente di pensare al tema del Festival e di costruire un repertorio rispettivamente a quello» (Paolo Fresu, 2012).
Luciano Demuru ha sessant’anni e dirige la banda da due anni; vi è entrato quando ne aveva dodici. Dalla sua testimonianza e da quella di altri musicanti emerge come il rapporto tra la banda Bernardo Demuro e il Time in Jazz costituisca un motivo continuo di dibattito e di riflessione comune all’interno del gruppo, riguardo al suo futuro e alla sua stessa identità. L’attuale direttore riferisce in questi termini il senso che per Fresu riveste la partecipazione della banda al festival:
«Noi ci troviamo, non spesso, però ci troviamo a parlare di questo argomento con lui, con Paolo. E lui ci tiene in modo particolare alla presenza della banda. Lui dice che la banda non deve essere in funzione del Time in Jazz; no, la banda deve restare come entità
musicale autonoma, con le sue espressioni di banda musicale. Quale che sia! Se vuole interpretare un pezzo classico, quella è banda; se vuole interpretare un pezzo moderno, quella è banda! Se vuole interpretare jazz, perché ci sono tutti gli arrangiamenti per tutti gli organici, sia di pochi elementi, sia di molti elementi, naturalmente con un diverso grado di difficoltà, a seconda anche della musica che si fa. E di questo dovremo occuparcene noi che dirigiamo. Cioè non sottoporre gli elementi a espressioni musicali che non sono in grado di sostenere. Però Paolo vuole fortemente…ha detto: io ci tengo che voi ci siate! Non preoccupatevi di che cosa fate, voi fate quello che sapete fare nella rassegna jazz» (Luciano Demuru, 2012).
Luigi Onori ritiene che alcuni importanti jazzisti italiani che si sono affermati negli anni Ottanta e che hanno intrapreso un percorso di rinnovamento nell’ambito del jazz italiano ed europeo, «provengono da regioni “periferiche” (Sardegna, Puglia, Sicilia, Friuli-Venezia Giulia) rispetto ai maggiori transiti jazzistici, aree che, però, hanno un retroterra di musica bandistica piuttosto consistente». Oltre all’esempio di Paolo Fresu, il critico musicale cita il trombettista Pino Minafra, nato a Ruvo di Puglia, che «ha portato nella sua estetica strumentale umori acri ed ironici, colori ed impasti timbrici che giungono alla rimessa in gioco dell’organico bandistico». Nel suo album La Banda, del 1997, Minafra ha dedicato una sezione alla «traditional Italian banda» e un’altra nella quale la Banda Città Ruvo di Puglia suona con importanti jazzisti europei ed italiani. Questa strada, tuttavia, ricorda Onori, è stata aperta dal polistrumentista, arrangiatore e compositore Eugenio Colombo, il quale, durante la rassegna Clusone jazz ha realizzato il progetto Sorgente Sonora, che vedeva la banda civica Giovanni Legrenzi confrontarsi con un gruppo di solisti improvvisatori (Onori, 2006, pp.17-18). Eugenio Colombo ha riproposto una versione di Sorgente Sonora, denonimata secondo la traduzione in sardo Sa ‘ena sonora, e realizzata con la banda di Berchidda, durante l’edizione di Time in Jazz del 1991 intitolata Prove d’autore.
Giuseppe Casula, mentre ricostruisce gli inizi della partecipazione della banda al Time in Jazz, pone in rilievo le difficoltà incontrate da lui e da altri componenti dell’organico, nell’interpretazione di un genere musicale che non faceva parte del loro retroterra sonoro.
«Quando iniziò il Time in Jazz Paoletto era già inserito. E gli venne il ghiribizzo, come banda, di insegnarci la musica jazz. Io dico la verità: noi, abituati all’orecchio della musica classica e anche della musica leggera, avevamo difficoltà quasi a comprenderla la musica
jazz, a interpretarla. Infatti io dicevo: mah! Questo quando c’era Tore Grixoni maestro. Il primo concerto lo facemmo in Piazza Rossa. Quest’accidente di musica jazz: c’erano quattro note, per dire, no, e non riuscivamo ad interpretarla, a prenderla; la suonavamo come note però dovevi dargli il suo colore, altrimenti è inutile che ti metti a cantare stonato se la canzona è bella e tu non la conosci! Allora Tore diceva: “possibile, sono quattro note in croce e non riusciamo a farle”. E Paoletto diceva: “ci riuscirete, piano piano, provando…”. In ogni caso arrivò il giorno del concerto. C’erano professionisti: un batterista che aveva Paolo, poi un chitarrista e altri, e si infilarono in mezzo a noi. Facemmo un concerto che quasi non ci credevamo che ci saremmo riusciti». (Giuseppe Casula, 2012, traduzione dal sardo logudorese)
Luciano Demuru spiega in questo modo la distanza manifestata dai berchiddesi nei confronti della musica jazz, specie nei primi anni della rassegna e l’interesse mostrato oggi verso di essa da molti giovani componenti della banda:
«Paolo ha voluto fortemente che ogni anno a Berchidda ci fosse una rassegna jazz. Sicuramente lui ha lottato con l’espressione popolare della musica di Berchidda, perché la presenza del berchiddese, soprattutto ai primi concerti era minima. Poi è cresciuta, ma