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Tra paradiso e inferno: i “riti della buona morte”

SECONDA PARTE

2.4 Tra paradiso e inferno: i “riti della buona morte”

I “riti della buona morte” (rinjū gyōgi 臨終行儀) furono un fattore fondamentale nella diffusione dell’amidismo nel Giappone medievale257. Praticati quasi sempre da hijiri, o da monaci comunque

esterni all’ortodossia dei templi258, ruotavano attorno al concetto di rinjū shōnen 臨終正念, la

“giusta concentrazione nell’ultimo istante”: era convinzione diffusa che questo fosse un prerequisito imprescindibile per assistere, in punto di morte, al raigō 来迎, ossia la discesa di Amida, circondato dalla sua coorte di bodhisattva, per accompagnare il moribondo nel suo paradiso259. Dato che la “nascita nella Terra Pura” (ōjō 往生) era equiparata allo stadio di non-

retrocessione sulla Via del bodhisattva, si pensava che morire con la propria mente fissa sull’immagine del Buddha liberasse il fedele, una volta per tutte, dalla ruota del saṃsāra e gli garantisse il raggiungimento della buddhità260. In aiuto al morente, veniva caldeggiata la partecipazione al rito di chishiki 知識, monaci o parenti che supportavano e supervisionavano la prestazione del fedele261.

Tre furono gli eventi seminali che portarono, negli anni ottanta del X secolo, alla sistematizzazione dei “riti della buona morte”: la diffusione dell’Ōjōyōshū; la formazione sul monte Hiei della Nijūgo zanmaie 二十五三昧会 (“Associazione per il samādhi di venticinque [persone]”), un’associazione religiosa di monaci tendai che s’impegnavano ad assumere vicendevolmente il ruolo di chishiki sul letto di morte; la compilazione, da parte di Yoshishige no Yasutane 慶滋保胤 (?-1002), della prima raccolta di ōjōden 往生伝 del Giappone262.

257 Jacqueline I. STONE, “By the Power of One’s Last Nenbutsu. Deathbed Practices in Early Medieval Japan”, in PAYNE, TANAKA (a cura di), Approaching the Land of Bliss…, cit., pp. 77-79.

258 “Introduction”, in Mariko NAMBA WALKER, Jacqueline I. STONE (a cura di), Death and the Afterlife

in Japanese Buddhism, Honolulu, University of Hawai‘i Press, 2008, p. 6.

259 STONE, “By the Power of One’s Last Nenbutsu…”, cit., p. 77. 260 Ivi., pp. 77-78.

261 Ivi., p. 84.

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La struttura del rinjū gyōgi descritta nell’Ōjōyōshū guadagnò rapidamente seguito nei circoli monastici, venne diffusa tra la nobiltà e il popolo263 e funse come base per numerosi manuali scritti nei secoli successivi264. Tra gli elementi che ricorrono con maggiore frequenza: il moribondo va condotto in una cappella separata dalla sua abitazione, in modo che la vista di luoghi famigliari non susciti in lui attaccamento; deve essere coricato con il viso rivolto a ovest, direzione da cui dovrebbero giungere Amida e la sua coorte, e va spronato a recitare con costanza il

nenbutsu265; parenti e monaci devono fare altrettanto266, bruciando incenso e tenendosi pronti a

pulire il congiunto da vomito, orina ed escrementi267; davanti al morente va posta una statua del Buddha con cinque nastri colorati a unire la mano dell’uomo a quella dell’immagine268.

Contemporaneamente ai “riti della buona morte”, cominciarono a diffondersi nel Paese anche gli

ōjōden, biografie a scopo didattico di individui che, grazie alla giusta concentrazione nel momento

finale, avevano ottenuto la rinascita nel Gokuraku jōdo269. I protagonisti di questi racconti non erano necessariamente “sant’uomini”: oltre a nobili, monaci, letterati, molte sono le storie dedicate a hijiri, laici comuni, donne, macellai, guerrieri di alto e basso rango270 - personaggi, questi ultimi, che gli autori non si fanno scrupoli a definire akunin 悪人, “persone malvage”, colpevoli di numerose azioni peccaminose, in primis l’uccisione di esseri viventi271. È il caso di Minamoto no Yoriyoshi 源頼義 (988-1075) che, nonostante “il numero di teste che ha tagliato ed esposto” sia oltre la possibilità di calcolo, rinasce nella Terra Pura grazie alla recitazione all’ultimo del nenbutsu272.

263 Jacqueline I. STONE, “With the Help of ‘Good Friends’. Deathbed Ritual Practices in Early Medieval Japan”, in NAMBA WALKER, STONE (a cura di), Death and the Afterlife in Japanese Buddhism, cit., p. 61.

264 STONE, “By the Power of One’s Last Nenbutsu…”, cit., p. 83. 265 Ivi., p. 80.

266 WEINSTEIN, op. cit., p. 511.

267 STONE, “By the Power of One’s Last Nenbutsu…”, cit., p. 80.

268 UNNO Taitetsu, “The Practice of Jodo-shinshu”, in Living in Amida’s Universal Vow…, cit., p. 67. 269 STONE, “By the Power of One’s Last Nenbutsu…”, cit., p. 94.

270 Ivi., p. 90.

271 STONE, Right Thoughts at the Last Moment…, cit., p. 181. 272 STONE, “By the Power of One’s Last Nenbutsu…”, cit., p. 96.

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L’attenzione crescente data alle figure di bushi negli ōjōden, a partire dal tardo periodo Heian e per tutto il periodo Kamakura, testimonia la necessità percepita dai monaci amidisti di offrire una possibilità escatologica a una classe che, per obbligo professionale, uccideva animali durante la caccia e uomini sul campo di battaglia. Atti che, dal buddhismo kenmitsu, erano reputati profondamente turpi273.

Elemento fondamentale, tanto nei manuali per il rinjū gyōgi quanto nelle raccolte di ōjōden, è il peso decisivo riconosciuto al “momento esatto della morte” nel determinare il destino post mortem del fedele. Per Genshin, ad esempio, nonostante l’importante ruolo di supporto svolto dai chishiki, la responsabilità della rinascita nella Terra Pura cade per intero sul morente274; come scrive nell’Ōjōyōshū: “Questa singola riflessione al momento della morte ha più importanza del karma accumulato in cento anni”275. Morire con fede ferma, fissando mentalmente l’immagine di Amida,

era considerato una garanzia di rinascita nel suo paradiso276. È un istante liminale che trascende l’ordinario calcolo di merito e colpa, in cui un’intera vita di peccato può essere ribaltata e anche un malvagio può rinascere nella Terra Pura (akunin ōjō 悪人往生)277. Un concetto dall’enorme potenziale liberatorio, che crea una radicale frattura non solo con i valori della società e i codici morali, ma anche con l’efficacia stessa della pratica religiosa nella vita quotidiana278. Come

sottolinea Massimo Raveri:

Si delineò con chiarezza l’idea che proprio quel momento finale dell’esistenza fosse, nella sua unicità, particolare e decisivo, tanto da poter creare una discontinuità con l’esistenza trascorsa e ribaltare tutto il destino di un uomo, portandolo, anche dopo un vissuto di male e di illusioni, alla liberazione del paradiso. Così la pratica della buona morte, che era stata disegnata come la parte finale e coerente di un quotidiano esercizio di preghiera, di meditazione e di azioni meritorie lungo l’arco di una vita, prese a significare la possibilità di un momento di svolta, ultima e radicale, di

273 Ivi., pp. 95-96; RAVERI, op. cit., p. 326.

274 STONE, “By the Power of One’s Last Nenbutsu…”, cit., pp. 84-86.

275 “This single reflection [on the Buddha] at death outweighs the karmic acts of a hundred years” (STONE, “With the Help of ‘Good Friends’…”, cit., p. 61).

276 STONE, Right Thoughts at the Last Moment…, cit., p. 182. 277 STONE, “With the Help of ‘Good Friends’…”, cit., pp. 61-62. 278 STONE, “By the Power of One’s Last Nenbutsu…”, cit., pp. 94-95.

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conversione, e venne ad assumere una sua fisionomia originale, un suo ruolo decisivo e autonomo, nel processo di salvezza.279

Tuttavia, questa concezione, con le sue immense possibilità soteriologiche e l’incertezza del suo ottenimento, gettava i fedeli in una profonda ansia per il pericolo che vi era insito280: così come un individuo profondamente malvagio poteva ottenere la salvezza grazie a uno slancio di fede dell’ultimo istante, allo stesso modo una persona virtuosa poteva annullare i meriti di una vita intera e condannarsi alla rinascita in uno dei livelli inferi (jigoku 地獄), il tutto per una semplice distrazione o un istante di mancata fiducia in Amida281. I manuali per il “rito della buona morte” elencavano i rischi che insidiavano la rinascita nella Terra Pura di tutti i fedeli, anche i più rigorosi: i dolori della dissoluzione del corpo, lo stato di squilibrio mentale, la perdita di coscienza, i persistenti pensieri di attaccamento, le interferenze demoniache282.

Nell’era del mappō, né una pratica religiosa assidua283, né un approccio “quantitativo” (cantare

milioni di volte il nenbutsu)284, potevano garantire al fedele la forza per resistere al “vento

dell’agonia della morte” (danmatsuma no kaze 断末魔の風)285. Anche gli ōjōden non erano

d’aiuto in questo frangente; nota infatti Jacqueline Stone:

In reading […] deathbed accounts, one cannot help but be struck by how profoundly they differ from ordinary modes of dying. In these stories, death never takes anyone by surprise. Facing their end, ōjōnin are never frightened, angry, or tormented by regrets but are rather calm and joyfully expectant. They do not leave behind unresolved business. In their last hours, they do not writhe or cry out in pain, rave in delirium, lapse into coma, or soil their bedding. Their deaths are nothing short of an impeccably timed and exquisitely choreographed ritual performance.286

Morire di morte violenta o tra i dolori atroci di un male incurabile, in uno stato d’incoscienza o di delirio, erano paure fondate nell’epoca della degenerazione della Legge, a cavallo tra periodo

279 RAVERI, op. cit., p. 345.

280 STONE, Right Thoughts at the Last Moment…, cit., p. 4. 281 STONE, “With the Help of ‘Good Friends’…”, cit., p. 62. 282 STONE, Right Thoughts at the Last Moment…, cit., pp. 264-265. 283 Ivi., p. 264.

284 STONE, “By the Power of One’s Last Nenbutsu…”, cit., p. 100. 285 Ivi., p. 89.

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Heian e Kamakura. Come vedremo negli ultimi due capitoli, quest’ansia portò a conseguenze estreme che caratterizzeranno il rapporto tra guerrieri e religione fino alla seconda guerra mondiale.