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1.6 “Uno sguardo da Forze Alleate”: critiche a Brian Victoria

Prescindendo dall’importanza che ebbe l’uscita del lavoro di Victoria e dall’impatto sul mondo buddhista, Zen at War e, soprattutto, gli studi successivi dell’autore vennero fortemente criticati dal punto di vista metodologico. Nell’introduzione a Zen War Stories (2003), pensato come complemento al saggio del 1997, lo studioso americano dichiara:

78 VICTORIA, Zen at War…, cit., pp. 26-27.

79 Brian VICTORIA, “A Buddhological Critique of ‘Soldier-Zen’ in Wartime Japan”, in Michael JERRYSON, Mark JUERGENSMEYER (a cura di), Buddhist Warfare, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp. 125-126.

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No doubt some readers will take offense at what they perceive as my “moralistic” if not “judgmental” stance. In contemporary academe it often seems that “detached (if not indifferent) objectivity” is the only acceptable stance for the academic author to adopt.81

Per poi ribadire, in apertura all’articolo A Buddhological Critique of ‘Soldier-Zen’ in Wartime

Japan (2010), pubblicato nel volume Buddhist Warfare:

I am well aware that […] I expose myself to the charge that I have left the realm of “objective scholarship” to pursue a partisan agenda. In one sense, that charge is accurate […].82

Questo è effettivamente il cardine attorno a cui ruotano la maggior parte delle critiche rivolte al lavoro di Victoria: il suo “sguardo da Forze Alleate”83. Lo studioso, per sua stessa ammissione,

giudica (e spesso condanna) i pensatori del Giappone imperiale usando, come termine di riferimento, una moralità moderna, progressista e “occidentale”, che all’epoca dei fatti narrati non aveva corso neanche nella stessa entità convenzionalmente chiamata “Occidente”. Questo punto verrà approfondito nell’ultimo capitolo della trattazione; per ora ci si limiti a sottolineare come Victoria dichiari di pronunciarsi su questi personaggi basandosi esclusivamente sui loro scritti e sulle loro azioni, “come farebbe Buddha”84: un termine di paragone moralmente ineccepibile, ma discutibile dal punto di vista della metodologia accademica. Un riferimento con cui, tuttavia, Victoria si trova evidentemente a proprio agio, dato che si sente in dovere di precisare, senza apparente ironia: “[…] I do not know in what state, or even if, the protagonists in this book will be reborn”85. Robert Aitken (1917-2010), monaco americano e fondatore dell’associazione

Buddhist Peace Fellowship, è puntuale nel criticare la parzialità di una simile presa di posizione:

[…] Victoria writes in a vacuum. He extracts the words and deeds of Japanese Buddhist leaders from their cultural and temporal context, and judges them from a present-day, progressive, Western point of view. The Japanese emperor has historically been at the center of Japanese society and all authority, however it has been delegated, has derived from him. Until the end of World War II, Japanese subjects were clearly Japanese first, and Buddhist—or whatever—second. They

81 VICTORIA, Zen War Stories, cit., p. XIV.

82 VICTORIA, “A Buddhological Critique…”, cit., p. 105. 83 IVES, op. cit., p. 3.

84 VICTORIA, Zen War Stories, cit., p. XV. 85 Ibidem.

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understood the will of the emperor to be their karma. Only a handful of Japanese could spring from such pervasive influence, and Victoria is harsh in judging the overwhelming majority who could not.86

Altro punto critico dell’opera di Victoria è la tendenza essenzialistica a postulare l’esistenza di un “autentico” buddhismo, riconducibile direttamente agli insegnamenti del Buddha Śākyamuni, a fronte del quale ogni elaborazione successiva non può che essere una “distorsione”87. Sotto

osservazione è soprattutto lo Zen, che lo studioso arriva a definire, per la vicinanza ai potenti dimostrata nel corso della storia, “de facto pappone e prostituta dello Stato”88:

I critique this involvement [la partecipazione degli zenisti alla guerra del Pacifico] on the basis of what are generally recognized as the core teachings of Buddhism. […] I come to the conclusion that, by virtue of its fervent if not fanatical support of Japanese militarism, the Zen school, both Rinzai and Sōtō, so grievously violated Buddhism’s fundamental tenets that the school was no longer an authentic expression of the Buddhadharma.89

O, come espresso con più chiarezza in un’intervista a Christopher Stephens: “I will go so far as to say that institutional Zen Buddhism in Japan is not Buddhism”90.

Questo presupposto porta lo studioso ad attaccare non solo personaggi quali Sugimoto Gorō e Yamazaki Ekijū come privi di “onestà intellettuale e integrità personale”, seguaci di una fede “che nulla ha a che fare con il buddhismo”; ma anche un maestro del XVII secolo, celebre e celebrato, quale Takuan Sōhō, secondo lui incapace di comprendere anche i più basilari insegnamenti del Buddha storico, e il cui insegnamento andrebbe rigettato come “non buddhista”91.

Ma Victoria non si limita a lanciare i propri strali sullo Zen: nel prosieguo della trattazione, è l’intera corrente Mahāyāna a essere condannata senza appello:

86 Robert AITKEN, “Yasutani Roshi: The Hardest Koan”, in Tricycle, 1999,

https://web.archive.org/web/20120203233539/http://www.tricycle.com/feature/yasutani-roshi-hardest- koan?page=0,2, data ultima consultazione: 14 aprile 2018.

87 METRAUX, op. cit., p. 75.

88 VICTORIA, “A Buddhological Critique…”, cit., p. 128. 89 Ivi., p. 105.

90 METRAUX, op. cit., p. 75.

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My own position is to […] identify[…] sūtras […] as later Mahāyāna accretions to the

Buddhadharma having as one of their aims the transformation of the absolute prohibition of killing

(in early Buddhism) into something more acceptable to Buddhism’s later patrons—the empire- building monarchs and the war-prone states they headed.92

È Bernard Faure, accademico franco-americano, a sottolineare, nella postfazione allo stesso

Buddhist Warfare, l’inconsistenza di simili posizioni: il concetto di “buddhismo” è un’entità

elusiva; più corretto sarebbe affermare l’esistenza di molti tipi di discorso buddhista, che non dimostrano d’avere tra loro una così solida “essenza” comune93.

[…] I find it more difficult to follow him [Victoria] when he seems to imply that this moral imperative has been and should remain the horizon of Buddhist ethics and was once historically embodied in a specific (“authentic”) form of Buddhism. This view of an authentic early Buddhism (as opposed to “decadent” Zen) flies in the face of reality. […]

In a word, there is no generic, fundamental (or even mainstream) Buddhism. It may not even be sufficient to say that we are dealing with a multivocal tradition, or multiple traditions that we could call “Buddhisms.” Rather, we are dealing with a variety of people—clerics and lay believers, kings and commoners—who call themselves Buddhists. From their respective vantage points, these people hold discourses that are, not surprisingly, often at odds with each other.94

Anche Henry Schliff critica la “traiettoria progressivamente essenzializzante del linguaggio” usato da Victoria, e pone il problema di cosa possa essere considerato “autentico” in una tradizione religiosa propagatasi su un intero continente, in un arco temporale di oltre due millenni e mezzo95, attraverso un efficace paragone:

Victoria’s presentation speaks rather as a categorical indictment of the whole of Mahāyāna Buddhism. Analogically, this would be like a Dominican priest arguing that all Catholics regardless of their historical, cultural, or doctrinal orientation had fundamentally misunderstood the concept of the Holy Spirit. The methodological error appears in Victoria’s argument when he

92 Ivi., p. 125.

93 Bernard FAURE, “Afterthoughts”, in JERRYSON, JUERGENSMEYER (a cura di), Buddhist Warfare, cit., p. 216.

94 Ivi., pp. 216-217.

95 Henry M. SCHLIFF, “A Review of Buddhist Warfare”, Journal of Buddhist Ethics, vol. 18, 2011, pp. 174-175.

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attempts to use militant Zen in the context of wartime Japan to illustrate what he sees as pervasive doctrinal errors throughout the history of Mahāyāna Buddhism.96

Uguale caso di approssimazione essenzializzante è, per il professor Christopher Ives, la descrizione che Victoria dà dei soldati dell’armata imperiale: definiti sempre, monoliticamente “i soldati giapponesi”, appaiono come macchine da guerra disindividualizzate, irrazionali e fanatiche, non solo desiderose di morire, ma anche di uccidere. Potrebbe sembrare solo una rappresentazione grottesca e superficiale, se non ignorasse la tragica realtà di molti di quei soldati, semplici coscritti sovente brutalizzati dai superiori. Molti di essi, effettivamente, preferirono la morte alla resa: ma non si può ignorare il fatto che, per loro, questa resa avrebbe significato essere giustiziati dal proprio comandante e condannare la famiglia alla vergogna sociale97. Ives, inoltre, critica la tendenza di Victoria ad affastellare testimonianze, discorsi, scritti, azioni ed eventi, soffermandosi raramente a spiegarne i nessi causali e a collocarli nell’insieme storico-filosofico da cui originano98.

Tralasciando momentaneamente lo specifico dell’autore di Zen at War, è interessante notare come il monaco e studioso Hirata Seikō 平田政幸, in un articolo uscito tre anni prima del saggio in

questione, abbia concentrato le proprie critiche su quella che, come si è detto, è la base da cui gli scritti di Victoria si sarebbero sviluppati: l’opera di Ichikawa Hakugen. A essere sul banco degli imputati sono, come nel caso di Victoria, il “moralismo” e la “partigianeria” del metodo utilizzato. Per meglio inquadrare la propria critica, Hirata parte da un aneddoto: negli anni sessanta, Ichikawa aderì a un movimento radicale di protesta contro la guerra in Vietnam. Quando le manifestazioni di tale gruppo iniziarono a degenerare in duri scontri con le forze di polizia, alcune voci del mondo monacale giapponese attaccarono la partecipazione di Ichikawa, sottolineando come tutto ciò che implichi l’uso della violenza sia contrario all’etica buddhista. Questi, per difendersi, ribaltò l’imputazione: se la sua battaglia contro la guerra era così feroce e anti-buddhista, come mai

96 Ivi., p. 175.

97 IVES, op. cit., p. 105. 98 Ivi., p. 102.

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queste stesse voci non si erano levate nel mezzo degli orrori della guerra del Pacifico?99 Hirata critica con veemenza la faziosità dell’assunto:

I do not question the need for such criticism of Zen’s past. My problem is rather with the contradictions in Ichikawa’s own position, particularly in its embrace of the leftist rhetoric so much in vogue among intellectuals after the war. […] Merely to shake the dust of the old position from one’s sandals and then to invest all one’s moral energies in a new position is not enough. Surely there is something to be learned about human nature in all of this. And surely there is a need for a standpoint that tries to learn it. Otherwise, what has the war taught us other than that we are right to see that they were wrong?100

Dalle critiche di Hirata, come da quelle rivolte a Victoria, si evidenzia come sia metodologicamente sbagliato tirare le somme di chi sia stato “cattivo” e chi “buono”, chi “coerente” con gli assunti da cui ha originato la propria tradizione religiosa e chi “ottuso”, se non addirittura “in malafede”, nell’arco della storia del buddhismo giapponese: è necessario, piuttosto, analizzare con distacco gli assunti storico-filosofici alla base di simili comportamenti per

comprenderli e definirli, non per condannare o per assolvere.