Passando dal piano metodologico a quello più puramente contenutistico, Christopher Ives critica anche il focus dato da Victoria alla materia. Per il primo, la tesi dell’autore di Zen at War sarebbe che la principale causa della nascita dello “Zen della Via imperiale” sia stato lo stretto nesso esistente – o, quantomeno, postulato – tra l’etica dei guerrieri, il bushidō, e lo Zen, nonché la contiguità etico-spirituale della classe dei bushi con i monaci della corrente101; contiguità che avrebbe resistito dal periodo Kamakura (Kamakura jidai 鎌倉時代, 1185-1333) fino al Giappone della prima metà dell’epoca Shōwa (Shōwa jidai 昭和時代, 1926-1989), come dimostrato dalla
99 HIRATA Seikō, “Zen Buddhist Attitudes to War”, in James W. HEISIG, John C. MARALDO (a cura di), Rude Awakenings. Zen, the Kyoto School, & the Question of Nationalism, Honolulu, University of Hawai‘i Press, 1994, p. 12.
100 Ivi., p. 13.
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permanenza dell’espressione “l’unità della spada e dello Zen” (kenzen ichinyo 剣禅一如) nella
propaganda dell’Impero102. Ives non si limita a mettere in dubbio solo la persistenza di tale rapporto nei secoli, ma anche il fatto che questo sia mai stato qualcosa di più profondo e filosofico di un semplice scambio formale di “cortesie” tra i rappresentanti del potere temporale e di quello spirituale:
Did Zen training play much of a role in the willpower, martial effectiveness, and sacrificial death of other soldiers? […] I wonder […] what percentage of the samurai ostensibly steeped in Zen had actually done zazen (seated meditation), met with Zen masters, and thereby cultivated the mental states – including mirror-like awareness and tranquility in the face of death – that modern Zen ideologues have claimed are the fruits of Zen practice. Granted, warrior rulers built monasteries for renowned priests, asked Zen priests to perform rituals for such practical benefits as the protection of the realm and its rulers (themselves), utilized Zen institutions for social control and trade with China, and attempted to secure cultural credentials relative to aristocrats and the court in Kyoto […]. But to what extent did those elite warriors engage in sustained Zen practice? And what about the mass of ordinary, lower-level samurai who did not meet with Zen abbots for tea, art appreciation, and political discussions? What evidence do we have that they ever practiced Zen? And even if they did, to what extent did they advance their meditative practice to the states of “no-mind” that D.T. Suzuki has portrayed as central to warriors’ Zen awareness?103
In definitiva, quanti tra aristocratici o semplici bushi di basso rango, la “manovalanza” della guerra, hanno effettivamente praticato lo Zen e guadagnato da esso un potere spirituale da far confluire in ambito bellico? Ciò in cui l’autore di Zen at War risulta facilmente attaccabile è la mancanza di prove empiriche portate a sostegno della propria tesi104.
D’altronde, lo stesso Victoria lascia il fianco scoperto a queste critiche dichiarando, in A
Buddhological Critique of ‘Soldier-Zen’ in Wartime Japan, che il fenomeno dei “soldati-Zen”
non fu né un’invenzione del Giappone medievale, né un’aberrazione nata dal militarismo nipponico degli anni trenta, bensì un fenomeno che ha radici fin dalla nascita della scuola Ch’an in Cina105. Basterebbe questa affermazione a invalidare quella che Ives riconosce come la tesi principale portata avanti nell’opus magnum del collega.
102 Ivi., p. 102.
103 IVES, op. cit., p. 103. 104 Ivi., p. 104.
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Di contro, pur partendo come Victoria dagli scritti di Ichikawa Hakugen, Ives elabora una propria teoria incentrata sulla storia delle istituzioni dello Zen: dato che, fin dai tempi del clan Soga 蘇我 氏 (VI – VII secolo), le personalità e i maestri legati a questa dottrina hanno perseguito i propri interessi grazie a una “simbiosi istituzionale”106 con i poteri al comando, lo “Zen della Via
imperiale” potrebbe essere meglio spiegato come un adattamento moderno del già citato concetto di “buddhismo per la protezione del Paese”107: questa scuola sarebbe dunque stata favorita dai
potenti sulle altre in cambio della sua capacità di “proteggere la nazione” (chingo kokka 鎮護国 家), tramite l’offerta di preghiere, la recitazione di sūtra e la celebrazione di cerimonie108.
Tuttavia, la teoria di Ives sembra mostrare gli stessi limiti di quella di Victoria: benché la connivenza tra buddhismo Zen e apparati statali rappresenti una delle cause dietro alla nascita dello “Zen della Via imperiale”, non può essere accettata come una spiegazione omnicomprensiva. Tanto più che lo stesso Victoria ha dedicato l’intero capitolo “Was It Buddhism?”, pubblicato nel 2006 (ovvero tre anni prima dell’uscita del saggio Imperial-Way Zen di Ives) nella seconda edizione di Zen at War, alla dimostrazione di come le origini della subordinazione del buddhismo allo Stato possano essere rintracciate non solo in Cina e in Corea in un periodo antecedente all’introduzione del buddhismo in Giappone, ma persino ai tempi del re Ashoka (304 – 232 a.C.), vissuto in India due secoli dopo la morte di Gautama Buddha: pare infatti fosse necessario ricevere il permesso del sovrano per diventare monaci, e che questi abbia avuto il potere di prescrivere i passaggi dei sūtra che i membri del sangha erano obbligati a imparare109. Successivamente, già
dall’introduzione del buddhismo in Cina, sotto il dominio della dinastia dei Wei del nord (IV – VI secolo), i monaci, per giustificare il loro asservimento all’imperatore, arrivarono a proclamarlo “Buddha vivente”, l’incarnazione stessa del tathagata: Victoria fa risalire a questo momento la nascita di quello che verrà in seguito definito in Giappone “gokoku bukkyō”. Il prezzo dell’appoggio e della protezione imperiali fu, anche in Cina, la perdita d’indipendenza e l’asservimento della “Legge di Buddha” alla legge dello Stato. Particolarmente curioso è il caso di Shen-hui, monaco che, durante una rivolta di grandi dimensioni (VIII secolo) in una vasta area dell’Impero, organizzò una raccolta fondi in aiuto al governo: l’autore vede in lui una sorta di
106 IVES, op. cit., p. 107.
107 Ivi., p. 3.
108 Ivi., pp. 107-108.
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prodromo alle questue degli anni trenta e quaranta del Novecento, organizzate dalle scuole Rinzai e Sōtō in favore dell’aeronautica imperiale, e di quella degli anni cinquanta, promossa dai buddhisti cinesi per la produzione di un caccia da impiegare contro le forze americane in Corea110. La stessa puntualizzazione di Victoria viene mossa anche da Bernard Faure (che estende l’ambito di questa “strumentalizzazione governativa” anche a Tibet e Sud-est asiatico)111 e da Henry
Schliff (che pone maggiormente l’accento sulla necessità materiale del buddhismo di “auto- preservarsi”)112: si può dunque vedere come la connivenza tra poteri statali e buddhismo, al
contrario di quanto dichiarato da Ives, non sia un fenomeno storicamente limitato al solo Giappone.
Ritornando a Victoria, va notato come, rispetto ai teorici guerrafondai, ai coscritti e ai cappellani militari, dedichi relativamente poco spazio alla trattazione di quelle figure di zenisti che si
arruolarono volontari nell’esercito imperiale per andare a combattere al fronte; questo nonostante
a uno di essi, Nakajima Genjō, monaco e combattente della marina imperiale per quasi dieci anni, riservi un breve capitolo di Zen War Stories. Ciò avviene, si direbbe, perché, benché le spiegazioni fornite da Victoria, da Ives e da Ichikawa possano dimostrare efficacemente le ragioni per cui monaci e seguaci dello Zen abbiano accettato passivamente la collaborazione con il governo imperiale come qualcosa di inevitabile, se non addirittura di vantaggioso, non riescono tuttavia a spiegare perché abbiano collaborato attivamente alla guerra, arruolandosi su base volontaria e andando al fronte a uccidere. Dai dati contenuti in Zen at War, si può senza dubbio affermare che ci sia stata sia un’influenza dello Stato imperialista sul buddhismo giapponese in generale e sullo Zen in particolare, sia, di converso, un’influenza dello Zen sull’organizzazione e sull’ideologia dell’esercito giapponese. Ma anche tenendo conto dell’onnipervasività dell’apparato statale nel periodo Shōwa, e della retorica dell’identificazione tra vita e morte che venne traslata (e volutamente distorta) in quell’abbraccio arbitrario e artificioso creatosi tra questa filosofia e l’esercito imperiale, risulta difficile credere a una così forte influenza di questi fattori nella scelta operata da personaggi come Nakajima Genjō; e non si spiega perché manchi la testimonianza di monaci o fedeli zen arruolatisi volontari nelle forze cinesi. I due studiosi, in sostanza, non riescono a essere convincenti nel dipingere gli zenisti come, per decontestualizzare un controverso termine di Daniel Goldhagen, “volenterosi carnefici”: la ferma convinzione che la vita e morte siano indifferenti può sicuramente fungere da consolazione a un soldato che si ritrovi giocoforza sul
110 Ivi., pp. 200-209.
111 FAURE, op. cit., pp. 216-217. 112 SCHLIFF, op. cit., p. 175.
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campo di battaglia, ma, non essendo un’idea propulsiva o esistenzialmente risolutiva, non è una motivazione abbastanza forte da spingerlo sua sponte su quel campo.
Per trovare l’elemento mancate a motivare la volontà degli zenisti di combattere al fronte, bisogna tornare indietro nel tempo fino al crepuscolo del periodo Heian (Heian jidai 平安時代, 794-1185), quando il potere di corte iniziava a scricchiolare e dalle province si levavano acciaio e fiamme.
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