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particolare per la linea di bocce di Fellini morto con la neve L’infelice calvario del Maestro è il motivo che

Nel documento ISLL Papers Vol. 2 / 2009 (pagine 32-35)

abbiamo scelto per immettere linfa vitale in un mercato, quello delle bocce di neve, ormai in crisi. I soggetti tradizionali […] non sono più al passo con le esigenze di un pubblico oggi molto esigente e attento al mondo che lo circonda. Un pubblico moderno, che merita quindi bocce di neve più complesse e articolate nel messaggio, cariche di valore simbolico e culturalmente gratificanti» (Ivi, 33-34).

12 Si veda il racconto Hamburger lady fa la raccolta punti: «La gente mi chiama Hamburger Lady perché una

volta stavo friggendo le Spinacine […] e sono finita con la faccia dentro l’olio delle Spinacine. Mi sono ustionata e da allora la mia faccia è orribile. Per questo la gente mi chiama così. A me di tutto questo non importa nulla perché sto facendo la raccolta punti della Star. Con 100 punti si vincono un piatto piano, un piatto fondo e un piatto da frutta. Con 150 punti si vincono tre tazzine da tè con piattino. Con 200 punti si vincono una coppia più quattro coppette per la macedonia. Con 250 punti si vincono sei tazzine da caffè con piattino. Adesso ho 700 punti Star» (Ivi, 123).

quindi essere consumati come un pranzo al ristorante o come un mobile nuovo, magari comprato a rate:

Oggi è il quattro luglio 1997. Sono all’Ikea di Cinisello Balsamo. Francis e io ci siamo sposati il 2 giugno, a Puerto Plata. Abbiamo comprato un bilocale a Sesto San Giovanni, con un mutuo alla Cariplo, dodici anni e tutto è a posto.

[…] Quando io e Francis avremo un bambino lo guarderemo giocare dentro la rete delle palline dell’Ikea, lo vedremo fare tutto quello che noi, nati in un’era più infelice, non abbiamo potuto fare. (Nove 2008, 193-194)

La letteratura decide allora di focalizzare la sua attenzione non più sui drammi interiori dei protagonisti, sulla loro incapacità di adeguarsi ad un contesto sociale e produttivo alienante: se l’intera società è divenuta produttiva, se il tempo della vita non è più distinguibile dal tempo dedicato al lavoro, allora anche la letteratura deve adeguarsi a questo nuovo contesto produttivo.

Volponi riteneva necessario che la letteratura si occupasse della condizione esistenziale degli operai nelle fabbriche, in questo modo egli legava indissolubilmente il suo lavoro di intellettuale ad un forte impegno politico e culturale; Bianciardi sentiva la necessità, partendo dalla propria esperienza lavorativa nell’industria editoriale milanese, di denunciare la condizione alienante dei lavoratori “quartari”; Rea utilizzava la forma-romanzo per rendere ancora più suggestiva e toccante la sua inchiesta giornalistica sulla dismissione dell’Ilva di Bagnoli, al fine di mostrare le prospettive di disoccupazione e di sottosviluppo che si affacciavano all’orizzonte della società post-indutriale napoletana.

Aldo Nove invece si limita a registrare la “mutazione antropologica” causata dalla televisione negli ultimi vent’anni e che ha modellato, a suo piacere, il profilo della società italiana. La televisione infatti ha svolto il ruolo di supplente della fabbrica, ha creato una nuova Weltanschaung livellando le personalità degli individui, creando superficialità, ignoranza e nevrosi consumistiche.

Le narrazioni letterarie diventano recessive rispetto alle narrazioni mediatiche, queste ultime non sono in grado di costruire legami, di far emergere valori, di denunciare ingiustizie: il vuoto catodico è così diventato il nuovo padrone dei personaggi letterari, un vuoto capace di plasmare gli individui in consumatori che si sentono realizzati solo se riescono ad acquistare un numero sempre maggiore di oggetti inutili, oppure se riescono a rendere la loro vita simile a quella delle fiction televisive.

Non a caso la denuncia della precarietà può avvenire solo attraverso l’inchiesta giornalistica, l’unico strumento in grado di fotografare, in maniera spesso assai spietata, le condizioni materiali in cui si trovano questi nuovi lavoratori. La realtà ormai mistificata dalla televisione ha vinto sulla narrazione letteraria e lo scrittore è costretto a reinventarsi giornalista per denunciare i soprusi e le ingiustizie del mondo del lavoro.

Il paesaggio del lavoro post-industriale assume allora caratteri impensabili, degni di un romanzo surreale: se la realtà supera la fantasia, allora la narrazione letteraria non è più lo strumento adeguato

per denunciare la realtà dei fatti.

Domenico ha trenta anni, vive in Sardegna e fa il pastore, come suo padre e suo nonno, ma con una caratteristica peculiare che lo accomuna a tutti gli altri pastori della sua generazione: ha la partita IVA ed è iscritto alla Camera di commercio.

Produciamo il latte e poi lo versiamo agli industriali ai prezzi che stabiliscono loro. Lo versiamo tutto, c’è la Finanza che controlla, e se il latte non lo verso tutto vuole dire che sono un evasore, perché allora si presume che il latte non versato lo abbia trasformato, in nero, in formaggio e venduto, e questo basta per rendermi un delinquente. (Nove 2006, 33)

Luigi è un giovane avvocato che racconta in prima persona la sua esperienza di praticante in uno dei più importanti studi della città in cui vive:

Fai due anni di praticantato, anche lì senza nessuna tutela né compenso, e anche lì con la figura del padrone assoluto che decide le tue sorti. Adesso […] lavoro in uno studio legale a quattrocento euro al mese. Ho fatto il conto. Sono cento euro alla settimana, poco più di due euro l’ora, due euro e cinquanta. Mi vergogno a dirlo. È surreale. Ma se voglio fare l’avvocato funziona così. Solo all’inizio, si dice, ma di questo «inizio» non vedo la fine. (Nove 2006, 160)

La consapevolezza del suo status di precario gli consente di svolgere un’analisi giuridica delle trasformazioni del mercato del lavoro assai lucida:

per cinquant’anni abbiamo vissuto in un Paese dove tutte le tutele nascevano all’interno dell’azienda, della media o grande impresa. Perché è sempre stata l’impresa l’habitat del sindacato, il luogo da dove nascono le rivendicazioni e, quindi, i diritti. Negli anni, i sindacati sono riusciti a ottenere con la loro forza molte garanzie […] ma sono tutele che hanno potuto mettere radici solo nelle grandi imprese. Oggi il mercato del lavoro è cambiato, non è più impostato sul modello della grande impresa. Le aziende si frazionano, decentrano l’attività, sfuggono alle leggi che tutelano meglio i lavoratori. Nello stesso tempo, sono sempre di più i lavoratori atipici e flessibili, diversi da quelli tradizionali a cui si riferiscono le vecchie garanzie […], e tutti questi precari, pur essendo tanti, sono deboli, si muovono da soli, perché sono privi di una solida protezione sindacale, in quanto non inseriti in un’azienda e, quindi, difficilmente rappresentabili. (Nove 2006, 162-163)

Questa analisi, ad avviso di chi scrive, dimostra due cose: la prima è che risulta oggi praticamente impossibile recuperare quel filone della letteratura aziendale, tanto in voga nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Anche la letteratura di denuncia delle condizioni precarie del lavoro infatti necessita un ripensamento: bisognerebbe forse fare un passo indietro e ripartire proprio dalle inchieste giornalistiche sul campo, mantenendo comunque un taglio letterario nello stile della narrazione13.

13 Cfr. al riguardo Bajani (2006, 8-9), in cui l’autore spiega i motivi che lo hanno spinto a svolgere questa

inchiesta sui nuovi lavoratori precari, all’indomani dell’uscita del suo romanzo, Cordiali saluti, che pure parlava della sua esperienza di lavoratore precario all’interno dell’Ufficio delle Risorse Umane di una grande azienda del Nord Italia. Questa inchiesta quindi, pur mantenendo uno stile narrativo giornalistico, altro non è che un insieme di tante piccole storie personali: «Soprattutto sono storie che parlano della scomparsa di un mondo, che è quello

La seconda riflessione da fare, a conclusione di questo percorso letterario, è di tipo assolutamente giuridico.

La dottrina italiana parla ormai da oltre vent’anni di un processo di decodificazione che ha investito il “sistema” normativo nel suo complesso (Irti 1986): è ormai tutto un fiorire di leggi e leggine speciali, in deroga ai principi sanciti dal Codice civile e che minano l’ordinamento giuridico nella sua unità.

Questo processo di decodificazione risulta ancora più evidente se ci si confronta con le trasformazioni del diritto del lavoro e con l’evoluzione normativa del diritto sindacale che, ad eccezione dello Statuto dei lavoratori, è sempre stato una branca del diritto composta da un frastagliato arcipelago legislativo.

Dall’analisi dei testi letterari emerge con forza la necessità di rivedere la dogmatica giuridica in materia di diritto del lavoro e di garanzie sindacali, distaccandosi una volta per tutte dall’ormai superata visione di lavoratore subordinato che ci viene offerta dal Codice civile e dallo Statuto dei lavoratori. È necessario che il giurista ponga mano agli strumenti della sua officina intellettuale e che ricominci a forgiare categorie nuove, affinché si riconoscano diritti e dignità ai lavoratori precari, all’interno del quadro dei principi costituzionali.

Una soluzione potrebbe essere non certo quella di riconoscere una serie di garanzie e di diritti da racchiudere in un “sistema”, che sia in grado magari di rendere più coesa la frantumata legislazione vigente sul mercato del lavoro, quanto piuttosto di riempire di nuova linfa vitale proprio quegli articoli della nostra Costituzione che parlano di diritto al lavoro e della necessità di riconoscere condizioni di vita dignitose per tutti i lavoratori, anche quelli precari.

La sfida che il giurista, ed in particolare il costituzionalista, ha di fronte è epocale: o sarà in grado di estendere le garanzie ed i diritti costituzionali anche ai lavoratori precari, o si rischierà di svuotare di significato il testo stesso della Costituzione. È insomma necessario che il giurista ritorni ai valori che sono alla base della convivenza sociale per verificare le trasformazioni che hanno investito la società italiana degli ultimi anni, consapevole del fatto che molti di quei valori si sono snaturati sotto i suoi occhi e che egli non ha avuto la forza di denunciare tale snaturamento.

Parafrasando Riccardo Orestano (1989, 242), si potrebbe dire che il vero compito del giurista, oggi come ieri, resta sempre quello di incidere sulla realtà perché la caratteristica peculiare della scienza giuridica, e che distingue quest’ultima da tutte le altre discipline umanistiche, è proprio quella della sua concreta operatività nel campo sociale e culturale.

Nel documento ISLL Papers Vol. 2 / 2009 (pagine 32-35)