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Viaggio di un moderno Ulisside

CAPITOLO QUARTO Un eroe oltre il nulla

IV. 1 A partire dalla «vita»

1.

L’egual vita diversa urge intorno; Cerco e non trovo e m’avvio

Nell’incessante suo moto: A secondarlo par uso o ventura, Ma dentro fa paura.172

Con queste parole inizia il tormentato viaggio interiore dell’io-protagonista dei

Frammenti lirici. Prima di addentrarsi in una lettura più approfondita dell’opera173

occorre soffermarsi a riflettere su un particolare significativo: il termine «vita» del primo verso. Proprio qui nell’incipit del libro, dove il poeta è chiamato a esprimere l’argomento della propria raccolta, Rebora chiama subito in causa il “cattivo maestro” per demolirlo ideologicamente.

Sulle onde di un seducente inno alla vita, infatti, si era aperto anche il capolavoro dannunziano. Leggiamo i versi a confronto:

O Vita, o Vita, dono terribile del dio, come una spada fedele, come una ruggente face, come la gorgóna, come la centàurea veste; O Vita, o Vita,

dono d’oblìo, offerta agreste, come un’acqua chiara, come una corona,

come un fiale, come il miele che la bocca separa

dalla cera tenace;

172Tutte le citazioni sono tratte da C. Rebora, Poesie 1913-1957, Garzanti, 2008. Un’interpretazione approfondita delle poesie si

legge in C. Rebora, Frammenti lirici, cit.

173Per la seguente analisi si è tenuto conto di P. Gibellini, Introduzione a G. d’Annunzio, Alcione, Torino, Einaudi, 2010, pp. VI-

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O Vita, o Vita dono dell’Immortale alla mia sete crudele, alla mia fame vorace, alla mia sete e alla mia fame d’un giorno, non dirò io tutta la tua bellezza?174

La «Vita» dannunziana, con l’iniziale rigorosamente maiuscola, è il dono di potenza, di evasione e di immortalità concesso dal Dio al poeta per saziare la sua «fame vorace», ovvero la sua ansia di assoluto. Questa eroica investitura comporta l’immersione dell’io-protagonista nel mito, vale a dire in “un tempo metastorico, circolare e rassicurante nella sua eterna ripetizione”, che esorcizza quello “storico, lineare, prevedibile e angoscioso dell’esistenza umana”175

.

Poco dopo d’Annunzio prosegue tessendo le lodi della «Diversità», principio di vita e di poesia:176

Nessuna cosa mi fu aliena; nessuna mi sarà

mai, mentre comprendo. Laudata sii, Diversità delle Creature, sirena del mondo! Talor non elessi perché parvemi che eleggendo io t’escludessi,

O Diversità, meraviglia sempiterna, e che la rosa bianca e la vermiglia fosser dovute entrambe alla mia brama, e tutte le pasture co’ lor sapori,

tutte le cose pure e impure ai miei amori;

però ch’io son colui che t’ama,

174Tutte le citazioni dannunziane sono ricavate da G. d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini,

Milano, Mondadori, 2001.

175Riguardo all’idea di tempo in d’Annunzio vedi F. Tringali, Il tutto e il nulla. D’Annunzio dall’illusione alla delusione del mito,

in «Rassegna dannunziana», 32, 1997, pp. XXVI-XXVII.

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O Diversità, sirena

del mondo, io son colui che t’ama.

Mentre la «vita dai mille e mille volti» – in base a una visione del mondo che ha le proprie radici nel mito del superuomo di Nietzsche177 – è l’esistenza nella sua interezza e totalità, che solo il poeta ha il privilegio di possedere e riprodurre i propri versi, la vita dei Frammenti non ha niente a che fare con i deliri vitalistici e superomistici del vate, frutto di un’ingorda fantasia.178

Innanzitutto quella reboriana è una vita con la “v” minuscola: scelta che anticipa un evidente spostamento d’orizzonte rispetto al “sublime anti-modello”. Siamo, così, catapultati non in un mitico altrove al riparo dal tempo, bensì nella vita traumatica, ansiosa e inquietante dei tempi moderni, turbata dal procedere inarrestabile della storia. Nell’ossimoro di apertura «eguale e diversa» sembra, infatti, già di sentir risuonare il vortice spettacolare di uomini e macchine della grande metropoli,179 che, pur nella sua apparente varietà, si rivela sempre uguale a se stesso, grigio e monotono, costringendo il soggetto a una terribile crisi d’identità.

Insomma, il contrasto si accende fin dai primi versi con la vita vera e contraddittoria del poeta nuovo, che bacchetta la letteratura “idolo”, “paradiso in terra” del letterato puro.180 Rebora trasforma l’ebbrezza, la molteplicità e la ricchezza di d’Annunzio in

rottura, dissidio e disappartenenza rispetto l’esistenza. E all’egocentrico io dannunziano sostituisce un io volutamente minuscolo e alienato tra le diverse identità che lo abitano, indice di una poesia sicuramente più umile e dimessa.

2. Dunque, se vogliamo ancora continuare a parlare di vitalismo, sicuramente dobbiamo ammettere che si tratta di un vitalismo ribaltato di segno. L’impossibilità di trovare risposte alla disperata ricerca di senso provoca un pericoloso stato di estraneità, tradotto con il verso «cerco ma non trovo» e col termine «paura»: entrambi gli elementi hanno il compito di richiamare alla memoria del lettore l’incipit della Commedia, con il motivo dello smarrimento nella selva oscura.181

178Sul concetto opposto di vitalismo nei due autori cfr. Niva Lorenzini, Frammenti lirici: il corpo nell’«egual vita diversa» in

Corpo e poesia nel Novecento italiano, Mondadori, 2009, pp. 31-32, ma anche T. Salari, Per un Rebora mal noto, cit., p. 82.

179Un ritratto della moderna metropoli si legge in E. Raimondi, Le poetiche, cit., p. 15. 180D. Rondoni, La poesia che mette a fuoco Dio, in C. Rebora, Un poeta cristiano, cit., p. 27. 181S. Magherini, Per la memoria dantesca, cit., p. 49.

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È quella dolorosa condizione esistenziale di «vita-morte», di cui il poeta parla anche nelle lettere. Così il 10 agosto Rebora, straziato dai suoi tormenti, scrive ad Angelo Monteverdi:

«Solamente mi sono sepolto più dentro nella mia morte, come un oggetto guasto che non serve più a nulla nella melma»182

Ancora, il 16 settembre, nel descrivere il suo malessere all’amico, Clemente parla di «ridda del male», del «dolore» che rulla una «marcia funebre», come di chi si trova a dover scontare una dolorosa ferita dell’anima, che provoca soltanto angoscia e sofferenza.183 Ma il poeta, pur sapendo che uscirà sconfitto dalla sfida in quanto la sua ricerca a caccia dell’essenza è destinata ad un esito fallimentare, procede nel proprio viaggio senza tirarsi indietro. E avventurarsi oltre il limite, in un’impresa che sappiamo a priori di dover perdere, è già sicuramente una “sorta di condizione eroica”.184

La parabola dell’io sarà tutta incentrata sul tentativo disperato di tirarsi fuori da questa morte quotidiana.

Ora capiamo bene che, se il punto di partenza dei due autori è lo stesso e la disputa per entrambi si gioca di fronte all’assoluto, nel tentativo di risolvere la propria crisi gnoseologica, le soluzioni a cui approderanno i viaggiatori saranno ben diverse. D’Annunzio finirà per mostrare ancora una volta la propria decadenza nei confronti della modernità con la sterile “illusione del mito”, destinata a rovesciarsi in modo inesorabile “nella delusione del nulla”.185 Rebora, al contrario, si mostrerà all’altezza dei suoi tempi, arrivando a offrire una preziosa lezione di vita, tramite un itinerario che, sebbene doloroso, si rivelerà sempre in ascesa e pieno di speranza. E questo non negando l’impotenza e la fragilità dell’uomo di fronte alla fine di un’epoca, ma incoraggiandoci ad un fiducioso “cambio di visione”,186 insegnandoci a guardare più in là di quel nulla che tanto ci terrorizza.