retorico che in latino si trova già da ENN. ann. 108 O patriae, o genitor, o sanguen dis
oriundum!, con il comm. ad loc. di SKUTSCH 1985, 258, che cita anche trag. 92
(Androm.) o pater, o patria, o Priami domus e il suo riecheggiamento scherzoso in PLAVT.Bacch. 933 o Troia, o patria, o Pergamum, o Priame. Sempre Skutsch rintraccia
un parallelo in THEOCR. 1.115 ὦ λύκοι, ὦ θῶες, ὦ ἀν’ ὤρεα φωλάδες ἄρκτοι; ma
soprattutto sottolinea che, a differenza che in questi casi succitati, «triple o does not, of course, always express grief», così come nel nostro caso o nell’altro da lui citato di PROP.2.15.1s. O me felicem! o nox mihi candida! et o tu | lectule deliciis facte beate
mihi!, dove troviamo anche un parallelo per la rara sequenza et o (con et che congiunge o ai precedenti o); v. il comm. ad loc. di FEDELI 2005, 442s., che ai nostri aggiunge i
casi di TER. ad. 304, 790, OV. met. 1.351, STAT. Theb. 5.33s., SIL. 13.749, MART.
10.51.9. Si possono aggiungere casi in cui il tricolon con o anaforico è ripartito su due versi: OV. her. 16.273s., trist. 5.2.49s., SEN.Med. 985s.; cf. anche CIC. Tusc. 2.21 = e
Soph. fr. 1.33s. Soubiran. In VERG. Aen. 2.241s. o patria, o diuum domus Ilium et
incluta bello | moenia Dardanidum eqs., il terzo colon manca dell’o per motivi metrici.
Per la poesia, v. anche WILLS 1996,362s. Altri casi simili ma in prosa e quindi con la
possibilità di cola più ampi, specialmente in Cicerone (Quinct. 80.2, Rosc. 101, Verr. 2.3.28.17, leg. agr. 2.55, dom. 47, Pis. 56, Mil. 94, or. 67.225 [cita dalla Corneliana
secunda]); cf. anche Rhet. Her. 4.12, PS.-QVINT. decl. mai. 6.4.7, et al. Dalla somma dei
casi, sembrerebbe tipica o almeno frequente la gradatio dai primi due cola più ridotti al terzo più espanso; nel nostro caso sembra esserci anche una gradatio dalle mandrie (pecudes), ai protettori delle mandrie (Panes), alla residenza delle prime e dei secondi (tempe).
Solitamente, ma senza una regola precisa, l’invocazione con o seguito dal vocativo è in bocca al personaggio interno alla scena in cui l’invocazione stessa ha luogo, sia esso l’autore in prima persona o meno. Ci si potrebbe qui aspettare piuttosto una sequenza di accusativi esclamativi, e soltanto Panes ci dice che si tratta invece di vocativi (a meno di immaginare un vocativo anche al di sotto della lezione corrotta fontis al v. successivo; v. nn. succ.); sarebbe cosa facile modificare in Panas, ma non sembra esserci ragione sufficiente per intervenire sul testo tràdito.
Due mss. del XIII sec., h e ψ interrompono qui il testo del Culex. Non mi risulta siano
stati prodotti dei lavori sull’eventuale parentela tra i due mss. che questo tipo di caratteristica – se è un errore è sicuramente congiuntivo – può fare ipotizzare.
Panes Per il plurale Panes, cf. PROP. 3.17.4, OV.her. 4.171, met. 14.638 (con il
comm. ad loc. di BÖMER), fast. 1.397 (con il comm. ad loc. di GREEN 2004, 185s.),
SEN. Phaedr. 784, LVC. 3.402, COLVM. 10.1.427, STAT. silu. 2.2.106. La letteratura
bucolica, però, lo conosceva già da [MOSCH.] 3 (epitaph. Bion.) 28 καὶ Πᾶνες
στονάχευντο (per la data dell’Epitaphius Bionos e le allusioni latine, v. REED 1997,
gratissima L’aggettivo gratus era già usato in modo assoluto a 41: v. n. ad loc.
Certo non siamo sicuri sul séguito, vista la crux all’inizio di 95, ma è improbabile che ci fosse un dativo a completare l’aggettivo. Lo stesso superlativo si trova spesso e sempre in questa stessa posizione anche in Virgilio (10) e Ovidio (13), più raramente in Orazio (2), Properzio (1) e dopo Ovidio.
tempe Basta talora una sola parola, nella poesia greco-romana, per evocare un’intera catena di autori e generi, quando quella parola assuma i connotati di una ‘parola di genere’, di ‘tecnicismo poetico’; ciò si può decisamente dire di tempe. Il nome è greco, e sussiste inizialmente come il nome proprio (Τέµπη/Τέµπεα) di una valle tessala che, se inizialmente è solo un locus amoenus, viene poi rivestita dai culti e dalla letteratura di risonanze molto più vaste; al punto che il nome di Τέµπη diventa quasi la ‘traduzione’, nel linguaggio poetico romano-ellenistico, proprio di ‘locus
amoenus’. Si aggiunga anche, a sostegno della specializzazione poetica di questa
parola, che tempe, con il significato generico di “valle amena”, non ricorre mai in prosa2.
La prima attestazione in poesia latina è in CATVLL. 64.35 Pthiotica Tempe (con il
comm. ad loc. di FORDYCE 1961, 283) e 285s. confestim Penios adest, uiridantia
Tempe, | Tempe, quae siluae cingunt super impendentes3. Ma caso più vicino, perché è
anche il più probabile modello del Culex, è quello del finale di VERG. georg. 2, dove,
2 Ritengo che il passo di Cicerone (Att. 4.15.5) citato da molti come esempio di tempe senza connotazione
geografica (sulla scorta di LSJ, tutti i commentatori moderni), vada in questo senso rivisto. Dice infatti Cicerone: his rebus actis Reatini me ad sua Τέµπη duxerunt ut agerem causam contra Interamnatis apud
consules et decem legatos, qua lacus Velinus a M’. Curio emissus interciso monte in Nar‹em› defluit; ex quo est illa siccata et umida tamen modice Rosea (da leggere con il comm. ad loc. di SHACKLETON BAILEY 1965-70, II [1965], 208-210). È plausibile che non si tratti di vera e propria catacresi, quanto invece di una metafora, come se “Tempe” fosse appunto tra virgolette, un commento divertito (ricercato, allusivo e forse ironico o sovradosato) e rimarcato come metafora dall’uso del pron. sua (“la loro Tempe
locale”, cioè “la loro versione della valle tessala”, più che genericamente “la loro valle”, e in particolare
“valle amena” come dovrebbe essere inteso il topos catacrestico del linguaggio poetico sempre adattato alla descrizione di loci amoeni). Inclino dunque a credere che Cicerone stia a metà strada fra Tempe tessala e tempe poetica, e che quello che avviene in poesia sia un altro tipo di fenomeno linguistico.
3 Curioso che il v. successivo faccia riferimento alle donne – ninfe? – che abitano il luogo e vi fanno le
loro danze, e curioso che quello stesso verso sia del tutto corrotto, esattamente come nel Culex: †Minosim
linquens† doris celebranda choreis, con il comm. ad loc. di FORDYCE 1961, 312; è possibile che si debbano avere delle ‘ninfe’ o simili creature femminili al v. 286, lì dove per es. Heinsius congettura
all’interno dell’esaltazione della campagna contro la città (458-464) che abbiamo già visto influire sul Culex, vengono menzionati, fra le ricchezze naturali, speluncae uiuique
lacus et frigida tempe, senza che quest’ultima parola, trattata come nome comune, porti
alcun preciso riferimento geografico alla valle tessala (v. i comm. ad loc. di THOMAS
1988, I.69, e MYNORS 1990,165); Thomas (ibid.) fa anche notare che tempe viene qui
usato in un contesto dove si parla del dormire all’aperto come lusso del pastore (470s.
mollesque sub arbore somni), ricordando però che il bravo pastore non dovrebbe
dormire all’aperto, per il pericolo dei serpenti: sull’importanza di questo precetto, in particolare perché il suo mancato rispetto genera l’azione drammatica al centro del
Culex, v. oltre ad 159 anxius insidiis nullis. Sarà proprio a Tempe (stavolta tessala) che
comincerà l’episodio di Aristeo alla fine delle Georgiche (317 Tempe, con il comm. ad
loc. di THOMAS 1988, II.202), incentrato appunto sul morso del serpente a Euridice. Si
concorda nell’attribuire a THEOCR. 1.67 κατὰ Πηνειῶ καλὰ τέµπεα l’inizio della
catacresi di tempe come nome proprio da attribuire a qualsiasi valle fresca e rigogliosa, donde poi l’uso si diffuse ai poeti romani da Catullo in poi, ma ritengo più fondato sostenere che, se Teocrito mostra un uso che può sì preludere alla catacresi, sono però i poeti successivi ad approfondire quest’uso (concordo quindi con la posizione di HUNTER 1999,ad loc., 88: «we have here an intermediate stage in which ‘Tempe’ is
clearly dominant, but Τέµπε is sliding towards a wider application. The present verse may in fact have been influential in the fondness of Roman poets for the wider use». Successivamente, il nome si trova, con questa accezione generica, in HOR. carm. 3.1.24
non Zephyris agitata tempe, OV. am. 1.1.15 Heliconia tempe (con il comm. ad loc. di
MCKEOWN 1989, II.21), fast. 4.477 Heloria tempe, met. 7.371 Cycneia tempe, STAT.
Theb. 1.487 Teumesia tempe, 10.119 tenebrosaeque tempe (6.88 è espunto), silu.
5.3.209 Boeotaque tempe (ma il testo è incerto: v. GIBSON 2006,346).È invece la valle
tessala quella di HOR. carm. 1.7.4 Thessala Tempe, 21.9 Tempe totidem tollite laudibus
eqs., OV. met. 1.568ss. est nemus Haemoniae ... Tempe, per quae Peneos ab imo effusus
eqs., 7.222 Thessala Tempe, LVC. 6.346, 8.1 Tempe, SEN. Herc. fur. 286, 980
(Macetum), Troad. 815 (opaca), Med. 457 (Thessala) Tempe, COLVM. 10.1.265
Thessala Tempe (menzionata come sede di ninfe!), STAT. silu. 1.2.215, Achill. 1.237
Thessala Tempe, VAL. FL. 8.452 tenui Tempe lucentia fumo. Ma andrebbe notato che
che risulterebbe non marcata, non discriminante e finanche pleonastica, almeno nei due casi menzionati che fanno (soprattutto Ovidio) da modello alle successive occorrenze del nesso Thessala Tempe – lascia intendere che per i due autori augustei può sussistere un’equazione del tipo tempe = ualles (tanto più che è proprio in Orazio e in Ovidio che si trovano le più cospicue attestazioni di tempe usato in maniera generica).
Mi pare passi inosservato il fatto che in Orazio e Ovidio la parola tempe ricorre in proemi molto caratterizzati in senso metaletterario. Non si dimentichi che quella di Tempe è la valle in cui scorre il Penìo, e cioè quella fra l’Olimpo e l’Ossa: è inevitabile la sua associazione con le Muse, la nascita della poesia e ogni altro topos (propriamente, etimologicamente detto) a ciò connesso. Abbiamo già menzionato HOR. carm. 3.1 nella
serie di ipotesti che preparano l’esaltazione della vita campestre; il verso di quell’ode (24) in cui si nomina tempe è proprio calato nella descrizione della beatitudine di una vita che solo gli zephyri si permettono di ‘infastidire’. Ma già l’uso oraziano proviene da quello virgiliano di georg. 2.469s., che abbiamo visto essere probabilmente l’origine, tanto terminologica quanto ideologica, del nostro passo – quelle laudes dei fortunati
agricolae che già per Orazio carm. 3 sono l’importante fondazione ideologica della
beatitudine anurbana e autarchica dei campi (v. fra gli altri NISBET/RUDD 2004, 4ss.). Si
noti in particolare la connessione con il tema del ‘sonno all’aria aperta’, che tanto in Virgilio quanto in Orazio è quello portante nelle rispettive sezioni con la menzione di
tempe – usato, quest’ultimo termine, con la stessa accezione generica e senza riferimenti
specifici alla valle tessala (come invece a 1.7.24 e 21.9). Anche OV. am. 1.1.15 offre un
contesto (quello della prima elegia della prima opera di Ovidio!) in cui l’elegia viene contrapposta all’epica, e le abilità dei sostenitori dell’una a quelle dell’altra fazione; se anche non è qui rilevante quanto quello oraziano, il caso ovidiano conferma che tempe è parola cara alla ‘critica’ letteraria per come viene espressa dalla letteratura stessa, e in particolare ai contesti di recusatio e di affermazione dei generi minori contro l’epica. In poesia greca, si trovava con riferimento alla valle tessala già in CALL. iamb. 4 (fr. 194
Pfeiffer) 56, Del. 105; per il resto le attestazioni sono sempre in prosa o poesia periegetica, e naturalmente sempre a proposito della valle tessala.
95-97 Prima di parlare dei singoli versi sarà il caso di chiarire i problemi di tradizione. I codici più antichi si comportano variamente, e con varie possibilità di parentela fra di loro. Questa la situazione:
95 fontis hamadryadum quarum non diuite cultu (V C W B2 Γ φ) : culte (E A B T I)
96 aemulus ascraeo pastor : pastori (V) quisque poeta
97 securam placido traducit (V W Γ φ) : traducis (C E A B T I)
A 95 cultu è senz’altro lezione genuina e l’errore di E A B T I, cioè di tutto L con