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talibus in studiis È questo un raccordo narrativo tipico dell’epica esametrica, dove il talis in incipit e all’inizio di nuovo periodo lascia intendere che

qualcosa di nuovo sta per avvenire alla luce di quanto finora successo, e che comincia una nuova partizione; tuttavia questa del Culex è l’unica attestazione dell’espressione, e non si trova niente di strettamente simile altrove. Il complemento va inteso entro la reggenza del successivo dum agit curas, che ne costituisce un’amplificazione (studia =

curae), poiché nella frase principale a cui si potrebbe alternativamente collegarlo

tuttavia il soggetto è Hyperionis ardor, mentre gli studia sono quelli del pastore, cioè le semplici attività e disposizioni d’animo a cui egli si è finora dedicato.

È un manifesto ideologico quello del Florilegium Gallicum (φ) che, citando questi versi proprio in riferimento alla beatitudine dei poveri (l’inscriptio della corrispondente sezione nel Florilegio recita «QVAM FELICITER ET QVIETE VIVAT IN PRAESENTI QVI CONTENTVS EST MODICIS»), riporta dulcibus in luogo di talibus e l(a)etus in luogo di

pastor al v. succ.

baculo ... nixus Per l’immagine del pastore appoggiato al bastone (baculum), cf. PROP. 4.2.39 pastor me (sc. sese Vertumnus) ad baculum possum curuare

(con il comm. ad loc. di HUTCHINSON 2006, 95, che vede una possibile allusione alle

fasi della carriera di Virgilio, incrociandola all’omaggio a Virgilio in 2.34.67-76, già menzionato sopra a proposito dell’agg. Ascraeus; v. anche ad 21-48, ibid. 92ss.), OV.

met. 8.218 pastor baculo stiuaue innixus arator, 14.655s. innitens baculo, positis per tempora canis, | adsimulauit anum (con il comm. ad loc. di MYERS 2009, 172, e in

generale 163ss. per i rapporti con Properzio 4.2), Pont. 1.8.52 ipse uelim baculo pascere

nixus oues (al v. prec., Ovidio usa l’immagine delle pendentis ... rupe capellas già

menzionate a proposito di Culex 51), trist. 4.1.1 fessus ubi incubuit baculo saxoue

resedit | pastor. Per la prosa, cf. PLIN. 35.25 illa (sc. tabula) pastoris senis cum baculo.

Se di solito l’immagine denota vecchiaia o stanchezza (come soprattutto OV. met.

14.655 rende chiaro; ma cf. anche SEN. clem. 2.6.3 innixam baculo senectutem, Herc.

baculum premat inclinata senectus), qui la movenza descrittiva è puramente

ornamentale, e si integra nell’aspetto di un pastore spensierato, piuttosto che di un uomo che usi il bastone per sostenersi; il baculum è accessorio di Pan, e non sembra ricollegato ala vecchiaia, in SIL. 13.334 pastorale deo baculum; cf. anche l’uso

improprio in PHAEDR. app. 22.

Credo che il poeta del Culex stia imitando in particolare OV. Pont. 1.8.52 cit., dove

l’immagine del pastore che si appoggia al bastone è inserito in una sorta di indiretta esaltazione della vita del pastore, la cui assenza di preoccupazioni è descritta in questo modo nei successivi vv. 53s.: ipse ego, ne solitis insistant pectora curis, | ducam

ruricolas sub iuga curua boues; inoltre questo di Ovidio e il nostro passo, insieme a OV.

met. 8.693s. baculisque leuati | nituntur eqs., sono gli unici in cui baculum venga usato con verbo semplice nitor (che pure si usa normalmente con l’ablativo della cosa a cui ci si appoggia: v. OLD s.v., 2). Ovidio è comunque presupposto nella misura in cui

baculum non comprare in poesia prima di lui che nella sola occasione del cit. PROP.

4.2.39, mentre 17 sono le occorrenze ovidiane, probabilmente alla base della successiva (pure ridotta) diffusione in poesia (Germanico 1, Fedro 2, Seneca tragico 2, Calpurnio Siculo 1, Stazio 3, Valerio Flacco 1, Silio Italico 1, Marziale 1, Giovenale 1).

Con il procedere della storia, ci si potrebbe aspettare che l’uccisione del serpente che attaccherà il pastore avvenga proprio tramite il baculum, così come già era avvenuto a Tiresia di usare il baculum per colpire i due serpenti (colpo che lo fece diventare una donna: cf. OV. met. 3.324ss., con il comm. ad loc. di BARCHIESI/ROSATI 2007,171ss.);

per il baculum adoperato per colpire animali, cf. anche PHAEDR. app. 24.1 pastor

capellae cornu baculo fregerat. Invece sarà una pietra trovata casualmente a fare del

pastore appena risvegliatosi un ofiocida.

98s. dum ... et dum La successione di due temporali con dum ... et dum, seguite dalla frase cui sono subordinate (cf. VERG. georg. 3.428s., LVC. 1.364, 4.203,

STAT. Theb. 5.748), amplia virtualmente il tempo della narrazione, preparando il

riferimento cronologico alla posizione del sole nei vv. successivi. Le due attività principali durante le quali il passaggio al mezzodì viene consumato sono appunto i talia

studia, cioè la routine pastorale per com’è descritta nella sezione precedente, e la carminis modulatio, cioè l’attività musicale praticata su un flauto abbozzato.

apricas | pastor agit curas Il ThLL (II 318, 46s.) registra il nostro caso nella sezione

di apricus come «soli expositus» detto «de locis», anche se lo isola in quanto caso notevole. In effetti nel nostro verso sono apricae le curae del pastore, cioè le attività pratiche che egli deve svolgere al sole, e in particolare il pascolo del gregge. È una sorta di enallage che trasferisce la qualità del luogo sull’attività che in quel luogo si svolge. L’agg. apricus ricorre molto raramente in clausola d’esametro: oltre che qui, soltanto a VERG. Aen. 6.312, CALP.SIC.2.78,SEREN. 383, CLAVD.Eutr.2.269,PAVL.NOL.18.230,

SIDON.carm.5.525; ciò si spiega anche con il più frequente trattamento come lunga

della sillaba iniziale (VERG.buc.9.49,georg. 2.522, Aen. 5.128, HOR. serm. 1.8.15, TIB.

1.4.19, OV. am. 3.5.3, met. 4.331, COLVM. 10.1.78, CALP.SIC.5.8, PERS. 5.179, VAL.

FL.3.361), che rende incompatibile l’uso in clausola. Ma le più numerose occorrenze

poetiche di apricus sono in Orazio (7) la maggior parte delle quali (6: HOR. carm. 1.8.3,

26.7, 3.18.2, epist. 1.6.24, 14.30, ars 162) trattano la prima sillaba come breve.

L’espressione curas agere non sembra avere paralleli: si può trovare curam (solitamente al sing.) agere (da Ovidio e Livio in poi: v. ThLL IV, 1459, 15ss.) con il gen. (o più raramente de + abl.) per indicare il “prendersi cura di, interessarsi a qualcosa”, usato spesso a proposito degli dei che “non si curano delle cose umane (humanarum rerum)” o degli uomini che “(non) si curano dello Stato” (rei publicae). In questo caso penso che il poeta del Culex usi un’espressione meno poetica, forse più colloquiale, imprimendo però uno slancio stilistico con l’enallage e il sensato trasporto al numero plurale in

apricas curas.