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Pensieri amari come le lacrime

“Le lacrime, criterio di verità nel mondo dei sentimenti. Lacrime, non pianti. Esiste una predisposizione alle lacrime che si manifesta in una valanga interiore. Ci sono degli iniziati in fatto di lacrime, che non hanno mai pianto

realmente535”.

“Vi chiedono atti, prove, opere – e tutto quello che potete produrre sono pianti trasformati536”.

“Qualunque pensatore, all’inizio della sua carriera, sceglie, suo malgrado, fra la dialettica e i salici piangenti537”.

ufficiale. Alcuni spunti tratti da questo paragrafo torneranno utili.

534 Sommario, pp. 130-131. 535 Lacrime, p. 38.

536 Demiurgo, p. 120. 537 Sillogismi, p. 27.

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Il dipanarsi di un rimpianto: così si dissolveva il nostro paragrafo precedente, nella sfumatura di un verso impossibile da comporre… Ma nel suo dileguarsi baluginava uno scintillio, un riflesso – un’immagine…

“Vi è in ogni autore una immagine-chiave, che corrisponde a un'ossessione profonda e rivelatrice. Tale è, in tutta l'opera di Cioran, l'immagine delle lacrime e del loro corollario, il pianto538”.

Lacrime che scorrono nelle vene539, lacrime profonde:

“Non si sono ancora persuasi, gli uomini, che il tempo delle preoccupazioni superficiali e celebrali è trascorso, e che il problema della sofferenza è infinitamente più importante del sillogismo, che un grido di disperazione è ben più rivelatore della più sofistica delle sottigliezze, e che una lacrima ha radici più profonde di un sorriso?540”.

Lacrime rivelatrici:

“Penso a un'ermeneutica delle lacrime, che tenti di scoprirne l'origine e tutte le possibili

interpretazioni. Per arrivare a che cosa? A capire i vertici della storia e a liberarci degli « accadimenti », perché allora sapremmo in quali momenti e in qual misura l'uomo sia

riuscito a innalzarsi al di sopra di se stesso. Le lacrime conferiscono un carattere di eternità al divenire, lo salvano. […] Considerarle attentamente, e capirle, è trovare la chiave del procedere universale. Il senso di questo approfondimento sarebbe di guidarci nello spazio che collega l'estasi alla maledizione541”.

Il ricorrere costante, puntuale, ossessivo (non c’è opera cioraniana che non presenti almeno un’occorrenza del tema), del motivo delle lacrime conferma l’affermazione di Sanda Stolojan da noi citata in precedenza. Le lacrime e il pianto, nel loro senso metafisico, permettono di cogliere le profondità dell’uomo, altrimenti impenetrabili:

538 S. Stolojan, Nota, cit., p. 100.

539 Sommario, p. 130, corsivo nostro: “Vivere accanto a […un poeta] significa sentire il sangue impoverirsi,

significa sognare un paradiso dell’anemia e udire, nelle vene, scorrere le lacrime…”.

540 Al culmine, p. 33, corsivo nostro. 541 Lacrime, p. 73.

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facciamo notare come operi già a questo livello la critica cioraniana alla povertà e alla deficienza dell’espressione, di cui ci occuperemo nel capitolo seguente. Il tutto nell’orbita di quel pensiero organico di cui il giovane Cioran si fa portavoce542. Inoltre l’ermeneutica delle lacrime che Cioran auspica consentirebbe di comprendere “i vertici della storia” e di trovare “la chiave del procedere universale”. Grazie ad essa sarebbe possibile muoversi “nello spazio che collega l’estasi alla maledizione”, liberarsi dagli accadimenti e vedere quando e in che misura l’uomo si sia innalzato al di sopra di se stesso. Infine le lacrime sarebbero la salvezza del divenire in quanto sarebbero in grado di conferirgli caratteri di eternità. Ammettiamo che sino a qui Cioran risulta piuttosto criptico e, a un certo grado, incomprensibile. Qualcosa crediamo si possa comunque ipotizzare. Innanzitutto queste affermazioni ci fanno sovvenire l’eco di due passi de L’albero della vita contenuto ne La caduta nel tempo: ascoltiamoli.

“Eppure [l’uomo] porta in sé e su di sé qualcosa di irreale, di non terrestre che si svela nelle pause della sua febbrilità. A forza di vaghezza ed equivocità, egli è di qui e non lo

è. Quando lo si osserva durante le sue assenze, in quei momenti in cui la sua corsa si

rallenta o s’interrompe, non si scorge forse nel suo sguardo l’esasperazione o il rimorso di aver rovinato non solo la sua prima patria ma anche quell’esilio di cui fu così impaziente, così avido? Un’ombra alla prese con simulacri, un sonnambulo che si vede camminare, che osserva i propri movimenti senza scorgerne la direzione e la ragione543”.

E ancora:

“Si capisce che il Creatore si sia « afflitto in cuor suo » di averlo creato. Condividiamo la sua disillusione senza rincarare la dose, senza cadere nel disgusto, sentimento che ci rivela soltanto l’esteriorità della creatura, e non ciò che vi è in essa di profondo, di sovrastorico, di positivamente irreale e non terrestre, di refrattario alle finzioni dell’albero della conoscenza del bene e del male544”.

Come si nota, questi due stralci ci permettono una sorta di allargamento delle laconiche affermazioni riguardanti l’ermeneutica delle lacrime. Abbiamo già sostenuto come le

542 Cfr. paragrafo 2.3 del presente elaborato. Non a caso, lo stralcio di citazione qui ascoltato, era stato da noi

già utilizzato proprio nel paragrafo precedente.

543 La caduta, pp. 18-19. 544 La caduta, p. 24.

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lacrime siano il modo per comprendere le profondità dell’uomo: affermazioni che trovano qui la loro conferma. Esisterebbero, infatti, un’esteriorità e un’interiorità della creatura: se vogliamo cogliere quest’ultima, dobbiamo restare al livello della disillusione senza cadere nel disgusto, il quale limiterebbe le nostre possibilità di visione alla sola superficie esteriore dell’uomo. L’ermeneutica delle lacrime, consentendoci una sorta di viaggio nello spazio che collega estasi e maledizione, ossia nella peripezia metafisica dell’uomo, ci permetterebbe invece di rivolgerci alle sue profondità. Ora, cosa nascondono queste profondità? Esse celano la parte non terrestre, positivamente irreale, sovrastorica dell’essere umano: parte refrattaria alle finzioni dell’albero della conoscenza, ossia refrattarie a quella distinzione tra bene e male che permette ogni atto. Questo residuo di irrealtà, questa parziale estraneità alla terra insita nell’uomo “si svela [solo] nelle pause della sua febbrilità”, nei “momenti in cui la sua corsa si rallenta o si interrompe” – “durante le sue assenze”: ossia, per usare i termini di Lacrime e santi, quando ci si libera dagli accadimenti – e, aggiungeremmo noi, dal culto e dalle illusioni inerenti ad essi – in quanto si sono compresi i vertici della storia. In questi istanti di normalità – in questi accessi di lucidità – si leggono nei suoi occhi “l’esasperazione o il rimorso” per aver rovinato sia la sua prima patria, ossia il paradiso dell’indistinzione, sia l’esilio terrestre, così avidamente cercato per sfuggire alla monotonia edenica. Ma non è proprio in questi momenti che l’uomo si innalza al di sopra di se stesso? Che vedendosi vivere comprende di essere solo “un’ombra alle prese con simulacri, un sonnambulo che si vede camminare”, senza poter comprendere il senso e la direzione dei suoi movimenti545

“Mentre agisco credo che ciò che faccio abbia un 'senso', altrimenti non potrei farlo. Non appena smetto di agire, e da agente mi trasformo in giudice, non riesco più a trovare il senso di cui si parla. Accanto all’io che segue i miei movimenti, ce n’è un altro (l’io dell’io), che è loro superiore; per questo io, ciò che faccio, e anche ciò che sono, non implica né un significato né una realtà: è come se si trattasse di eventi lontani, finiti per sempre, di cui ricerchiamo a fatica le ragioni apparenti, senza percepirne la necessità intrinseca. Sarebbero anche potuti benissimo non essere, tanto ci sono esteriori. Questa prospettiva, applicata all’insieme di un’esistenza, porta direttamente a ruminare intorno alla stravaganza di essere nati

? Non è appunto in tali frangenti che l’uomo diventa spettatore dei suoi atti e ne capisce l’insensatezza?

546

”.

545 Sommario, p. 136: “Quando ci si sente esistere, si prova la sensazione di un demente meravigliato che

sorprenda la propria follia e cerchi invano di darle un nome. L’abitudine ottunde il nostro stupore di essere: noi siamo – e passiamo oltre, riprendiamo il nostro posto nel manicomio degli esistenti”.

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E questo “ruminare intorno alla stravaganza” della nascita è solo un’altra faccia di quel rimorso per aver rovinato la nostra condizione primordiale, per aver perso il “benefico caos precedente alla ferita dell’individuazione547”.

“Il paradiso geme al fondo della coscienza, mentre la memoria piange. Ed è così che si pensa al senso metafisico delle lacrime e alla vita come al dipanarsi di un rimpianto548”.

Ciò che risiede nelle profondità della coscienza, la parte di irrealtà, la parte non terrestre che caratterizza l’uomo potrebbe essere quindi essere compreso come nostalgia e rimpianto per il paradiso perduto. O meglio rimorso per averlo perduto e rimpianto per la luce della pura anteriorità. Il paradiso stesso geme in fondo alla coscienza e la memoria piange: la sua funzione quindi non risiederebbe nel ricordare, ma solo nel rimpiangere una condizione conosciuta prima della nascita e perduta con essa…

“Quando si tratta del nostro passato essenziale, dell’eternità che precede il tempo […] soltanto i ricordi pre-temporali ci rendono accessibile questo passato. Esiste [ una ] memoria, sonnolenta e profonda, che ridestiamo raramente. Essa risale alle prime pulsazioni del tempo, retrocede verso le origini, ossia verso il limite superiore dei ricordi. È la memoria intellegibile549”.

Cioran stesso afferma l’esistenza di una seconda memoria, “sonnolenta e profonda”, che risvegliamo raramente e che è capace di risalire oltre le origini stesse, verso “le prime pulsazioni del tempo”: si tratta della memoria intelligibile, che è in grado di retrocedere verso “il limite superiore dei ricordi”, verso l’eternità che precede il tempo. Senza voler qui rientrare nella complicata questione del tempo, sottolineiamo solo come questa eternità che precede il tempo dovrebbe, a rigore, essere la buona eternità. A onor del vero, bisogna tuttavia far notare che in tutta l’opera cioraniana non si trovano ulteriori occorrenze di questa presunta memoria intelligibile; però è altrettanto vero che in altri

547 Ivi, p. 104. 548 Lacrime, p. 92. 549 Ivi, pp. 50-51.

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luoghi Cioran afferma che dobbiamo aver conosciuto tutto prima di quell’inconveniente che è la nascita, prima della rottura con l’indistinzione originaria: non sostiene, infatti, rifacendosi all’allegoria veterotestamentaria dell’Eden che il paradiso è il luogo dove si sapeva tutto senza necessità di spiegazione550? Il risveglio di questa memoria intellegibile non potrebbe coincidere con il pianto della memoria, con la valanga interiore di cui parla uno degli aforismi da noi scelti come epigrafe? L’ipotesi non è da escludere. Ciò che è certo è che, nella visione cioraniana, il senso metafisico delle lacrime, e anche lo svolgersi della vita, può essere colto solo in relazione a tale rimpianto per il paradiso perduto. Ce lo confermano anche alcuni aforismi dedicati alla musica:

“«Non posso fare distinzione tra la musica e le lacrime» (Nietzsche). Chi non lo capisce istantaneamente non è mai vissuto nell'intimità della musica. Ogni vera musica è sgorgata dalle lacrime, nata com'è dal rimpianto del paradiso551”.

Non esiste, secondo Nietzsche e secondo Cioran, distinzione possibile tra lacrime e musica: coloro che sono impermeabili a questa verità non sono mai vissuti nella vera intimità della musica, non la comprendono. La musica infatti sgorga dalle lacrime in quanto è nata anch’essa dal rimpianto del paradiso. Abbiamo già accennato alla vera e propria venerazione che Cioran nutre per la musica: egli le assegna addirittura virtù cosmogoniche e trascendenti e la considera l’unica illusione salvifica552. Ciò che a noi interessa qui è però il suo carattere di infinito attuale553

“[La musica] è l’assoluto colto nel tempo, ma incapace di rimanervi, un contatto supremo e fuggevole insieme. Perché rimanesse, sarebbe necessaria una emozione musicale ininterrotta. La fragilità dell’estasi mistica è identica. In entrambi i casi la stessa sensazione di incompiutezza, accompagnata da un rimpianto lacerante, da una

nostalgia sconfinata

:

554

”.

550 Cfr. paragrafo 2.1 del presente elaborato. 551

Lacrime, p. 16-17.

552 Questa parte della riflessione cioraniana esula dal percorso della nostra analisi: rimandiamo a S. Jaudeau,

Mistica e saggezza, in id., op. cit., pp. 93-102 per ulteriori approfondimenti.

553 Sillogismi, p. 101: “L’infinito attuale, un nonsenso per la filosofia, è la realtà, l’essenza stessa della

musica”.

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La possibilità di accedere all’assoluto, seppur in maniera effimera, concessa dalla musica è accompagnata da “un rimpianto lacerante”, da “una nostalgia sconfinata”: esattamente i medesimi sentimenti descritti da Cioran in precedenza; si tratta, ancora una volta, del rimpianto lacerante, sofferto, per la perdita di una condizione esterna al tempo colta all’interno del tempo stesso (non a caso, nella citazione riguardante l’ermeneutica delle lacrime si sosteneva che esse “conferiscono un carattere di eternità al divenire, lo salvano555”) – condizione che abbiamo sinora chiamato paradiso – e di una nostalgia sconfinata nei confronti di tale stato. Questo è il motivo per cui la vita altro non è che il dipanarsi di un rimpianto – questo il senso metafisico delle lacrime. Riteniamo ora importante sottolineare come non vi sia necessariamente coincidenza tra lacrime metafisiche e pianto fisico; in Cioran si tratta ovviamente del primo caso, si tratta di un pensiero che trae il suo tono dalle lacrime stesse:

“A pensarci seriamente, che senso ha tutto questo? Perché porsi dei problemi, cercare di far luce o accettare delle ombre? Non farei meglio a seppellire le mie lacrime nella sabbia in riva al mare, in completa solitudine? Ma io non ho mai pianto, perché le

lacrime sono diventate pensieri, amari come le lacrime556”.

Non abbiamo parlato casualmente di tono: infatti, come vedremo nel capitolo seguente557

“Le lacrime, criterio di verità nel mondo dei sentimenti. Lacrime, non pianti. Esiste una predisposizione alle lacrime che si manifesta in una valanga interiore. Ci sono de- gli iniziati in fatto di lacrime, che non hanno mai pianto realmente

il tono riguarda proprio l’interiorità, la profondità di ogni essere umano: possiamo dire qui la sua parte non terrestre.In questo caso l’impossibilità di piangere è ciò che causa la metamorfosi delle lacrime in pensieri – pensieri appunto amari come le lacrime.

558

”.

Come recita questo aforisma, da noi posto in epigrafe, esiste una sorta di iniziazione alle lacrime, assolutamente indipendente dal pianto reale, ossia fisico, esteriore: la predisposizione metafisica alle lacrime si manifesta piuttosto in una sorta di valanga

555 Lacrime, p. 73.

556 Al culmine, p. 48, corsivo nostro. 557 Cfr. paragrafo 3.2 del presente elaborato. 558 Lacrime, p. 38.

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interiore. A nostro avviso, tale predisposizione coincide con la capacità del singolo di innalzarsi al di sopra di se stesso, di comprendere la propria irrealtà e quella del mondo, di andare nella direzione della propria sostanza interiore. Le lacrime, poi, rappresentano l’unico criterio di verità nel mondo dei sentimenti, in quel mondo che sfugge al concetto, perché coglie ed esprime le profondità dell’uomo. Questa concezione della profondità delle lacrime, della loro verità in merito al mondo dei sentimenti è esattamente la medesima di cui ci occuperemo nel paragrafo 3.6 del nostro elaborato: in quel caso, però, la riferiremo a un’altra forma di espressività estranea al concetto e vicina a quelle che Cioran chiama le radici della vita – l’urlo. Teniamo quindi a mente le pur sommarie notazioni qui svolte in quanto ci torneranno utili. Bisogna ora però comprendere da dove derivi l’impossibilità cioraniana al pianto, alle lacrime e che rapporto intercorra tra tale incapacità e la sua opera.

“Lo scrivere sarebbe un atto insulso e superfluo se si potesse piangere a piacimento, e imitare i bambini e le donne in preda alla rabbia559… Nella pasta di cui siamo fatti, nella sua più profonda impurità, è insisto un principio di amarezza che solo le lacrime leniscono. Se ogni volta che i dispiaceri ci assalgono avessimo la possibilità di liberarcene con il pianto, le malattie vaghe e la poesia scomparirebbero. Ma una reticenza innata, aggravata dall’educazione, o un funzionamento difettoso delle ghiandole lacrimali ci condannano al martirio degli occhi asciutti560”.

Emerge già a questo livello l’idea della scrittura come terapia, come liberazione dalle proprie ossessioni e dai propri abissi di cui ci occuperemo nel finale del capitolo seguente561: l’unica terapia e l’unica liberazione possibile per i condannati “al martirio degli occhi asciutti”. Infatti se l’uomo potesse abbandonarsi liberamente al pianto e alla rabbia, allo stesso modo delle donne e dei bambini, la terapia che la scrittura rappresenta non servirebbe, sarebbe superflua e insulsa: infatti, tali risorse sono più vicine a quelle che Cioran chiama le fonti della vita562

559 Al culmine, p. 130: “Come mai le donne non scrivono? Perché hanno la risorsa del pianto”.

di quanto lo siano le parole, intrinsecamente superficiali. Il “principio di amarezza” insito nella “più profonda impurità” della “pasta di cui siamo fatti” non può essere lenito altrimenti che dalle lacrime. Sia “le malattie vaghe” (quei malesseri che permettono

560 Sommario, pp. 62-63.

561 Cfr. paragrafo 3.7 del presente elaborato.

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l’emergere della coscienza, anzi che sono la coscienza?) che “la poesia” scomparirebbero se potessimo sfruttare questa risorsa. La nostra impossibilità a servircene deriva da una “reticenza innata” o da un “funzionamento difettoso delle ghiandole lacrimali”, aggravati poi dall’educazione. Cioran ribadisce il medesimo concetto anche ne La caduta nel tempo:

“Quelli che cedono alle proprie emozioni o ai propri capricci, quelli che si infuriano dall’alba al tramonto sono al riparo da turbe gravi. […] Per essere normali, per conservarsi in buona salute, non dovremmo prendere a modello il saggio bensì il bambino, rotolarci per terra e piangere tutte le volte che ne abbiamo voglia. Che cos’è più deplorevole del volerlo e non osare farlo? Per aver disimparato le lacrime, noi siamo senza risorse – inutilmente inchiodati ai nostri occhi. Nell’Antichità si piangeva; e così pure nel Medioevo e durante il Grand Siècle […]. Successivamente, a parte l’intermezzo romantico si è gettato il discredito su uno dei rimedi più efficaci che l’uomo abbia mai posseduto. Si tratta di una disgrazia passeggera o di una nuova concezione dell’onore? Ciò che pare sicuro è che tutta una parte delle infermità che ci travagliano, tutti questi mali diffusi, insidiosi, non identificabili, derivano dall’obbligo che abbiamo di non esternare le nostre frenesie o le nostre afflizioni. E di non lasciarci andare ai nostri istinti più antichi563”.

Ancora una volta il modello risiede nel bambino che non teme di rotolarsi per terra e di piangere ogni volta che ne ha voglia e non nella rassegnazione compassata del saggio. L’aver disimparato le lacrime ci rende disarmati di fronte alla sofferenza del mondo, “inutilmente inchiodati ai nostri occhi”. Tra l’altro, questo impedimento è una prerogativa di noi moderni: nessuna delle epoche precedenti ha conosciuto, secondo Cioran, tale rifiuto. Ad ogni modo, sia che si tratti di una sorta di moda o di una concezione dell’onore, il divieto di “non lasciarci andare ai nostri istinti più antichi”, di “non esternare le nostre frenesie o le nostre afflizioni” causa la permanenza di “tutta una parte delle infermità che ci travagliano”, di molti “mali diffusi, non identificabili”. Questa notazione è molto interessante in quanto, come abbiamo sottolineato poco sopra, i mali diffusi, vaghi potrebbero, a nostro avviso, essere riconducibili a quei malesseri che risultavano essere la coscienza stessa564

563 La caduta, p. 116.

. Si potrebbe ipotizzare che il rifiuto che l’uomo moderno oppone al pianto sia una delle cause dell’emergere della coscienza, o quantomeno dell’esasperazione della stessa? Non crediamo sia così azzardato

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sostenerlo: com’è noto, la preminenza della coscienza è una conquista moderna, così come la sua esasperazione progressiva. Purtroppo non abbiamo trovato ulteriori elementi che ci permettano di confermare o confutare tale assunto. Siamo costretti quindi a sospendere il giudizio, a limitarci a considerarla un interessante coincidenza… Ad ogni modo, dato che è impossibile per noi far uso del pianto, pur sentendone la necessità, dobbiamo trovare altre valvole di sfogo per le nostre ossessioni, per le nostre profondità. È Cioran stesso a suggerirci una soluzione: all’inizio della citazione tratta dal Sommario di decomposizione, Cioran sottolineava come la scrittura fosse addirittura inutile e insulsa di fronte alla risorsa del pianto. Lo aveva già affermato in Al culmine della disperazione in merito alla (presunta) scarsa produttività letteraria delle donne, causata, a suo avviso, dall’utilizzo di tale rimedio. Pertanto, la soluzione concessa a noi

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