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Il tempo della fine: la morte

“La morte è ciò che fino a ora la vita ha inventato di più solido320”.

Il tema della morte è a dir poco centrale nella riflessione cioraniana: abbiamo già accennato a come egli, a soli ventidue anni, si reputasse uno specialista in questo campo. La morte, in effetti, è uno dei demoni personali di Cioran. In un passo addirittura arriva a sostenere che nei momenti in cui non pensa alla morte gli sembra di barare321

320 Squartamento, p. 172.

. Il pensiero della morte, il desiderio della morte, lo stesso statuto ontologico della morte (la sua realtà), il sentimento del cadavere sono motivi ricorrenti nella sua opera. Questo, ovviamente, non stupisce, dato che, come vedremo in seguito, l'opera cioraniana è riflesso di momenti di estrema depressione e, al contempo, rituale messo in atto per liberarsi di frammenti di sé stesso ed evitare così l'estremo gesto. “Se non lo avessi scritto, certamente avrei messo fine alle mie notti”, così termina la prefazione ad Al culmine della disperazione (tra l'altro, titolo tratto da un articolo di cronaca nera riguardante un suicidio). Il pensiero del suicidio, oltre a riflessioni profonde sull'istinto omicida, sugli assassini sono anch'essi ricorrenti nei testi di Cioran. Per tutta la vita ciò che Cioran scriverà sarà la trasposizione su carta dei suoi istinti suicidi: scrivo per

321 L’inconveniente, p. 34: “Ogni volta che non penso alla morte ho l’impressione di barare, di ingannare

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evitare di spararmi un colpo di rivoltella, sostiene più volte. Ed è pertanto quasi fisiologico riscontrare una serie quasi ossessiva di visioni della morte, di riferimenti ad essa, di indagini quasi, dei suoi mille aspetti. Indubbiamente il tema della morte, della paura della morte, dell'angoscia che deriva dallo scoprirsi mortali, dalla vista del cadavere lo avvicina agli esistenzialisti (la vulgata cioraniana, se è lecito parlare così, si indirizza quasi totalmente in tale direzione), ma ribadiamo ancora una volta la nostra diffidenza nei confronti di tali operazioni di scuola. Non intendiamo quindi impegnarci in un confronto tra le posizioni dell’esistenzialismo e la visione cioraniana: sarebbe, a nostro avviso, fuori dalla nostra capacità, oltre che superfluo ai fini della nostra analisi. Ci limiteremo quindi a una ricognizione di alcuni testi cioraniani, consapevoli dell’inevitabile incompletezza, oltre che dell’arbitrarietà della scelta. In Al culmine della disperazione e in Sommario di decomposizione scopriamo due capitoli che potremmo definire speculari: entrambi divisi in tre paragrafi, si intitolano rispettivamente – e significativamente – Sulla morte e Variazioni sulla morte322. Vediamoli nel dettaglio.

“Si può parlare della morte senza l'esperienza dell'agonia? Si capisce la morte solo a patto di sentire la vita come un'agonia prolungata in cui vita e morte si intrecciano. La morte non è qualcosa di esterno, ontologicamente diverso dalla vita, poiché la morte come realtà autonoma non esiste323

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Di sfuggita notiamo come l’evoluzione del titolo da Sulla morte di Al culmine a Variazioni sulla morte del

Sommario potrebbe essere spiegabile mediante un ritorno ossessivo sullo stesso tema, una variazione

appunto; il medesimo processo è all’opera nelle Variazioni Goldberg di Bach in cui tutto è infatti ripetizione, ritorno delle medesime note.

. Entrare nella morte non vuol dire, come credono la mentalità corrente e il cristianesimo in generale, esalare l'ultimo respiro per accedere a una regione diversa, ma significa scoprire nella progressione della vita un cammino verso la morte, e riconoscere nelle pulsazioni vitali uno sprofondare in essa. Nel cristianesimo e nelle metafisiche che ammettono l'immortalità l'ingresso nella morte è un

trionfo, un accesso a regioni metafisiche diverse da quelle della vita. Con la morte, che

diventa una regione a sé stante dell'essere, l'uomo si libererebbe, e l'agonia, invece di aprire prospettive verso la vita, scoprirebbe sfere che la trascendono completamente. A differenza di queste visioni, il vero senso dell'agonia, a mio avviso, è la rivelazione dell'immanenza della morte nella vita. Perché pochi soltanto hanno il sentimento di questa immanenza, e l'esperienza dell'agonia è così rara? Sarebbe dunque falsa tutta la nostra supposizione, e l'idea di una metafisica della morte diventerebbe verosimile solo concependo la trascendenza di questa? Gli uomini in perfetta salute, normali e mediocri non hanno né l'esperienza dell'agonia né il sentimento della morte. Vivono come se la loro vita avesse un carattere definitivo. Rientra nella struttura del loro equilibrio superficiale avvertire la vita affatto indipendente dalla morte e oggettivare questa in una

323 È costitutivamente insignificante: per questo, nel paragrafo 1.2, si sosteneva che essa non è reale, non ha

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realtà trascendente. Così essi considerano la morte come proveniente dall'esterno e non come una fatalità inerente all'essere. Vivere senza il sentimento della morte è vivere la dolce incoscienza dell'uomo comune, che si comporta come se la morte non fosse una presenza eterna e sconvolgente324”.

La morte come regione distinta dalla vita, regione a cui si concede uno statuto ontologico e metafisico diverso, se non superiore a quello della vita stessa, regione a cui accedere come in trionfo in quanto si giungerebbe tramite essa a una liberazione. L’agonia come via d’accesso a prospettive completamente trascendenti alla vita. Questo l’insegnamento del cristianesimo, questo il credo dell’uomo comune secondo il giovane Cioran. In definitiva la proiezione della morte all’esterno, il suo travestimento in accidente, l’oblio del senso del cadavere e del sentimento della morte. L’illusione di una vita eterna, anzi del raddoppiarsi della vita eterna: vita eterna in vita, potremmo dire, in quanto non viene percepita la finitudine della propria esistenza e si vive come se la vita avesse carattere definitivo, avesse un senso reale; e vita eterna dopo la vita, nella morte in quanto promessa escatologica, di salvezza e liberazione in una regione al di là della vita. Ciò che invece afferma il giovane Cioran è l’immanenza della morte nella vita, il riconoscere nella vita un cammino verso la morte e nelle pulsazioni vitali uno sprofondare in essa. L’agonia non sarebbe pertanto via d’accesso a una trascendenza misteriosa, ma bensì un’apertura di prospettive verso la vita, una maggior comprensione della vita attraverso la scoperta della presenza sconvolgente ed eterna della morte all’interno della vita stessa. Vediamo ora come si è evoluta (o meglio se si è evoluta) tale concezione nel Sommario:

“Si possono classificare gli uomini secondo i criteri più fantasiosi: in base agli umori, alle inclinazioni, ai sogni o alle ghiandole. Si cambia idea come si cambia cravatta; giacché ogni idea, ogni criterio viene dall'esterno, dalle configurazioni e dagli accidenti del tempo. Ma c'è qualcosa che viene da noi stessi, che è noi stessi, una realtà invisibile, ma interiormente verificabile, una presenza insolita e perenne, che si può concepire a ogni istante senza che mai si osi ammetterla, e che non ha attualità se non prima del suo compimento: è la morte il vero criterio... Ed è lei, la dimensione più intima di tutti i vivi, a separare l'umanità in due ordini così irriducibili, così lontani l'uno dall'altro che vi è più distanza tra loro che non fra un avvoltoio e una talpa, fra una stella e uno sputo325”.

324 Al culmine , pp. 33-34. 325 Sommario , p. 23.

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Questo secondo passo è un’evidente elaborazione in stile diverso del medesimo nucleo concettuale sotteso al precedente: la sua importanza, però, non si riduce all’apprezzamento di tale mutamento stilistico, ma riguarda anche un approfondimento del tema. L’affermazione dell’immanenza della morte nella vita è qui ribadita in maniera ancora più incisiva: nel distinguere, come nel passo precedente, tra l’uomo che ha il sentimento della morte e colui che non l’ha326

326 “L’uomo in perfetta salute, normale, mediocre”: cfr. S. Jaudeau, Conversazioni con Cioran, p. 20: “Un

minimo di squilibrio è di dovere. All'essere perfettamente sano, psichicamente e fisicamente, manca un sapere essenziale. Una salute perfetta è a-spirituale”. Un’ulteriore prova del fatto che, nel suo nucleo, la visione cioraniana rimane immutata nel corso della sua riflessione: è molto significativo, infatti, che a distanza di circa 57 anni Cioran utilizzi esattamente i medesimi termini. È all’opera, da sempre, la medesima idea per la quale il malessere, lo squilibrio è necessario alla conoscenza – a quella dissociazione dalla natura, dal pulsare organicamente al mondo che è, al contempo condanna e rivelazione.

, Cioran afferma l’interscambiabilità, e quindi l’equivalenza, di ogni criterio e di ogni idea, in quanto provenienti dall’esterno, dall’accidentalità e dalla configurazione temporale. L’unico criterio vero per tale classificazione risiede in noi stessi, anzi “è noi stessi”: “una realtà invisibile”, ma che – di diritto – è concepibile ad ogni istante anche se – di fatto – almeno per la maggior parte degli uomini resta inconcepita, in quanto non si osa concepirla, e “che non ha attualità se non prima del suo compimento” – in una parola l’unico criterio risiede nella morte. È opportuno, a nostro avviso, soffermarsi su queste parole e soppesarle a una a una; innanzitutto la morte viene qui immediatamente affermata come realtà: a prima vista sembrerebbe una contraddizione con il passo tratto da Al culmine per cui, ricordiamolo, “la morte come realtà autonoma non esiste”. Ma la contraddizione, in questo caso, è solo apparente: anche nel passo che stiamo esaminando la morte non è in se stessa, non ha realtà a se stante, ma piuttosto viene da noi stessi, anzi è noi stessi. Non è “qualcosa di esterno, ontologicamente diverso dalla vita”, bensì “una realtà invisibile, ma interiormente verificabile”. In entrambi i passi, come si vede, viene ribadita l’immanenza, l’interiorità della morte e, contro il senso comune e il cristianesimo, negata esplicitamente la sua trascendenza. La morte è “una presenza eterna e sconvolgente” (in Al culmine), mentre nel Sommario la presenza della morte è “insolita e perenne”: notevole questo passaggio dallo sconvolgimento di colui che si dispera della propria sorte, di chi vive tale rivelazione con dolorosa angoscia al garbo, quasi distratto, di colui che considera la presenza perenne della morte semplicemente come insolita. A nostro avviso, Cioran stesso rende conto di questo mutato atteggiamento: conclude infatti i suoi Sillogismi con questo aforisma, irridente nei confronti di se stesso e della morte stessa: “Appena adolescente la prospettiva della morte mi gettava nell'angoscia;

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per sfuggirvi mi precipitavo al bordello o invocavo gli angeli. Ma, con l'età, ci si abitua ai propri terrori, non si fa più niente per liberarsene, ci si imborghesisce nell'Abisso. – E se ci fu un tempo in cui invidiavo quei monaci egiziani che scavavano le loro tombe per versarvi lacrime327, oggi scaverei la mia per non lasciarvi cadere altro che cicche328”. Suprema zeflemea, potremmo aggiungere, mista a un’ironia tutta francese. E spiegazione più che esauriente del mutamento di tono riguardo agli attributi della presenza della morte. Procediamo. La morte è questa insolita presenza che l’uomo comune non osa concepire: presenza che è perenne e, al contempo, quasi sempre potenziale in quanto “non ha attualità se non prima del suo compimento”. La morte, sempre presente, è come un’ombra verso cui si avanza, ma siamo noi che proiettiamo quest’ombra. È la nostra ombra quella verso cui avanziamo, l’ombra che siamo sempre stati, l’ombra che siamo. Non a caso Cioran qualifica la morte come “la dimensione più intima dell'essere vivente”. Scoprirsi vivente significa scoprirsi mortale. “Non muori perché sei malato, muori perché sei vivo” scriveva Montaigne. Caratteristica formativa del vivente, del mortale è proprio il dover morire (Heidegger direbbe l'essere per la morte), l'aver da morire. Noi procediamo un passo dopo l’altro verso la morte: a partire dall’inconveniente della nascita la nostra vita non è che l’avanzare verso la morte. “La vita, lungi dall’essere […] l’insieme delle funzioni che resistono alla morte, è piuttosto l’insieme delle funzioni che ci trascinano ad essa329”, scrive Cioran. A nostro avviso è significativo come si parli qui di funzioni, di automatismi quasi, che inevitabilmente ci costringono, “ci trascinano”, con la stessa autorità di una forza meccanica, verso quell’evento che non osiamo concepire e che pertanto cerchiamo di occultare in mille modi. Sempre ne La tentazione di esistere troviamo, questa volta all’interno delle famose Rabbie e rassegnazioni – così tipicamente rumene330 –, un capitoletto intitolato Significato della maschera che reputiamo opportuno ascoltare qui:

“Il nostro pensiero, per quanto lontano si inoltri e per quanto distaccato sia dai nostri interessi, esita tuttavia a designare certe cose con il loro nome. Si tratta del nostro ultimo

327 Lacrime, p. 86: “Spesso mi metto a pensare a quegli eremiti della Tebaide che si scavavano una tomba

per versarvi giorno e notte le loro lacrime. Se qualcuno chiedeva il motivo di tanta afflizione, rispondevano che piangevano la loro anima. Nell'indeterminatezza del deserto, la tomba è un'oasi, un luogo e un sostegno. Si scava il proprio buco per avere un punto fermo nello spazio. E si muore per non smarrirsi”.

328 Sillogismi, p. 125.

329 La tentazione, pp. 202-203.

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sgomento? Il pensiero lo scansa, ci tratta con cautela e ci lusinga. Così, quando il «destino», dopo una lunga serie di prove, si rivela a noi, il pensiero ci invita a vedervi un limite, una realtà al di là della quale ogni ricerca sarebbe vana. Ma è davvero questo limite, questa realtà, come il pensiero pretende? Ne dubitiamo, tanto esso appare sospetto ogni qual volta vuole convincercene e imporcelo. Avvertiamo distintamente che il «destino» non può essere un termine, e che attraverso di esso si manifesta un’altra forza, quella sì suprema. Quali che siano gli artifici e gli sforzi del nostro pensiero per dissimularcela, finiamo tuttavia per identificarla, per attribuirle un nome perfino. E il «destino» che sembrava riunire in sé tutti gli attributi del reale, ora non è più che un volto. Un volto? Neanche questo, un travestimento piuttosto, una semplice apparenza di cui questa forza si serve per distruggerci senza urtarci. Il «destino» non era che una maschera, come è maschera tutto ciò che non è la morte331”.

Tutto ciò che non è la morte è maschera, è occultamento: possiamo spingerci oltre e dire che è simulazione. La morte è essenziale, è ciò che esiste di più profondo in noi, la nostra dimensione più intima: per cautela, per sopravvivenza lo spirito la dissimula, apponendole una maschera, un travestimento; lo spirito, cioè, attribuisce realtà ultima all’idea di «destino», lo qualifica come limite per impedirci ogni ricerca ulteriore. Perché una ricerca ulteriore, una ricerca che vada più a fondo, che scavi maggiormente, approderebbe all’indicibile della morte. Lo spirito stabilisce, postula un termine oltre il quale non si può (o non si deve) andare, circoscrive il campo di indagine, conferendo l’illusione che esso sia tutto il campo indagabile. Ma questa circoscrizione è indebita e per operare in tal senso lo spirito deve sforzarsi e utilizzare artifici. Deve ingannare. Perché la forza suprema possa distruggerci senza urtarci, quindi senza contatto, a distanza. Perché la morte possa lavorare su di noi in maniera inavvertita, perché essa possa sopraggiungere come un accidente e non mostrarsi nei suoi caratteri di fatalità. Perché l’uomo possa rimanere alla superficie delle cose, nell’esteriorità di ogni idea e criterio, “nello scenario intercambiabile, nel mondo convenzionale in cui vive332

331 La tentazione, p. 185, corsivo nostro.

”. Queste parole, tratte da La paura più antica. A proposito di Tolstoj contenuta ne La caduta nel tempo, sono la definizione esatta del mondo creato dallo spirito che, ricordiamolo, metaforizza, lima l’effigie dell’incomunicabile per renderlo trasmissibile, non sopporta i silenzi grevi (il silenzio della morte?) e si innalza al livello dell’astrazione e del concetto. Emerge qui quell’elemento di differimento, di distanza che, a nostro avviso, è l’azione distanziante del far segno, del segno. È la freccia di Apollo che colpisce da lontano, è la luce accecante che cancella l’ombra: è la metafisica

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così come la intende Nietzsche (e, in seguito, Heidegger e la tradizione che da lui trae spunto). La terminologia scelta da Cioran è ancora una volta rivelatrice: la maschera, vocabolo tipicamente nietzschiano, e gli artifici a cui lo spirito deve ricorrere – termine illuminante per la nostra analisi: ricordiamolo, ci servirà presto – sono sintomi che svelano come la forza all’opera qui sia appunto quella metaforizzante dello spirito, forza che viene a coincidere con la nozione di metafisica. Quella metafisica che deve necessariamente dissimulare la morte, la portata della morte, a costo della sua stessa sopravvivenza, della sopravvivenza dell’uomo attivo. È qui in “questione […] la fuga dalla morte, il rifiuto della morte. Più si è civilizzati (nel senso deteriore del termine), più si rifiuta la morte. Per la gente di campagna, per gli antichi abitanti della terra, la vita e la morte erano sullo stesso piano. Il cittadino, invece, accantona la morte, la elude333”. Il cittadino, cioè, si preoccupa di “eludere la presenza della morte, per velarla e mascherarla. Questo è il motivo per cui l’uomo occidentale, l’uomo civilizzato si sente male e corre dal medico, dal farmacista334”, affidando, come sostiene in maniera molto acuta Luis Jorge Jalfen (l’intervistatore di Cioran nella fattispecie335), l’amministrazione della morte alla “medicina – che è la sua burocratizzazione336”. “Più di chiunque altro, il malato dovrebbe identificarsi con la morte; eppure si sforza di distaccarsene e di proiettarla al di fuori. Siccome gli è più facile fuggirla che constatarne la presenza dentro di sé, mette in atto ogni artificio per sbarazzarsene. Trasforma la propria reazione di difesa in uno schema, anzi in una dottrina. L’uomo comune che gode di buona salute è estasiato di poterlo imitare e seguire. […] Gli stessi mistici usano sotterfugi, praticano l’evasione e una tattica di fuga: la morte per loro è solo un ostacolo da superare, una barriera che li separa da Dio, un ultimo passo nella durata. […] Di nuovo questo bisogno di fare della morte un accidente o un mezzo, di ridurla al momento del trapasso invece di considerarla una presenza, di nuovo questo bisogno di spossessarla337

333

Apolide, p. 115.

”. La burocratizzazione della morte, il suo inserimento in una procedura o in una dottrina, significa ancora una volta ridurne la portata, eluderne la presenza, simulare la possibilità di scongiurarla. Ma la burocratizzazione della morte, la sua traduzione in una serie di operazioni, in un programma, altro non è che il riflesso esteriore di una forza sotterranea

334 Ibidem.

335 Intervista con Luis Jorge Jalfen, in Id., Occidente y la crisis de los signos, Editorial Galerna, Buenos

Aires 1982; ora in ivi, pp. 113-127.

336 Ivi, p. 115.

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che mira a occultare il cadavere, non è altro che il lato visibile della volontà di sistema. E volontà di sistema è solo uno dei tanti nomi della metafisica.

“Come spegnersi all’interno di un sistema? E come marcire? La metafisica non lascia nessuno spazio al cadavere. Né, d’altra parte, all’essere vivente. Più si diventa astratti e impersonali, a causa di concetti o pregiudizi che siano (i filosofi e gli spiriti comuni si muovono ugualmente nell’irreale), più la morte prossima, immediata, sembra inconcepibile338”.

Sia la burocratizzazione che l’astrazione operata dallo spirito mirano all’impersonalità, a espellere dal concepibile la morte prossima, immediata, mediante un’opera di distanziamento. Riprendendo i termini del sopra citato Significato della maschera, il frapporre fra noi e la forza suprema un simulacro apparentemente ultimo quale il «destino» mira a far sì che l’azione della morte in noi risulti inavvertita, non ci urti, non ci sconvolga.

“In nessun modo legata al nostro livello intellettuale, la morte, come ogni problema privato, è riservata a un sapere senza conoscenze. Ho avvicinato molti illetterati che ne parlavano con più pertinenza di un metafisico; avendo individuato con l’esperienza l’agente della loro distruzione, vi consacravano tutti i loro pensieri, sicché la morte, invece di essere per loro un problema impersonale, era la loro realtà, la loro morte339”.

Un problema privato, non comunicabile, non trasmissibile, personale: un problema che non assurge al livello del concetto, che non si lascia irretire in una definizione340

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