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Un percezionismo zen Hidetoshi Nagasawa

2. CORPO, MATERIA, AMBIENTE PERCORSI AUTONOM

2.4. Un percezionismo zen Hidetoshi Nagasawa

Nell’agosto del 1967, settimane prima del “battesimo” dell’Arte Povera, il manciuriano Hidetoshi Nagasawa59 (1940) si stabilisce a Milano dopo un lungo viaggio in bicicletta che lo ha visto attraversare il continente asiatico, passare per la Grecia e arrivare finalmente in Italia, dove stringe rapporti con artisti quali Enrico Castellani, Luciano Fabro e Antonio Trotta. Stimolato dal clima artistico milanese Nagasawa orienta le sue prime ricerche sulla manipolazione e la dissezione di oggetti comuni come scarpe, lampadine o imbuti sulla scorta della lezione di Arman, ma comincia anche a interessarsi alle pratiche concettuali e processuali che andavano frattanto a imporsi sulla scena dell’arte. Opere come Air Atmosphere o Water One Parts of Sea, entrambe del 1968, sono frutti dello stesso riduzionismo concettuale caratterizzante le Tautologie di Fabro o i Perimetri di Prini: si tratta infatti di porzioni di aria e di acqua contenute in semplici scatole di plexiglass chiamate ad affermare la loro stessa presenza. Si instaura qui una dialettica tra l’instabilità della materia, data allo stato liquido o gassoso, e la stabilità dei solidi contenitori molto diversa da quella dei 32 mq di mare di Pascali: non vediamo infatti il tentativo di reinventare e rettificare la natura, quanto quello di innescare un gioco di trasparenze volto a depistare l’occhio del fruitore allenandolo a quel “vedere attraverso” che costituisce il vettore ideale di ogni atto artistico concettuale. “Il mio lavoro – afferma Nagasawa nei primissimi anni Settanta – consiste nel cercare uno spazio di tensione all’interno degli oggetti”, di cogliere, per il tramite dell’intuizione, “l’essenza degli oggetti al di sopra di qualsiasi identità di colore, forma odore in cui si trova soggettivamente l’oggetto”60

. Motore della sua poetica è un principio profondamente radicato nella cultura giapponese, quello del “Ma”, che indica l’impercettibile intervallo tra le cose esistenti, un vuoto denso, pieno di energia, che non è dato vedere ma che si configura come prezioso spazio di vita61. La pratica della

59 Per una conoscenza globale del percorso artistico di Nagasawa fino alla metà degli anni Novanta si

veda C. Niccolini, Nagasawa. Tra cielo e terra. Catalogo ragionato delle opere dal 1968 al 1996, De Luca, Roma 1997. Per altri utili approfondimenti si vedano Hidetoshi Nagasawa, testo di Toshiaki Minemura, Gallery UEDA, Tokyo 1991; R. Pajano (a cura di), Nagasawa, Comune di Bologna, Bologna 1993; E. Pontiggia (a cura di), Nagasawa. Ex Oriente, Il Quadrante, Torino 1988; Nagasawa, testo di Jole De Sanna, Mudima, Milano 2003; Hidetoshi Nagasawa, Damiani, Bologna 2007; B. Corà, A. Iori (a cura di), Hidetoshi Nagasawa. Ombra verde, Quodlibet, Macerata 2013.

60 H. Nagasawa, Nagasawa, «Flash Art», 37, VI, 1972, p. 10.

61 Sul ruolo del “Ma” nella poetica dell’autore si veda C. Niccolini, Nagasawa. Tra cielo e terra, cit., pp.

misurazione, già adottata da autori come Icaro, Mattiacci o Bochner, entra presto nella ricerca di Nagasawa come espediente per ripossedere il reale nelle sue estensioni immediatamente avvertibili, e permette all’autore di riconfigurare la distanza tra le cose come concreta manifestazione del “Ma”. Con opere del 1968 come Tubo ricurvo, Un

buco di 10.000 metri o Corda si avverte chiaramente il tentativo di ricongiungere il

visibile e l’invisibile facendo leva sul principio gestaltico della chiusura, la tendenza del cervello a completare i dati visivi mancanti integrandoli concettualmente: questi oggetti incompleti e “monchi” si offrono infatti alla percezione come parti di un tutto ben più vasto che solo la pratica artistica è capace di far affiorare.

Una più diretta relazione con l’ambiente si fa quanto mai necessaria a questo punto del percorso di Nagasawa, come dimostrano gli interventi compiuti in zone di campagna della Lombardia e del Trentino. Caduta, un’installazione di dieci colonne gonfiabili sul lago di Anfo, in provincia di Brescia, nell’agosto del 1968, attesta la volontà di dare forma al vuoto assecondando così i fondamenti dell’estetica zen62 e di affrontare in modo più diretto la sfasatura tra visibile e invisibile già contemplati in Tubo ricurvo, Un

buco da 10.000 metri e in Corda. In questa nuova operazione però non vi è più nessun

tentativo di illudere la percezione, e gli oggetti spariscono per cedere il posto alla piena esercitazione di forze fisiche, in un conflitto energetico che ci permette di accordare una avvicinamento dell’autore alla poetica di Anselmo. L’influsso delle ricerche italiane, del resto, si manifesta anche in una performance come Atlante (1968) in cui l’artista si fa fotografare in piedi su una sedia nell’atto di reggere un mappamondo, quasi a riproporre quel gesto di virtuale appropriazione del mondo che Piero Manzoni aveva compiuto nel 1961 con Le Socle du Monde. Nel dicembre del 1968 Nagasawa realizza a Bellagio, in provincia di Como, Neve e sassi, una sorta di giardino zen composto da un certo numero di sassi disposti lungo il perimetro di un quadrato. Fotografando più volte, nel giro di alcuni mesi, la composizione, l’artista registra le alterazioni dovute ai mutamenti climatici, spostando così la problematica della distanza dal piano spaziale a quello temporale. La necessità di un più intimo rapporto con la natura porta però Nagasawa a intervenire sul medesimo paesaggio facendosi egli stesso causa di alterazioni minime ma effettive, invertendo la terra tra due zolle, riempiendo le buche trovate con dei sassi o spaccando una pietra contemplando la complementarità della frattura per poi

62 Si veda in merito G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente (1992),

ricomporla senza lasciare tracce visibili della sua azione. Si tratta di interventi avvicinabili a quelli compiuti da Penone sulle Alpi marittime nel 1968-69 o forme di quella che potremmo definire una Land Art “in miniatura”, estremamente più discreta di quella americana. Di questa modalità di relazione con l’ambiente, Nagasawa darà altri due importanti esiti quando provvederà a trasferire trenta litri d’acqua dal Lago di Lecco al Lago di Pian Palù, vicino Pejo, nell’estate del 1969, e quando scaverà e ricoprirà due piccole buche rispettivamente all’interno e all’esterno della galleria Françoise Lambert di Milano nel maggio 1970, compiendo così delle modificazioni territoriali effettive ma impercettibili, giocando ancora sui lassi temporali e sulle variazioni statuali.

L’indagine sugli stati della materia e sulla loro variabilità caratterizza altri interventi di matrice processuale che confermano interesse dell’artista per la discreta mutevolezza della natura, con soluzioni che rivelano un suo avvicinamento alle ricerche di Pier Paolo Calzolari e del tedesco Hans Haacke63. Il lento discioglimento di un cubo di ghiaccio secco è infatti il motore dell’opera esposta “clandestinamente” nel marzo del 1969 di fronte alla Kunsthalle di Berna, per l’apertura di When Attitudes Become Form, cui Nagasawa non era stato invitato. L’evaporazione dell’anidride carbonica in condizioni di pressione standard è invece il processo che l’artista ha voluto sfruttare per realizzare dei piccoli geyser in una zona della campagna varesina, nell’ambito di una rassegna curata da Luciano Giaccari sempre nel 1969. Il confronto con vari processi di variazione fisica induce però l’artista nipponico anche a “giocare con il fuoco”, avviando già nel 1969 Pulverize, un ciclo di operazioni in cui oggetti comuni e di varia natura vengono schedati, fotografati e poi disintegrati per combustione. Esito finale di ogni operazione è la contrapposizione tra l’immagine dell’oggetto al suo stato originario e quella delle sue ceneri, ancora nella volontà di esplorare distanze spaziali e temporali. È questo un ennesimo tentativo per demistificare il visibile, riflettendo su quel rapporto tra apparenza e sostanza che era già al centro dei suoi interventi nelle campagne di Varese e di Pejo.

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Oltre alle strutture ghiaccianti, si deve ricordare l’installazione presentata da Calzolari al Teatro delle

Mostre a Roma nel 1968, Un volume da riempire in mezz’ora, un cubo in perspex con del ghiaccio rosa

fluorescente al suo interno. Operazione, questa, che si pone al diretto seguito dei Condensation Cubes realizzati da Hans Haacke a partire dal 1965, cubi di plexiglass in cui si genera la reazione chimica della condensazione, la transizione dalla fase aeriforme alla fase liquida di una sostanza. Per approfondimenti sull’artista tedesco si vedano W. Grasskamp, M. Nesbit, J. Bird, Hans Haacke, Phaidon, London 2004; S. Taccone, Hans Haacke. Il contesto politico come materiale, Plectica, Salerno 2010 e A. Alberro (a cura di), Working conditions. The writings of Hans Haacke, The MIT Press, Cambridge 2016.

Il rapporto tra processo e materia viene indagato da Nagasawa anche in performance affidate alla videoregistrazione come Toccata (1968) in cui l’artista esplora tattilmente il corpo nudo di una donna per poi ripetere i medesimi gesti su una tela con le mani sporche di carbone. Ne risulta così “una sindone profana, che gioca sulla falsità di una traccia impossibile”64

, una sorta di kleiniana antropometria differita, dilatata nel tempo, in cui viene a sfasarsi l’eventuale continuità tra contatto e impronta, per verificare “fino a che punto è possibile ricordare ciò che si è visto attraverso il tatto. Io – afferma infatti l’artista – penso di poter ricordare più attraverso la mano che attraverso l’occhio”65

. Una sfida al regime scopico occidentale, quella di Nagasawa, che prosegue in Vento, azione compiuta nel 1969 nella campagna varesina che vede l’artista camminare a occhi chiusi in un prato seguendo il vento con il dito indice proteso in aria, entrando così in una più intima relazione con i fenomeni naturale, occludendo la vista, il più “teorico” dei nostri sensi, per affidarsi al più primitivo e meno codificato canale percettivo del tatto. Senso, questo, che viene celebrato anche in un’opera come Oro di Ofir (1971), costituita da due grumi di oro modellati dalla semplice stretta del suo pugno. È questa un’opera molto significativa nel percorso dell’autore, perché preannuncia il suo ingresso nel regno della scultura attraverso un atto plastico sorgivo, azzerante, volutamente elementare66, che si carica, mediante il riferimento all’oro posseduto dal Re Salomone, di quella valenza mitica che caratterizzerà la successiva fase di ricerca dell’artista giapponese.