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La povertà “difficile” di Pino Pascal

Un riesame delle personalità coinvolte o escluse dall’Arte Povera deve indurci infine a riflettere con più attenzione sul posizionamento di Pino Pascali (1935-1968): la sua presenza tra le fila dei Poveristi ha destato sin da subito notevoli perplessità, per via del fatto che egli non regredisce mai a uno stadio effettivamente “preiconografico”159, ma rimane implicato nella problematica dell’Im-Spazio. Riosservando attentamente le opere realizzate dall’artista a partire dalla metà degli anni Sessanta, si possono infatti cogliere gli elementi di una poetica genuinamente pop che non verranno mai meno, neppure dopo aver partecipato alla nascita ufficiale dell’Arte Povera. I Frammenti

anatomici (1964-65) rivelano la loro radice pop sia nelle forme sintetiche assunte da un

labbro o da un torso di donna, sia nella logica del blow-up che ingigantisce i dettagli del

158 Per più recenti approfondimenti su queste e su altre opere affini e successive si vedano le dettagliate

schede riportate in G. Maraniello (a cura di), Eliseo Mattiacci, Electa, Milano 2017.

159

Come rilevato già nel 1968 da R. Barilli, Un informale tecnologico?, cit., [s.p.]. Per approfondimenti sul percorso e la produzione di Pascali si vedano Pino Pascali 1935-1968, Mondadori, Milano 1987; L. Caramel, Pino Pascali, Mazzotta, Milano 1983; A. Bonito Oliva, P. Marino (a cura di), L’isola di

Pascali. Pino Pascali 1935-1968, Zelig, Polignano a Mare 1998; Pino Pascali. La reinvencion del mito mediterraneo 1961-1968, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid 2001; A. Bonito Oliva, A.

Tecce, L. Velani (a cura di), Pino Pascali, Electa, Napoli 2004; Pino Pascali. Lavori per la pubblicità, Spaziotempo, Firenze 2006; A. D’Elia (a cura di), Pino Pascali (1983), Electa, Milano 2010; M. Tonelli,

Pino Pascali. Il libero gioco della scultura, Johan & Levi, Milano 2010; Id. (a cura di), Pascali. Catalogo generale delle sculture 1964-1968, De Luca, Roma 2011; C. Lodolo, 32 anni di vita circa. Pino Pascali raccontato da amici e collaboratori, Cambi, Poggibonsi 2012; V. Brandi Rubiu, Vita eroica di Pascali

(1997), Castelvecchi, Roma 2013; L. Barreca (a cura di), Pino Pascali, l’africano, Kalós, Palermo 2015; V. Da Costa, Pino Pascali. Retour à la Méditerranée, Les presses du réel, Dijon 2015.

corpo. Pascali recepisce notevoli stimoli dalle proposte della Biennale di Venezia del 1964 elaborando poi quella sintassi dell’artificio e dell’oggetto che lo avrebbe portato alla realizzazione delle cosiddette “finte sculture”, esiti di un giocoso bricolage che intende spiazzare e ingannare il fruitore. Anche le Armi (1965), citate nel primo scritto di Celant sull’Arte Povera come esiti di un libero configurarsi dell’artista, pertengono ancora a un universo pop, a una poetica dell’artificio: si tratta infatti di grandi armi- giocattolo con cui l’artista può giocare e divertirsi, come dimostrano le note fotografie dell’artista in divisa militare vicino a esse160. All’universo ludico appartengono anche i

Dinosauri, la Vedova Blu, i Bachi da setola e tutti gli altri animali del 1967-68 “rifatti”

con materiali sintetici e coloratissimi, pescati direttamente dal mondo industriale. L’evidente carattere scenografico di queste opere pone il loro fruitore in una condizione quasi attoriale che però non è, come nel caso dell’arte di comportamento, partecipazione ai processi della vita e della materia, ma ingresso in un immaginario fantastico che fa leva ancora su una sintassi iconica, su una sinteticità squisitamente pop. Lo stesso vale per opere del 1967 come Il mare o le Pozzanghere, definite da Celant come “sineddochi naturali di un mondo naturale […] privato di ogni maschera, violato nel suo tabù di banalità, spogliato e denudato”161

, che si rivelano invece essere artificiali, sofisticate. Le vasche dei 32 metri quadri di mare circa (1967), esposte per la prima volta a Lo spazio

dell’immagine, nel 1967, non contengono acqua marina bensì comune acqua colorata

con anilina, che il rigore modulare dei contenitori contribuisce peraltro a determinare plasticamente: il valore visivo appare prioritario rispetto a quello materico e fa ancora leva su logiche illusorie, per una rappresentazione astratta e geometrizzante del mare. Anche la problematica della misurazione, fattasi centrale nelle esperienze concettuali, viene affrontata con una certa ironia, come conferma la presenza di quel “circa” nel titolo, proprio a indicare la vanificazione di criteri esatti in forza di una più sbrigativa approssimazione162. Se le strategie dell’Arte Povera prevedono interventi ambientali diretti, senza filtri e senza mediazioni, con fluidi inneschi processuali o piatte e neutre constatazioni tautologiche, quelle di Pascali provvedono invece ad ampliamenti virtuali dell’ambiente stesso secondo una riedizione artificiale degli elementi naturali, risultando perciò diametralmente opposte. L’autore si fa infatti erede di quell’ambizione a una

160 Si veda in proposito F. Sargentini (a cura di), Pascali performer, L’Attico, Roma 1990. 161 G. Celant, Arte Povera (1967), in Id., Arte Povera. Storie e protagonisti, cit., p. 32. 162 Come rilevato da M. Tonelli, Pino Pascali. Il libero gioco della scultura, cit., p. 86.

“ricostruzione artificiale dell’universo” che risale al Secondo Futurismo e che portava artisti come Giacomo Balla e Fortunato Depero a celebrare le materie sintetiche, le sostanze sgargiantissime e “i liquidi chimicamente luminosi di colorazione variabile”163

, come l’anilina utilizzata da Pascali. Le idee di un giocattolo futurista, di un complesso plastico, di un animale metallico o di un paesaggio artificiale messe a punto da Balla e Depero riaffiorano in tutto l’immaginario dell’artista pugliese, che non rinuncia alla forza plastica dei materiali artificiali e scintillanti neppure nel “rifare” oggetti e reperti di antiche civiltà come L’arco di Ulisse, La tela di Penelope o Il ponte, tutti del 1968, realizzati perlopiù in lana d’acciaio e ispirati dalla lettura de Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss164. L’immaginario è ora mutato e l’artista si avvia alla riscoperta di un mondo lontano e mitico, rigenerando così il rapporto con il proprio, rimanendo pur sempre nella dimensione della virtualità rappresentativa.

Restano però da analizzare le due opere con cui l’artista partecipa alla mostra genovese del 1967 figurando nella sezione Arte Povera, ossia 1 e 2 metri cubi di terra, opere in cui Pino Pascali sembra prendere le distanze dall’elaborazione di un immaginario per spostarsi sulle problematiche della tautologia, sposando così la causa poverista165. Il carattere geometrico dell’opera, che nella mostra genovese fa da contraltare ideale alla coeva Catasta di Boetti, ispira il rimando a una grammatica minimalista che però stride con la comprovata volontà poverista di evadere la rigidità e la regolarità della forma. Sembra intervenire a ovviare a questo problema un intento analitico, l’indicazione di un tautologico atto di misurazione che ascriverebbe le due opere di Pascali al filone del Concettuale, sottolineando la pura autoreferenzialità del cubo terroso. Ma una più attenta analisi dell’opera ci permette di comprendere come questo tentativo si riveli del tutto fallace, segno forse di un’inadeguatezza dell’autore a quelle problematiche: i cubi

163 G. Balla, F. Depero, Ricostruzione futurista dell’universo (1915), in L. De Maria, Filippo Tommaso

Marinetti e i futuristi, cit., p. 173. Riferimenti al manifesto di Balla e Depero e all’estetica futurista più in

generale ricorrono spesso negli scritti su Pascali. Si vedano, a titolo di esempio, M. Calvesi, Pascali tra

l’artistico e l’estetico (1970), in Id., Avanguardia di massa, cit., pp. 123-125; G. Lista, Arte Povera, cit.,

pp. 14-15; V. Brandi Rubiu, Vita eroica di Pascali, cit., p. 24.

164

Come attestato in V. Brandi Rubiu, Vita eroica di Pascali, cit., p. 65. Sull’importanza del testo di Lévi-Strauss per la scena artistica romana degli anni Sessanta e Settanta cfr. F. Sargentini et al., Il

pensiero selvaggio, L’Attico, Roma 2002.

165 Si riprendono e si condividono per l’analisi di queste opere le riflessioni di M. Tonelli, Pino Pascali. Il

libero gioco della scultura, cit., pp. 80-85. Sulle incongruenze tra la poetica di Pascali e l’Arte Povera si

veda anche V. Dehò, M.E. Bertona (a cura di), Pino Pascali e l’Arte Povera, MEB Arte Studio, Milano 2013. Per una diversa considerazione dell’opera di Pascali in ottica poverista si veda invece A. Soldaini,

di Pascali, infatti, si pongono ancora nell’ordine costruttivo delle sue “finte sculture”. Affissi alla parete, come a sfidare la loro ipotetica pesantezza, i due prismi manifestano una compattezza difficile da ottenersi con un materiale così informe e friabile. I blocchi non sono infatti pieni, ma cavi, perché costituiti da leggere intelaiature in legno, come quella dei Dinosauri, ma ricoperte di terriccio. Come per le Pozzanghere, anche qui le dimensioni fornite sono approssimate, ancora una volta a sfidare l’ipotetico valore di verità insito nell’opera. I Metri cubi di terra, dunque, non sono tali come sembrano suggerire i loro titoli, rivelando un carattere tutt’altro che tautologico, attestando ancora per l’autore l’importanza dell’illusione, della virtualità, dell’opera come ludico inganno. Alcune affermazioni dello stesso Pascali non lasciano dubbi sulla contrarietà dei suoi orientamenti poietici in rapporto a quelli poveristi:

Gli americani si possono concedere il lusso di prendere una cosa e di inchiodarla su un quadro e il quadro viene, di prendere un fumetto e rifarlo e il quadro è un quadro perché loro nel loro gesto riassumono storicamente quello che veramente è la loro civiltà, la più progredita dal punto di vista tecnologico. la nostra civiltà è, invece, una civiltà che, sul piano tecnologico, è indietro rispetto a quella americana, per cui un’azione diretta fra uomo e materiale è pazzesco. […] In fondo, ormai, gli artisti devono usare i materiali che fanno gli scienziati perché la natura si è esaurita, è nata una nuova natura. […] Siamo nati qui e abbiamo quel patrimonio d’immagini, ma, proprio per vincere queste immagini, dobbiamo vederle freddamente e, proprio, fisicamente per quello che sono e verificare che possibilità hanno per esistere ancora. Se questa possibilità è una finizione, uno accetta la finzione […] Io, praticamente, per sentirmi uno scultore devo fare delle finte sculture166.

A differenza delle opere realizzate da Anselmo, Calzolari, Kounellis o Zorio tra il 1966 e il 1968, in nessuna opera di Pascali è possibile avvertire una vocazione processuale, la necessità di un’interazione attiva con il tempo e con la corruttibilità o la resilienza dei materiali. L’evaporazione dell’acqua che si verifica nelle sue Pozzanghere durante il tempo di una mostra non costituisce un elemento significante dell’opera, ma rimane un limite della natura cui è inevitabile ovviare, rabboccando di tanto in tanto le vasche. A fronte del “libero progettarsi” predicato da Celant, Pascali ha peraltro sempre agito nella direzione di una solida coerenza stilistica, talvolta ricorrendo anche a strutture modulari di matrice concretista, ma quasi sempre approntando iconografie sintetiche e replicabili, rispondendo ancora, in pieno clima poverista, a una mai spenta volontà di forma.