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Il perdono nella giustizia di transizione, fra vendetta e amnistia

2)Il perdono e l'ossessione del passato

3) Il perdono nella giustizia di transizione, fra vendetta e amnistia

Noi riteniamo di essere giudicatrici perfette: nessun'ira da parte nostra raggiunge chi protende pure le mani, e senza danno egli trascorre la vita:chi invece, dopo aver commesso una colpa,come quest'uomo, nasconde mani insanguinate, noi, presentandoci quali giuste testimoni di fronte ai morti, alla fine ci riveliamo a lui come vendicatrici del sangue.

(Eschilo, Eumenidi, Coro, vv. 312-320)

Accetterò di abitare insieme con Pallade...e per la città, io, benignamente profetando, prego che la illustre luce del sole faccia germogliare dalla sua terra vicende di vita in prospero susseguirsi.

(Eschilo, Eumenidi, Coro, vv. 916-926)

La rappresentazione giudiziaria dei fatti deve essere compresa come un modo di rendere contemporanei questi fatti. Nel momento del processo, essi sono presentati oltre la loro pura effettività a fronte di una ricostruzione legale. Si confida nella giustizia per una loro qualificazione ufficiale, in modo tale da sottrarli all'assoluzione del tempo. Distinguendo la verità fattuale da quella giuridica, Améry sostiene che «Il misfatto in quanto tale non ha un carattere oggettivo. Il genocidio, la tortura, le lesioni di ogni sorta, oggettivamente non sono altro che un susseguirsi di fenomeni fisici, descrivibili nel linguaggio formalizzato della scienza: sono dati di fatto all'interno di un sistema fisico, non azioni interne a un sistema morale»1. Ma contro la memoria del risentimento, che è una memoria congelata, rancorosa e sterile, quella che segue l'opera di giustizia deve essere una memoria alleviata, perché è solo 1. Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 121.

accettando che il passato si è svolto in un determinato modo che ci sarà permesso di riaprirci alla vita e ad un'iniziativa orientata al futuro.

Se ci si riferisce ai fatti storici servendosi del passato remoto, l'azione processuale avviene nel presente: per quanto, ormai, sia contraddittorio negare che quanto è accaduto sia accaduto realmente, si può comunque contestare l' “approvazione” che il tempo ha concesso a quegli eventi. Tale «processo di inversione morale del tempo»2 è quanto ci si aspetta dalla giustizia. Durante un processo, i fatti vengono rievocati e resi per così dire “presenti” al fine di metabolizzarli e svuotarli della loro dannosità morale. La sanzione giuridica è una possibile cura al traumatismo ossessivo di cui parlava Rousso: a sentenza emessa, dovremmo sentirci liberati dal peso della storia, da quel sentimento d'impotenza generato da un passato irreparabile.

Proprio come avviene nelle Eumenidi, dove il tribunale umano istituito da Atena libera le Atridi dal peso del tempo e dalle catene implacabili della vendetta.

Gli esseri umani, lo abbiamo visto, non esistono per se stessi: sono il prodotto di un passato che, talvolta, li opprime. I torti e le ingiustizie subite generano in loro rabbia retributiva, e non è facile evitare che essa sfoci in estenuanti progetti di vendetta a catena. Le Eumenidi, l'ultima delle tre tragedie che compongono l'Orestea di Eschilo, mette in scena il superamento di questa logica ad opera di quella giudiziaria, mostrandone anche l'ambivalenza.

Le antiche dee della vendetta, le Erinni o Furie, che sino a quel momento avevano giudicato i delitti di sangue, sono sostituite dalle istituzioni giuridiche introdotte da Atena. «Ma», nota Nussbaum, «le Erinni non vengono semplicemente messe da parte. Atena le convince a unirsi alla città, assegnando loro un posto d'onore in virtù della loro importanza per quelle stesse

istituzioni giuridiche e per il bene futuro della città»1. Ad una condizione: che esse accantonino le loro smanie di vendetta, si mostrino benevolenti verso la città e rinuncino definitivamente a perpetrare agitazioni e discordie. Da Erinni divengono Eumenidi (letteralmente “le Benevole”): perché la giustizia civile

non si limita a costruire una gabbia attorno alla rabbia, bensì la trasforma radicalmente, da qualcosa di poco umano, di ossessivo e sanguinario, a qualcosa di umano, ragionevole, calmo, deliberativo e misurato. Inoltre, la giustizia non si rivolge a un passato che non può più essere cambiato, bensì punta a un futuro di benessere e prosperità. Il senso di responsabilità che permea tali istituzioni non ha a che fare con il sentimento retributivo, ma con una valutazione ponderata a difesa della vita presente e futura. Le Erinni sono ancora necessarie perché il mondo è imperfetto e ci saranno sempre reati da giudicare. Ma non devono mantenere la loro forma originaria. Non sono più le stesse: sono infatti divenute strumenti di giustizia e di benessere. La città (o Stato) è liberata dal flagello della furia vendicativa, che produce disordini civili e morti prematura. Al posto della rabbia, la città ottiene la giustizia politica2.

Ai vecchi propositi di vendetta e di rivalsa, quindi, subentrano quelli di deterrenza, rivolti non più al passato ma al futuro, un futuro di maggior benessere personale e sociale. La vendetta non scompare, ma si ricicla per il bene della città. Le Eumenidi incarnano il ricordo dell'orrore di un mondo antico, da cui l'istituzione del processo ha voluto farci definitivamente uscire: la terra è di nuovo feconda, le relazioni serene, ma le Eumenidi sono là, a ricordarci ciò di cui il nostro mondo fu un tempo capace.

L'ambivalenza delle nuove istituzioni giuridiche, comunque, si spinge oltre. Le Eumenidi, infatti, sono giudici tutt'altro che perfette, come testimonia il tribunale imparziale che viene instaurato in loro opposizione, a suggerire che a) c'è un residuo di vendetta al fondo di ogni pratica giudiziaria, e b) certi delitti sono così imponderabili da essere impossibili da giudicare. Sono questioni inerenti alla natura stessa della pratica giudiziaria, e tanto più urgenti in quei processi che riguardano l'uscita da domini violenti e oppressivi: date le pratiche genocidarie praticate dai regimi del XX secolo, la ricerca di una via d'uscita politicamente negoziata e 1. Nussbaum, Rabbia e perdono, p. 11.

socialmente condivisibile è diventata una delle preoccupazioni dominanti dell'età contemporanea. A causa delle sue fondamenta, infatti, così radicate nel cuore del potere politico, il crimine di massa mette seriamente in discussione le capacità della giustizia umana. Al di là della definizione di giustizia della società arcaica e delle ritorsioni barbare pretese dalle Erinni, comunque, diritto e vendetta appaiono effettivamente connessi: oltre a dar forma ai progetti dell'ira, la vendetta rivendica un contenuto morale, poiché muove dalla volontà di restaurare un equilibrio da parte delle vittime di torti irreparabili. Come se l'enormità delle giustizie sofferte, talvolta, potesse legittimare l'assenza di misura delle corrispettive “riparazioni”, che, nel caso consistano in una vendetta violenta, possono essere definite “rese dei conti”.

A differenza della problematica istituzionalizzazione del perdono, vi sono forme collettive di rese dei conti a cui persino il diritto internazionale riconosce una limitata legittimità, come quella della rappresaglia militare3, ma la storia ha conosciuto rese dei conti collettive al di fuori di ogni paradigma di legalità, e massacri, espulsioni e deportazioni hanno spesso contribuito ad alimentare la spirale dell'odio. Come se non bastasse, per secoli

le rese dei conti violente non sono soltanto state la norma, ma hanno goduto spesso anche di una legittimazione orchestrata dall'alto e potenziata dal plusvalore della sacralizzazione. Il massacro di ebrei e musulmani a Gerusalemme, a conclusione della prima crociata (1099), fu festeggiato da processioni e da un grande Te deum; la notte di San Bartolomeo (23 agosto 1472), con il suo strascico di susseguenti massacri che fecero in tutto il regno tra le 20.000 e le 30.000 vittime, fu analogamente festeggiato dal cardinale di Lorena con un Te deum al presenza del papa Gregorio XIII (8 settembre 1472), e non fu oggetto di alcuna sanzione penale4.

Per quanto il processo di civilizzazione si sia incamminato nella direzione di una messa al bando della vendetta, il XX secolo ha conosciuto molte forme di rese dei conti, tanto che, alla caduta di dittature e regimi totalitari, si è fatto spesso ricorso alla vendetta spontanea: i

3. Cfr. Portinaro, I conti con il passato, p. 43. 4. Ivi, p. 46.

processi giudiziari del secondo dopoguerra si trovarono a coesistere con espulsioni e deportazioni, forme collettive di resa dei conti che, a livello giuridico, vengono ritenute in tutto e per tutto un crimine. Basti pensare alle deportazioni dei polacchi verso l'Asia centrale dopo l'invasione sovietica, o ai milioni di profughi tedeschi che, alla fine delle Seconda guerra mondiale, abbandonarono la Polonia, dove le organizzazioni naziste avevano ucciso 6 milioni di persone tra cattolici ed ebrei. Anche gli Alleati, nell'Europa Orientale, erano soliti tollerare il ricorso alla punizione collettiva, e nelle zone occupate dai sovietici le persecuzioni si abbatterono su diverse nazionalità.

Ma il rapporto tra regimi totalitari e vendetta è meno scontato di quanto possa sembrare: con Portinaro andrebbe osservato che quei regimi operano nel senso di un'istituzionalizzazione della resa dei conti, così che «la vendetta e il risentimento (…) sono le motivazioni che sorreggono le innovazioni istituzionali e l'agire ordopoietico di tali regimi. L'immaginario del totalitarismo è ossessionato dall'imperativo della criminalizzazione del nemico e dalla coazione a neutralizzare ogni meccanismo inibitorio di una violenza che deve appunto servire alla resa dei conti conclusiva». Non solo: questi regimi, dopo aver praticato forme disumane di resa dei conti durante tutta la loro durata, nel momento del loro crollo sono in grado di inibire episodi collettivi di resistenza e insubordinazione. Nella fase finale della Seconda guerra mondiale «non fu la popolazione ad abbandonarsi alla resa dei conti con un regime che l'aveva trascinata nella tragedia, ma il regime a tentare un'estrema, disperata resa dei conti con il popolo che non lo aveva sostenuto in modo totale». È quest'estenuante incubazione della violenza, che ebbe la sua apoteosi nell'Italia di Salò, che può spiegare la disumanità dell'epilogo di Piazzale Loreto, una resa dei conti radicale tanto quanto le attività terroristiche di un regime totalitario in difficoltà.

Il momento per porre fine a queste ritorsioni violente appartiene alla fase di transizione, che segna il passaggio dal regime totalitario che le ha incoraggiate ad uno democratico che ne

sancisca la barbarie. È quanto si incarica di fare la giustizia di transizione, la quale, per quanto ampiamente presente sin dall'età classica, ha ricevuto un'attenzione particolare soprattutto in seguito agli episodi che hanno avuto luogo al termine della Seconda guerra mondiale, e non solo per la sproporzione del delitto in questione. Il destino dei responsabili e delle vittime dell'Olocausto fornisce, infatti, l'esempio storico più importante del ricorso alla via giudiziaria nel fare i conti con i crimini di un regime. Le transizioni avviate alla fine della Seconda guerra mondiale, che consistettero in interventi di tipo giudiziario contro i regimi nazisti e in misure di risarcimento a favore delle vittime, raggiunsero dimensioni assolutamente senza precedenti e che restano tutt'oggi senza uguali.

A seguito dell'Olocausto, i crimini contro l'umanità vennero definiti dalle carte dei tribunali militari internazionali di Norimberga, poi di Tokyo, dell'8 agosto 1945 e del 12 gennaio 1946. In apertura del primo capitolo di questo elaborato ci si era chiesti se l'esistenza del male non presagisse il fallimento della filosofia; adesso, in modo non dissimile, dovremmo domandarci se il crimine contro l'umanità non faccia lo stesso con la comunità giuridica. La specifica incriminazione per crimini contro l'umanità, infatti, deriva dalla presa di coscienza di un'inedita violenza, nata talvolta dalla guerra, da cui però finisce per differenziarsi in modo radicale: se un contesto di guerra “standard” prevede sempre due parti ugualmente armate e combattenti che si affrontano, i crimini contro l'umanità mostrano una mostruosa sproporzione fra una parte combattente, beneficiata dallo Stato, e un'altra non combattente, che si è deciso di espellere dal territorio. Mentre la figura del combattente è una figura attiva, la vittima assoluta perseguitata dai crimini contro l'umanità incarna un nuovo modo di stare, o di non stare, al mondo: «Soltanto in questo stadio», scrive Arendt, «in cui la guerra non dà più per scontata la coesistenza delle parti nemiche e vuole solo risolvere il modo violento i conflitti creatisi tra loro, la guerra ha davvero cessato di essere uno strumento della politica e comincia, come guerra di sterminio, a erompere i confini imposti al politico e perciò

distruggerlo»5.

Con la Convention on Genocide del 1948 delle Nazioni Unite, anche il genocidio viene assunto per la prima volta a categoria centrale della criminologia politica e del diritto penale6,

dopo che la risoluzione delle Nazioni Unite del 1946 ne aveva dichiarato l'imprescrittibilità, asserendo che questi crimini sono «imprescrittibili per loro natura». L'imprescrittibilità, spiega Ricoeur, significa che «il principio di prescrizione non può essere invocato. Essa sospende un principio che consiste, esso stesso, a fare da ostacolo all'esercizio dell'azione pubblica. Sopprimendo i termini di perseguimento, il principio di imprescrittibilità autorizza a perseguire indefinitivamente gli autori di questi crimini immensi»7. A differenza di altri casi, in cui il tempo può effettivamente usurare i propositi di vendetta, la riprovazione dei crimini nazisti non conosce limiti temporali, ed è giusto così, tenendo anche conto della facilità con cui i colpevoli si sottraggono alla giustizia ricorrendo alla fuga e al cambiamento d'identità. Ma, nonostante la normativa internazionale volta a contrastare i crimini contro l'umanità, la capacità di prevenzione e sanzione della Convenzione del 1948 si è dimostrata fortemente carente, e gli sviluppi successivi sul piano del diritto non hanno fatto altro che accentuare la distanza esistente tra la dimensione normativa e quella fattuale. Nelle zone d'occupazione occidentali, per esempio,

i tribunali tedeschi (…) si rifiutarono di applicare il diritto degli Alleati e si richiamarono in maniera sempre più esplicita alla tradizione giuridica internazionale. (…) le indagini giudiziarie sui crimini nazisti vennero praticamente accantonate per dar corso alle scarcerazioni e all'amnistia de facto della prescrizione dei reati. Si è parlato a ragione per questa fase di "amnistia fredda". (…) La rimozione e la riluttanza ad avviare procedimenti concernenti il passato recente da parte della magistratura, che in larghissima parte aveva superato indenne lo scoglio della denazificazione,

5. Arendt, Che cos'è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano 1995, p. 68.

6. All'articolo 2 vi leggiamo la seguente definizione: “Genocide means any of the following acts committed with intent to destroy, in whole or in part, a national, ethnical, racial or religious group, as such: a) Killing members of the group; b) Causing serious bodily or mental harm to members of the group; c) Deliberately inflicting on the group conditions of life calculated to bring about its physical destruction in whole or in part; d) Imposing measures intended to prevent births within the group; e) Forcibly trasnferring children of the group to another group”. Cfr. W.A. Schabas, Genocide in International Law. The Crimes of Crimes, Cambridge University Press, Cambridge 2000.

costituirono i fattori politico-culturali che più avrebbero condizionato l'intera vicenda dell'elaborazione giudiziaria8.

Ciò che la storia c'insegna, infatti, è che l'alternativa alla vendetta, che ha nel processo la sua forma legalizzata, è l'amnistia, vale a dire il reciproco oblio dei torti patiti con la messa da parte della questione sulla responsabilità. Si tratta di una misura non priva di vantaggi, fra i quali sono da annoverare «il raffreddamento del contenzioso giudiziario, l'interruzione della catena delle vendette, il bilanciamento delle colpe (…) e il mantenimento della funzionalità del sistema»9.

Dal momento che rappresenta una necessità della buona coscienza, infatti, la strada del processo e della punizione tende a polarizzare la società, a dividerla tra colpevoli e innocenti, buoni e cattivi. Questo destabilizza la vita della comunità, e introduce per altra via tutti i pericoli che tenta di espellere; poiché ogni transizione contiene in sé molte delle tensioni e dei conflitti del passato, ad ogni passo si corre il rischio di riprodurre quelle tensioni e quei conflitti. A tali difficoltà la strada dell'amnistia risponde concentrandosi, piuttosto che sugli individui e sulle loro rivendicazioni, sul presente e sul futuro, che devono prevedere istituzioni democratiche e giuste. Ma è in grado di offrire una garanzia di giustizia?

Da un certo punto di vista, infatti, l'amnistia non sembra far altro che calpestare la domanda di giustizia delle vittime, facendosi portavoce di un'indiscriminata cancellazione delle colpe, come se odi, rancori e risentimenti potessero estinguersi col solo comando di dimenticare (quando il dimenticare, lo abbiamo visto con Margalit, è un atto del tutto involontario).

Non è a torto, quindi, che Ricoeur definisce l'amnistia «forma istituzionale dell'oblio»10: questa, ci viene detto,

8. Portinaro, I conti con il passato, p. 99.

9. Ivi, p. 144. Cfr. A. Cassese, Antonio Cassese, Clemency Versus Retribution in Post-Conflict Situations, 46 COLUM. J. TRANSNAT'L L. 1, 3-4 (2007): «What are the merits of amnesties? First, by stopping trials against the presumed culprits amnesties prevent hatred and grief from invading courtrooms. Second, amnesties impede the decapitation of the whole political and administrative apparatus of the state when the conflict has resulted from an international or civil war against a dictatorship. Third, amnesties, if they benefit all the parties that had previously fought one another to the bitter end, have the meritorious effect of equalizing guilt and responsability and thereby introduce some sort of general appeasement».

in quanto oblio istituzionale, tocca le radici stesse del politico e, attraverso di esso, il rapporto più profondo e più dissimulato con un passato colpito da interdetto. La prossimità più che fonetica, o meglio semantica, fra amnistia e amnesia segnala l'esistenza di un patto segreto con la negazione di memoria che, lo vedremo più tardi, la allontana in verità dal perdono, dopo averne proposto la simulazione11.

A tal proposito richiama tre episodi. Il primo riguarda il decreto promulgato ad Atene nel 403 a.C., dopo la vittoria della democrazia sull'oligarchia dei Trenta, che ci viene presentato da Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi. «Le formule negative», osserva Ricoeur, «sono impressionanti: non ricordare. (…) La guerra è finita, viene solennemente proclamato: i combattimenti presenti, di cui parla la tragedia, diventano il passato da non ricordare». Ma abbiamo già valutato l'alto prezzo che un imperativo di oblio è tenuto a pagare.

Non è da meno L'editto di Nantes promulgato da Enrico IV, il quale impone «che sia estinto e soppresso il ricordo di qualsiasi azione compiuta dalle due parti dal principio del mese di marzo 1585 sino alla nostra accessione alla Corona e durante gli altri precedenti disordini e al loro scoppio, come se nulla fosse mai accaduto. (…) Noi proibiamo ai nostri sudditi di qualsiasi rango o condizione essi siano, di ricordare tali fatti»12.

Per la Repubblica francese, infine, l'amnistia «è un atto politico diventato tradizionale. (…) l'amnistia mette fine a tutti i procedimenti in corso e sospende tutte le azioni giudiziarie. Si tratta proprio di un oblio giuridico limitato, ma di vasta portata, nella misura in sui l'arresto dei processi equivale a spegnere la memoria nella sua dimensione attestataria e a dire che nulla è accaduto».

Ma siamo davvero pronti a spazzare via di colpo tutto il male che ha invaso le nostre società in nome del desiderio di avere una vita sociale positiva? Fingere che la nostra vita possa andare avanti come se il male non ci avesse mai toccati? L'amnistia, al limite,

può avere senso solo come misura temporanea, per rendere

11. Ivi, p. 643 sgg. 12. Ivi., p. 644.

possibile la ripresa di normali relazioni sociali in una situazione nella quale comunque un grande programma di elaborazione giudiziaria del passato appaia del tutto irrealistico. Ma per risultare accettabile in un processo di transizione alla democrazia deve aprire e non sbarrare la strada ad altre modalità di politica del passato, quali i procedimenti giudiziari per i maggiori responsabili, le Commissioni verità e i risarcimenti delle vittime13.

D'altra parte, un mandato assoluto come quello a non dimenticare mai è altrettanto dannoso per la vita e altrettanto paralizzante del mandato a dimenticare. Non è esatto, infatti, dire che non dovremmo mai dimenticare i torti commessi o che altri ci hanno inflitto. Esiste una strada intermedia, la quale non conduce né alla memoria ostinata e vendicativa che spesso affligge i procedimenti giudiziari, né all'oblio istituzionalizzato appannaggio dell'amnistia. E che, forse, costeggia il territorio della giustizia senza mai inoltrarvisi. Se non in rarissimi casi.

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