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Liberarsi dal male del passato: il perdono fra memoria e oblio

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Academic year: 2021

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Indice

INTRODUZIONE 2

1. IL PROBLEMA DEL MALE: FALLIMENTO DELLA FILOSOFIA? 7

I. Il fallimento della teodicea e la realtà del Male 10

II. Il male umano: la colpa 26

III. Pensare il male alla luce dei drammi storici del XX secolo:

il recupero del concetto kantiano di male radicale 44

2. LIBERARE L'INDIVIDUO E LA STORIA: IL PERDONO 68

I. Risollevarsi dal male: il perdono. Una genealogia 70

II. Il perdono e l' ossessione del passato 71

III. Il perdono nella giustizia di transizione, fra vendetta e amnistia 106

Conclusione 118

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Introduzione

La condizione umana è immersa nell'esperienza del male. La stessa riflessione filosofica nasce, in parte, come riconoscimento di quest'esperienza: quando riferiamo ad Aristotele l'affermazione secondo la quale la filosofia nascerebbe dalla meraviglia, si tradisce il significato originario di quel testo, perché thauma non va tradotto con meraviglia. Thauma vuol dire semmai angosciato terrore. Quindi la filosofia nasce piuttosto dal terrore, dalla paura. Anche Nietzsche afferma che la filosofia nasce dalla paura, ma non fa che riproporre quello che già diceva Aristotele. La filosofia, tematizzando questioni come la libertà, la felicità, la giustizia, l'essere, il logos e la razionalità, non può fare a meno di porsi anche il problema del male, visto, di volta in volta, come non essere, infelicità, ingiustizia, morte, disordine.

Prima di costituire una tematica fondamentale dell'indagine razionale, il problema del male costituisce il nucleo essenziale del mito e della religione. Nella narrazione mitica e religiosa il male è posto all'origine dell'essere e dell'esistenza, nella duplice immagine della nascita del mondo dal caso della caduta dell'uomo per un atto di superbia, che corrompe un ordine armonico e segna la nascita della storia come decadenza e prevalere del male.

Ma è solo con l'esperienza del male nella storia che nasce un'ermeneutica del male, ovvero la

necessità di render conto del male, di dare di esso un'interpretazione che consenta di

comprenderlo e giustificarlo per offrire un senso all'esistenza. Nella storia l'uomo ha fatto

esperienza del male in molteplici forme, ma l'evento paradigmatico della Shoah, nel XX

secolo, ha dato all'ermeneutica filosofica del male una svolta impossibile da sopravvalutare.

Con Auschwitz entra in crisi qualsiasi ermeneutica del male elaborata nel corso del pensiero,

e tutte le precedenti concezioni ottimistiche della storia, dell'uomo e della razionalità vengono

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e, con essa, ogni tentativo di teodicea, di cui risulta ormai evidente e inaccettabile il vizio conciliatorio. Ben più del terremoto di Lisbona e dei disastri delle guerre, che avevano scosso l'ottimismo razionalista del Settecento, è la pratica concentrazionaria e i campi di sterminio che rendono impossibile pensare il male come una semplice privazione di bene, o giustificarlo in un disegno di giustizia provvidenziale. O, soprattutto, perdonarlo. Privata di qualsiasi mezzo, fosse anche quello della riflessione, per rispondere a questa nuova manifestazione del male, tanta riflessione novecentesca avrà l'esito inquietante di porlo nella ragione e in Dio stesso.

Fra tutte le definizioni complessive tentate per il Novecento, infatti, quella che più lo rispecchia sembra proprio “secolo del male”. E non è tanto la Grande guerra a far esplodere la questione, quanto la realtà dei totalitarismi, la Seconda guerra mondiale e, soprattutto, a cose fatte, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei europei, e di altre minoranze. Con Auschwitz il male cambia faccia, ritorna “male assoluto”, male indicibile. Sotto il profilo che qui cerchiamo di mettere a fuoco, relegata ogni teodicea fra le illusioni ottimistiche del passato, è la razionalità stessa a entrare nel dominio del male; è l'idea stessa di poter comprendere il male ad apparire ridicola e oltraggiosa; è, soprattutto, l'ombra del male che entra nella stessa essenza di Dio a decretarne, soprattutto agli occhi degli ebrei, l'impotenza.

L'irrompere del male storico spalanca le porte ad un altro problema, quello della memoria. La giornata per commemorare le vittime dell'Olocausto, una ricorrenza internazionale celebrata ogni 27 Gennaio, si chiama proprio “Giorno della Memoria”, e si ha certo ragione di invocare il dovere della memoria contro la tentazione di dimenticare i periodi bui della storia collettiva: contro l'oblio, quel «termine eblematico della condizione storica»1, come lo

definisce Ricoeur, che è anche emblema della sua vulnerabilità. Ma se, in prima istanza, la memoria è in tutto e per tutto una lotta contro l'oblio, allo stesso tempo non raccomanderemmo mai una memoria che non dimenticasse niente. La riterremmo, anzi, quasi 1. Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, p. 589.

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mostruosa, come Funes il Memorioso, protagonista di una favola di Borges: «Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini da che mondo è mondo» E disse anche: «I miei sogni sono come la vostra veglia» – E anche, verso l’alba: «La mia memoria, signore, è come un immondezzaio». (…) Non so quante stelle vedeva nel cielo. (...) In effetti, Funes non solo ricordava ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ogni volta che l’aveva percepita o immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a un settantamila ricordi, da definire in seguito con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: la consapevolezza che il compito era interminabile e che era inutile. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia. (…) Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sul letto, nell’ombra, si figurava ogni fessura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era più minuzioso e più vivo della nostra percezione d’un piacere o d’un tormento fisico)2.

Un'etica della memoria è un'etica dell'oblio tanto quanto un'etica del ricordo. La memoria,

quindi, dovrebbe scendere a compromessi con l'oblio per trovare, tentativo dopo tentativo, un giusto equilibrio con esso. Per farle raggiungere quest'equilibrio, potrebbe esserle d'aiuto ciò che Ricoeur chiama «orizzonte comune della memoria, della storia e dell'oblio»3: il perdono. Il perdono, lo vedremo, è un concetto con una lunga storia alle sue spalle che affonda le radici nella visione religiosa, ma è anche un concetto estremamente moderno, e che ci è particolarmente caro: la nostra cultura venera l'idea di perdono, e impiega spesso questo termine per parlare di comportamenti ritenuti utili nella gestione della rabbia e delle sue manifestazioni.

Non si tratta di un concetto univoco: c'è il perdono condizionale, concesso solo nel caso in cui venga esplicitamente richiesto («Il perdono! Ma essi ci hanno mai domandato perdono? Soltanto la disperazione e la solitudine del colpevole darebbero un senso e una ragion d'essere al perdono»4, scrive Vladimir Jankélévitch), e c'è il perdono incondizionato, che pur di non lasciarsi dominare dallo stesso calcolo sceglie di posarsi anche su chi non ha espresso il suo pentimento. Poi, a prescindere da quale di queste due modalità si prenda in considerazione, 2. Jorge Louis Borges, Finzioni, Mondadori, Milano 1997, pp. 707-715.

3. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 649.

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resta comunque da stabilire quali rapporti intrattenga con l'oblio. Perché se dimenticare un torto compiuto nei nostri confronti è un'impresa che, oltre a metterci duramente alla prova, appare eticamente discutibile, dimenticare il passato lo è ad un livello superiore: il passato, infatti, è qualcosa a cui è necessario rendere giustizia, tanto più se l'imperativo di giustizia riguarda un passato di crimini contro l'umanità. Ci si aspetta che i fatti vengano definitivamente qualificati, così da essere sottrati all'assoluzione del tempo, che rischia di consacrare un'azione criminosa fino a quando essa non venga giudicata.

Oltre a ciò, la mancata esposizione di un'offesa da parte della giustizia legale determina il prevalere, dopo il patimento di tanti mali, di una reiterazione delle violenze: la vendetta, che in epoca arcaica rappresentava la risposta primaria ai torti subiti («Nell'antico mondo delle Erinni», osserva Nussbaum, «la famiglia, l'amore e l'amicizia erano gravati dalla continua esigenza di vendicare qualcosa»5) deve cedere il posto al diritto. È sbagliato, infatti, credere che la sofferenza del colpevole possa ricostituire un passato lacerato: la rabbia per il male ricevuto dovrebbe evolversi, piuttosto, in una punizione ragionevole che castighi in vista del futuro. Posizionandosi fra la vittima e la violenza patita, la giustizia imparziale dovrebbe favorire un distacco assente nel sistema ateniese, dove la persona offesa si sentiva obbligata ad un'estenuante caccia al colpevole.

Nel quadro della giustizia c'è posto anche per l'amnistia (o, come la definisce Ricoeur, «forma istituzionale dell'oblio»6), che, per quanto animata da buone intenzioni, rifiuta il diritto di appellarsi alla comunità giuridica al fine di ottenere un riconoscimento pubblico e ufficiale della loro qualità di vittime, finendo per decretare la rimozione della realtà ad opera del potere.

Ma non sembra esserci posto per il perdono. Da una parte, esso sembra essere «per sua natura (...) amondano, ed è per questo, piuttosto che per la sua rarità, che è non solo apolitico ma

5. Martha Nussbaum, Rabbia e perdono, Il Mulino, Bologna 2017, p. 16. 6. Ivi, p. 693.

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antipolitico»7; dall'altra viene da chiedersi se, di fronte alla distruzione dell'umano perpetrata dai crimini contro l'umanità, il perdono sia un'iniziativa eticamente ammissibile. Se non sia meglio lasciarlo così com'è, «morto nei campi della morte»8. Con il rischio, però, di non

essere mai liberi dal peso della storia e dal sentimento d'impotenza dovuto ad un passato irreparabile.

7. Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1994, p. 179. 8. Jankélévitch, Perdonare?, p. 40.

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1. IL PROBLEMA DEL MALE: FALLIMENTO DELLA FILOSOFIA?

“Chi o che cosa è responsabile del fatto che il mondo nel suo complesso sia com'è, che vi esistano dolore e peccato, questo male totale? (...) La colpa dell'uomo relativa alla possibilità o alla necessità di diventare colpevole sta forse in un altro prima di lui? Chi è dunque colpevole? Un essere soprasensibile? Un'origine cosmica? Qualcosa di creato da Dio? Dio stesso?”

(Karl Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione) «Nell'autocoscienza dei contemporanei il XX secolo è stato il secolo del male»: questa la

considerazione introduttiva de I Concetti del Male, testo a cura di Pier Paolo Portinaro1, il

quale, con la cospicua partecipazione di filosofi ed intellettuali, si propone di affrontare il fenomeno del male sotto le sue molteplici manifestazioni. E in effetti dallo scorso secolo si riscontra un diffuso ritorno d'interrogazioni sul male, di fronte al quale la filosofia si sente chiamata ad armarsi di nuovi strumenti concettuali, in grado, se non di eludere il problema, quanto meno di razionalizzarlo.

Ma, se è indubbio che il fenomeno del male è qualcosa che chiede di essere spiegato e compreso, non sempre l'approccio razionalizzante delle teodicee si è rivelato adeguato a restituirne la carica distruttiva, oltre ad avere la colpa di aver giustificato (e dunque abolito) il male morale riconducendolo ad un Male metafisico e necessario: e, come afferma L. Pareyson in Ontologia della libertà, un male necessario non può più definirsi “male”2.

Questa prima parte dell'elaborato tenterà di affrontare l'argomento in modo meno astratto e

1. I concetti del male, a cura di P. P. Portinaro, Biblioteca Einaudi, Torino 2002, p. VII. 2. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Biblioteca Einaudi, Torino 2000, p.187.

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rigoroso, come la natura stessa dell'oggetto richiederebbe: per questo scopo ci serviremo del contributo di pensatori i quali, dopo gli orrori dell'Olocausto e di Auschwitz, hanno sentito la necessità di ritornare sulla questione. Specificamente, si sono chiesti quale tipo di relazione intercorra tra i due aspetti del male sopracitati, quello morale, sussunto sotto la categoria di “colpa/peccato”, e quello metafisico, “metaempirico”, come direbbe Vladimir Jankélévitch3.

Il genocidio ebraico del XX secolo, infatti, è stato un esempio così sconvolgente ed estremo del primo tipo di male da rappresentarne il parossismo, da riattivare le discussioni anche sul suo secondo aspetto, sul Male: di fronte ad un orrore sovrumano e incommensurabile si è sentito il bisogno di sconfinare nella metafisica, quando non nella Satanalogia4. La vera sfida,

quindi, sarà la seguente: rendere conto del male presente nel mondo risalendo ad un livello superiore a quello dell'etica senza per questo doverne sacrificare la connotazione più propriamente morale.

Quest'ultimo avvertimento è di primaria importanza, tanto più che la negazione del male è stata ed è una delle grandi menzogne del secolo da poco concluso: con i suoi miti di progresso, infatti, ha operato un ridimensionamento del peccato e promesso l'eliminazione della sofferenza. I regimi totalitari, le guerre mondiali e i genocidi del secondo dopoguerra hanno ampiamente dimostrato che la promessa di neutralizzazione del male è stata disattesa: ecco che quindi, dopo il risveglio intellettuale suscitato dal terremoto di Lisbona del 1755, il male torna a porsi come «il punto critico di ogni pensiero filosofico»5, pensiero che, se vuole

esaurire la profondità dell'oggetto affrontato, dovrà esporsi a tal punto da ipotizzare la

presenza del male in Dio, per quanto sotto forma di possibilità.

I tre capitoli che seguono saranno così disposti: il primo, dopo aver brevemente ripercorso i tentativi fallimentari di teodicea, tratterà del male preesistente agli uomini e che li affligge loro malgrado, quello metafisico. In questo senso, il linguaggio del mito fornirà un contributo

3. V. Jankélévitch, Il male, Marietti, Genova-Milano 2003.

4. P. Ricouer, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, p. 527. 5. I concetti del male, a cura di P. P. Portinaro, p. X.

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importante. Il secondo cercherà di determinare il contributo umano a questo male, per così

dire, “necessario”, soffermandosi sul concetto estremamente moderno di “Dio sofferente”. Il

terzo prosegue il ragionamento affrontando la categoria di “male radicale”, per come, dopo la

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1)Il fallimento della teodicea e la realtà del Male

La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmente estraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente alla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce? [fr. 374 Usener: LATTANZIO, De ira Dei, 13, 20].

Come si evince da questo frammento di Epicuro, già alcuni pensatori greci avanzarono ricorrenti critiche contro il modo, tipico di una teodicea, di impostare il rapporto tra Dio e il

male.

Quasi due millenni più tardi, dopo secoli di intermittenti riflessioni sull'incompatibilità tra bontà divina e mali naturali, al modo di pensare criticato da Epicuro saranno dedicate testuali parole: «Per teodicea s'intende la difesa della somma saggezza del creatore del mondo dalle accuse mossele dalla ragione per quel che di contrario al fine si riscontra nel mondo». Tale la

definizione di “teodicea” data da Immanuel Kant nel saggio Sul fallimento di tutti i tentativi

filosofici in teodicea1. È opportuno precisare che, con «quel che di contrario al fine si

riscontra nel mondo», Kant si riferisce indistintamente tanto al male morale quanto a quello fisico, oltre che alla non-corrispondenza fra i delitti e le pene osservabile tra gli uomini.

È opinione condivisa che proprio con questo testo del 1791 si sia dichiarato concluso il tempo della teodicea: tempo, a onor del vero, piuttosto breve, se si considera che lo scritto leibniziano che inaugurò il termine, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo

e l'origine del male, risale solo al 1710. Prima di Leibniz, infatti, il termine “teodicea” non

era ancora moneta corrente, per quanto il lamento di Giobbe contenuto nell'Antico

Testamento2, lamento di un uomo dalla condotta irreprensibile eppure vessato da implacabili

1. I. Kant, Scritti sul criticismo, Laterza, Bari 1991, p. 131.

2. «La domanda di Giobbe è da sempre il problema fondamentale della teodicea», scrive Hans Jonas ne Il

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sofferenze, avesse già sensibilizzato pensatori devoti, fra cui Sant'Agostino. Già in questo autore sono presenti le componenti caratteristiche delle future teodicee, che si

ergono, appunto, a difesa «della somma saggezza del creatore»: la funzionalizzazione del male, interpretato come mezzo necessario di un fine buono, la sua comprensione in senso estetico, che lo giustifica in quanto elemento che concorre ad accrescere l'armonia del mondo, e, ciò che in questa sede più ci interessa, la negazione della sua assolutezza e dunque la sua riduzione a privatio boni, vale dire a limite creaturale e mancanza d'essere. Perché, se tutto ciò che esiste è opera di Dio e Dio è indiscutibilmente buono, deve pertanto essere un bene: quel che chiamiamo male non esiste in senso proprio, mancando di una causa

o di un principio da cui scaturisca e che si opponga alla positività divina. Tutto il male a cui assistiamo giorno dopo giorno va ricondotto alla finitezza che ci contraddistingue, in quanto creature inevitabilmente più imperfette del loro artefice3.

È su quest'ultima questione che le teodicee moderne presentano un elemento di forte differenziazione, determinante per la fisionomia che assumeranno e quindi per le critiche corrispondenti. È bene tenere a mente, infatti, che le metafisiche razionaliste del Settecento sono figlie della rivoluzione teologica cartesiana: Cartesio, infatti, aveva scelto di fondare la sua scienza su un'idea chiara e distinta di Dio, reso così avvicinabile dalla mente umana. Da tale pretesa di intellegibilità prenderanno ispirazione certe soluzioni avanzate dalle teodicee moderne, che le esporranno all'accusa di eccessiva razionalizzazione: la tendenza predominante da Leibniz in poi sarà quella di spiegare il male riscontrabile nel mondo ritenendolo inevitabile e necessario anche per Dio stesso, il quale, per motivi che variano da filosofo a filosofo, non avrebbe potuto creare né un mondo diverso dall'attuale né uno

afferma Paul Ricoeur ne Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993, pp. 22-23, per la discussione stimolata dalla discrepanza tra il male fisico e il male morale e per la risposta enigmatica di Dio del finale, il Libro di Giobbe occupa di diritto un posto di primaria importanza fra i testi sacri.

3. Come osserva P. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993, p. 26, se si fa coincidere il male prima col peccato e poi con la pena (che sola ne assicura l'espiazione), il rischio è quello di approdare ad «una visione penale della storia»: le sofferenze di ciascuno, anche le più inspiegabili e sconcertanti, finiscono per essere giustificate secondo un'ottica retributiva che non contempla l'esistenza di un dolore ingiusto.

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migliore. La necessità del suo assetto, quindi, comprende anche ciò che noi chiamiamo “male”, e un male divenuto necessario può ancora aspirare al titolo di male? Intendiamoci: il fenomeno del male, a differenza del bene, è qualcosa che chiede di essere spiegato, come afferma Jankélévitch4. È tutto ciò che devia dalla norma, è lo scarto, il rifiuto:

accoglierne la manifestazione senza proferir parola non sarebbe un atteggiamento né umano né tanto meno filosofico. Perfettamente condivisibile, quindi, il tentativo manicheo di andare oltre i singoli atti malvagi per attingere ad un principio metafisico che ne spieghi l'insorgenza, apparentemente così contraria alla nostra destinazione morale. Ma un'operazione di questo tipo ha delle conseguenze.

Una è già stata esplicitata: convogliando tutta la sua attenzione sul male ontologico, pone in

secondo piano «il vero male» secondo Jankélévitch, vale a dire «quello umano, relativo, mescolato»5. Se esiste un male necessario, non esiste una malvagità necessaria.

In secondo luogo, un procedimento di questo tipo è tacciabile di immoralità: come si potrebbe mai pensare, infatti, che la saggezza divina giudichi secondo criteri morali diametralmente opposti ai nostri? Se le teodicee finiscono per concedere al male l'attributo della necessità, l'oggetto della loro giustificazione non sarà tanto Dio, ma il male stesso: ci sentiremo così autorizzati ad accettarlo, e la nostra propensione a sdegnarci di fronte ad esso sarà troncata sul

nascere6.

Per queste ed altre ragioni l'interpretazione del male offerta dalle teodicee era destinata a sperimentare una crisi, acuita in modo irrimediabile dalla riflessione sulla Shoah, che sembra aver definitivamente congedato l'idea di un male strumentale e di un Dio alchimista in grado di trarre il bene dal suo opposto. Già secondo Kant l'unica teodicea autentica era quella di

Giobbe, che di fronte ai ragionamenti degli amici, volti ad identificare una qualche colpa che 4. V. Jankélévitch, Il Male, Marietti, Genova-Milano, pp. 69-71.

5. Ibidem.

6. Un simile effetto è avvicinabile a ciò che Jankélévitch definisce “machiavellismo”, ne Il male, pp. 34 ss., e che corrisponde ad una scorciatoia fornita alla coscienza dall'astuzia filosofica: innalzando il Male al livello di perfezione dei principi metaempirici il machiavellismo assolve l'uomo dal peso della responsabilità, poiché lo vede costretto a soccombere di fronte all'ineluttabilità di una forza superiore.

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motivi le sue sofferenze e scagioni Dio da eventuali accuse, sceglie di sottomettersi completamente alla Sua volontà: e infatti, tra un fervore speculativo ed una devota umiltà,

sarà quest'ultima ad essere premiata7.

Ma anche dopo la considerazione di Kant secondo la quale «fino ad oggi nessuna teodicea ha realizzato ciò che aveva promesso»8, la filosofia continua a coltivare tale fervore e ad essere

attratta da un aggiramento del problema fondato su giustificazioni razionali, rifiutandosi di prendere atto «della necessità di porre un limite alle nostre pretese riguardo a ciò che non è

alla nostra portata»9.

Perché il male, con il suo carico di sconvolgimenti e calamità insondabili, se non altro ci ha insegnato questo: quando si cerca di comprendere oggetti di un certo tipo, una riflessione filosofica che persegue il rigore del concetto e si impone uno sguardo disincantato potrebbe rivelarsi del tutto inutile. È quanto argomenta Pareyson dopo aver dichiarato il fallimento

della filosofia di fronte al problema del male10: innanzi tutto, il punto di vista filosofico ha

costantemente ignorato la centralità del quesito, restringendolo ad un ambito puramente etico. Ma una disquisizione che non vada oltre questo aspetto non sarebbe mai in grado di esaurire il mistero del male, che sottintende un universo di concetti molto vari e irriducibili l'uno all'altro: peccato, dolore, sofferenza, punizione sono solo alcune delle spoglie di cui esso

può ammantarsi.

Se ci si ostina a pensare un evento così sfaccettato ricorrendo alla coerenza logica (che obbliga, come scrive Ricoeur, alla totalità sistematica e alla non contraddizione11) non si sarà

mai in grado di abbracciarlo nella sua interezza. Non senza accettare di addentrarci nella

7. Kant, Scritti sul criticismo, pp. 142-143. 8. Ivi, p.139.

9. Ivi, p. 140.

10. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Biblioteca Einaudi, Torino 2000, p.187, pp. 151-156.

11. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, pp. 7-9. Questo modo di pensare, sostiene Ricoeur, è lo stesso prevalso nei saggi di teodicea, che si proponevano di sostenere assieme l'esistenza del male e gli attributi divini di bontà e onnipotenza. È a causa di un procedimento simile che la teodicea ha ritardato considerevolmente un'adeguata analisi del problema del male e una presa di coscienza della sua ampiezza e complessità.

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profondità abissale da cui si dipana. Una filosofia che rifugga questo rischio per conservare il

solito frasario metafisico, oltre a tradire la natura dell'oggetto affrontato, lo rende inoffensivo

agli occhi degli uomini, così che si finisce per non avvertirne più il potenziale distruttivo.

Asserisce infatti Pareyson:

(...) ogni metafisica è tendenzialmente una teodicea; il pensiero oggettivante razionalizzerà il male cercandone il posto nell'universo o la funzione nella vita umana (…) La stessa “potenza del negativo” da fertile spunto di pensiero tragico si trasformerà in uno stabile fulcro di ottimismo (…) liquidando (…) il terribile scandalo della sofferenza dei giusti, degli innocenti, degli animali, e trascurando con impassibile indifferenza le durissime concezioni religiose dell'onnicolpevolezza umana e della reversibilità delle sofferenze12.

Perchè il male è una struttura innanzi tutto negativa, e la filosofia concepisce con grande difficoltà un ente che abbia come attributo necessario proprio la negatività: cosa significa, infatti, che non appena si cerca di definire positivamente il male questo si dissolve, finendo per diventare qualcos'altro? L'alternativa è davvero quella tra la comprensibilità e la realtà del negativo, tra il riconoscerlo come tale e l'annientarlo sotto il peso di una definizione13? Il

fallimento dei tentativi filosofici che si erano prefissi di comprenderlo sembrerebbe suggerire una risposta positiva. Arrivati a questo punto, quindi, il limite della filosofia è manifesto: sia che essa banalizzi il male così da renderlo inoffensivo, sia che lo fagociti in un sistema che ne sancisca la necessità, «la comprensione del male è per lei inaccessibile»14. Come osserva

Ricoeur, infatti, l'intreccio di filosofia e teologia che sino a quel momento si era dedicato al problema non aveva mai davvero compreso quanto esso esprimesse «in modo molteplice la condizione umana nella sua unità profonda»15, perchè è come se da sempre si avesse «il

sentimento di appartenere ad una storia del male, sempre già là per qualcuno»16.

Avvertita la centralità del fenomeno nella vita dell'uomo, è ancora più frustante che nessun 12. Pareyson, Ontologia e libertà, pp. 154-155.

13. Ivi, p. 154.

14. Ricoeur, Finitudine e colpa, Morcelliana, Bologna 1970, p. 623. 15. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, p. 13. 16. Ibidem.

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contributo filosofico sia stato in grado di verbalizzarla; e una certa spossatezza data dal susseguirsi dei tentativi indurrebbe a rinunciare definitivamente ad ulteriori trattazioni. Al contempo, però, come abbiamo accennato, verrebbe poco naturale arrestarsi e sospendere il giudizio di fronte alla terribile realtà del male, e quindi, motivati a proseguire la ricerca, ci chiediamo se piuttosto non convenga volgere lo sguardo da un'altra parte.

Per non trovarsi in quest'impasse, ad esempio, Ricoeur lancia una nuova sfida alla speculazione, invitandola a pensare il male in modo diverso, non più succube del modo di

ragionare lineare e esente da contraddizioni proprio delle teodicee: quella di Ricoeur è «una provocazione a pensare di più, addirittura a pensare altrimenti»17, cioè a non combattere più il

male con una compostezza pericolosa ma a riconoscerne e penetrarne a pieno la serietà. A

cominciare dalle sue origini.

E quando si parla di origini, un arresto della continuità della riflessione è inevitabile: se si vuole attingere al male nella sua purezza, infatti, ci si dovrà servire o di un linguaggio mitico (sarà la strada intrapresa da Ricoeur e Pareyson), teologico (Karl Barth), o quantomeno di un linguaggio filosofico insolito, interessato ad esplorare il non-afferrabile e a scandagliare l'Assurdo (Jankélévitch). Ciò che accomuna questi tre approcci è il proposito di andare oltre il male etico e fenomenico, quello compiuto e sofferto dagli uomini; «il lato oscuro della

creazione», come direbbe Barth18. Perché il dolore e la sofferenza che imperversa nel mondo è

così impressionante che persino una religione monista come quella cristiana fatica a liberarsi dalla personalizzazione del principio subalterno del male, suggerendo che non tutte le sue manifestazioni possono essere riferite alla libertà responsabile dell'uomo. D'altra parte, se si priva il male di un riferimento a Dio, suo antagonista assoluto, si rischia di banalizzarlo, di renderlo anonimo e burocratico (ma non per questo meno pericoloso) come quello che ebbe luogo durante lo Shoah. Quando invece già il tema del serpente, spiega Ricoeur,

17. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, p. 7. 18. Karl Barth, Dio e il Niente, Morcelliana, Brescia 2000, p. 23.

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rappresenta (…) il primo passo sulla via del tema satanico (…); il tema satanico consente almeno di compensare il movimento di concentrazione del male nell'uomo con un secondo movimento che ne riporta l'origine in una realtà demonica pre-umana. (…) l'uomo non è il malvagio assoluto; è solo un malvagio in seconda, un malvagio a causa della seduzione (…). Peccare è cedere19.

Anche nel mito adamitico, quindi, che per la prima volta riferisce l'origine del male ad un antenato non diverso da noi20 (e che per questo si merita l'appellativo ricoueriano di “mito

antropologico”), si insinuano altre figure che, pur non sopprimendo il primato di Adamo, distribuiscono la responsabilità del male originario anche tra altri personaggi, uno dei quali, il serpente, ha un chiaro significato simbolico.

Assente nel progetto di Dio e di una creazione che, coerentemente con la sua bontà assoluta, non può che essere buona, il male si insinua quindi nelle misteriose forme del serpente, al rango di qualcosa che non dovrebbe esserci eppure c'è. Vista in questo modo, sembra quasi che solo l'assoluta bontà di Dio possa conferire al male la sua esistenza, e probabilmente è anche per tale paradosso che l'origine del male è stata così spesso spostata dal piano metafisico a quello morale, facendolo coincidere con un peccato del primo uomo o con quello di una creatura sovracosmica. Ma, fermo restando che Dio è onnisciente, perché avrebbe dovuto masochisticamente consentire una messa in discussione della sua onnipotenza? La

contraddizione non è facile da sciogliere.

Certo è che una volta riconosciuta la sua complessità e la ricchezza dei suoi piani di lettura, scopriamo che nel mito adamitico la profondità enigmatica del mistero del male è stata esplicitata più di quanto non saranno in grado di fare anni e anni di filosofia consolatoria. Questo perché, sempre secondo Ricouer, il mito ha una grandezza diversa da quella della speculazione filosofica, una grandezza che sta nel saper riassumere la simbologia dell'impurità, del peccato, della colpevolezza, avvalendosi di un'ermeneutica più vicina alla 19. Ricouer, Finitudine e colpa, p. 526.

20. È proprio in ragione di tale umanità condivisa che Ricoeur contesta il termine “caduta”, che suggerirebbe una condizione umana superiore a quella attuale. Ricoeur, infatti, preferisce leggere il mito adamitico come “mito dello scarto”, Ivi, p. 498.

(17)

realtà dell'esperienza rispetto a quella maneggiata dalla filosofia. Come asserisce Pareyson,

infatti,

Il male e il dolore, occultati e fatti scomparire nel mondo razionalizzato della filosofia, sono invece ben presenti nel mito, nel senso profondo e intenso del termine, cioè nell'arte e nella religione, ed è lì che la filosofia deve andare a cercarli (…). È del resto ormai tempo che la filosofia (…) rinnovi i suoi contenuti attingendo al mito, e anzi ne tragga spunto per ritrovare se stessa recuperando la propria natura mitica originaria (…). La necessità del ricorso al mito deriva dunque dal fallimento della filosofia di fronte al problema del male21.

Da qui la scelta di intraprendere un'ermeneutica del racconto biblico del peccato originale, quella narrazione che riunisce tutti gli uomini sotto un'unica colpevolezza e li instrada verso un comune destino di espiazione. Tutto a causa di quel gesto provocatore che secondo molti inaugurò il dominio della storia umana, e che sancì una volta per tutta la sostituzione della nostra libertà a quella divina. Dio aveva scelto il bene, l'essere, e per farlo aveva lasciato dietro di sé il caos, destinandolo al passato e ad un oblio eterno: a partire da Gen., 1, 3 sgg. la creazione consiste in una vera e propria separazione tra la luce e le tenebre, e se queste ultime in qualche modo conturbano l'opera divina resteranno comunque sempre e solo «un'ombra fuggente, un limite che si ritrae»22.

Ma se Dio si è lasciato alle spalle il male e lo ha ridotto a mera rappresentazione della sua

non-volontà (Unwillen), come si spiega allora la realtà di questo non-volere contrario a Dio?

Come si affronta il male e il dolore nel mondo, questa «satira vivente e costante contro la filosofia che pretenda di eluderli o minimizzarli o esorcizzarli o addirittura scotomizzarli»23?

Pur asserendo l'equazione Male-Niente (Nichts) («(...) il Niente è il male (das Böse)»24),

anche K. Barth è costretto a concedere al male un barlume di esistenza concreta:

(…) risulta inammissibile ogni concezione del Niente in cui la sua esistenza, nel confronto con Dio, sia negata e spiegata come una 21. Pareyson, Ontologia della libertà, pp. 156-157.

22. Barth, Dio e il Niente, p. 152.

23. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 155. 24. Barth, Dio e il Niente, p. 154.

(18)

pura e semplice apparenza. Entro i limiti indicati, il Niente non è apparenza, ma realtà: è non-volere contrario a Dio, è quel totale

opus alienum della collera e del giudizio divino, ma, in questo

preciso senso, è realtà, non apparenza25.

Ma in questo preciso senso, il male, secondo Barth, è conoscibile. Solo se lo intende come

mano sinistra di Dio/opus alienum l'uomo è in grado di pensarlo e farsi un'idea della sua

struttura; nel nostro mondo, infatti, non si fa esperienza del Niente vero e proprio, piuttosto si

entra in contatto con il lato oscuro della creazione, con qualcosa quindi che le è perfettamente

connaturato e che non presenta in alcun modo il carattere distruttivo che il Male vero e

proprio ricopre tanto per l'uomo quanto per Dio stesso. La portata cosmica del male non ha

niente a che vedere con il risvolto notturno della creazione, anzi, confonderli significa

disconoscere il Niente, un disconoscimento che comporta gravissime conseguenze. Mentre

siamo intenti a dirigere la nostra attenzione all'aspetto negativo del mondo creato, infatti, il

Niente vero e proprio tesse la sua tela del tutto indisturbato: e di cosa deve essere accusata la

teodicea se non di questo, di distogliere cioè l'attenzione degli uomini dall'unico male

veramente minaccioso? Scrive infatti Barth:

Accade evidentemente che non lo si vede e non lo si prende più sul serio in quanto Niente reale, ma lo si comprende inserendolo in un'immagine del mondo, lo si spiega e lo si giustifica in termini definitivi, lo si considera e lo si tratta, in sostanza, non per la sua natura di Niente, ma come un suo elemento essenziale e necessario. Nè potrebbe essere altrimenti: a quella confusione non corrisponde nessuna realtà. Noi possiamo errare e ingannare gli altri, rinvenendo nel lato oscuro della creazione il Niente. Ma il nostro errore e inganno non possono cambiare il fatto che quel lato oscuro appartiene al Dio buono e alla perfezione della creazione (…)26.

Lo sbaglio di coloro che hanno «perorato la causa di Dio», come direbbe Kant, secondo Barth

non è tanto quello di aver reso necessario un male umano e contingente, ma quello di aver

confuso quest'ultimo (per Barth sì, necessario) con il Niente reale, con la minaccia suprema,

che, ripetiamo, non è intuibile da quanto di doloroso e drammatico vediamo verificarsi

25. Ibidem. 26. Ivi, p. 31.

(19)

attorno a noi. Il Niente, infatti, l'unico autentico, «è l'anormale e il non-misurabile per eccellenza. Ciò che è comprensibile, segue qualche legge. Ma il Niente non segue alcuna legge. Non è che deroga e violazione, vale a dire essenzialmente male. Perciò resta inseplicabile, e si può solo constatare come ripugnante in sè»27.

Ma il male che esperiamo nel corso della nostra vita, davvero non lo diremmo reale? Sì, il male è una realtà negativa che per secoli la filosofia ha preferito palliare con i mezzi più svariati, ma ciò non significa che non sia reale: «Il male», dice Pareyson, «(...) è realtà, più

precisamente realtà positiva nella sua negatività»28. Piuttosto che una privazione e mancanza

d'essere, il male storico è una vera e propria trasgressione, un atto di ribellione e distruzione che, lungi dal rappresentare un'attenuazione del caos originario, lo ratifica e corrobora

implacabilmente, con un effetto spirale/valanga29 che presenta tutti i caratteri dello scandalo30.

Quindi, Barth ha le sue ragioni per sostenere la nostra incapacità di assimilare e dominare il male (o il Niente) con mezzi razionali, ma tale complicazione è da ricondurre all'inadeguatezza del mezzo filosofico, e non ad una presunta inconsistenza del male compiuto e sofferto. Se ragioniamo in questi termini, la tragedia autentica dell'uomo, che si sente prigioniero della sua malvagità e sofferenza, non viene riconosciuta, esattamente come avveniva nelle teodicee.

Chi invece, come accennato sopra, ipotizza un collegamento tra il male pre-umano e quello storico perpetuato dagli uomini è Pareyson, e in modo differente Jankélévitch, che per definire i due tipi di male adopererà un linguaggio molto personale e svincolato da

27. Ivi, p. 156.

28. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 167.

29. Queste le espressioni utilizzate per definire l'escalation del male rispettivamente da Pareyson, Ontologia

della libertà, p. 191 e p. 208, e Jankélévitch, Il male, p. 21.

30. Il termine “scandalo” per indicare il male che imperversa nel mondo è molto frequente: lo si trova in primo luogo in Jankélévitch, ma ne fanno uso anche Pareyson e Ricoeur, seppur con significati un po' diversi; ma in tutti e tre i casi la scelta di questo vocabolo attesta la reazione di sdegno che avvertiamo di fronte alla malvagità imperante, e la domanda che ne segue: “perchè?”.

(20)

presupposti religiosi.

Dato che abbiamo appena illustrato il punto di vista di un teologo, proseguiremo con l'esporre

le dottrine di Pareyson, fortemente radicate nel cattolicesimo e volte a ridefinire l'operato

divino all'alba della creazione.

(...) un rinvio a Dio è inevitabile, perchè c'è un senso in cui il male preesiste all'uomo, ed è in questa sua preesistenza che risiede il carattere ontologico che gli compete. Non si può ammettere che l'uomo abbia tanta creatività da inventare il male: egli, ch'è l'unico

autore del male, non può tuttavia esserne l'inventore31.

Ad uno studio sul male, asserisce Pareyson, non si addice la dialettica logica della necessità,

espediente vuoto e formale basato sull'alternanza di positivo e negativo; e questo perchè le

vicissitudini del male sono sottotrame della più vasta storia della libertà, che in quanto storia

chiede di essere raccontata con un linguaggio narrativo e mitico.

Quando Dio creò questo mondo decretando la vittoria dell'essere sul nulla, lo fece tramite un

atto di libertà, e la libertà è sempre costituita da una coesistenza di ontologia e meontologia

che informa anche il momento originario. Il fatto che sia la libertà ad essere il fondamento di

tutto, tanto dell'iniziativa divina che di quella umana, getta sulla questione una luce del tutto

diversa rispetto a quella irradiata dalle osservazioni di Barth:

V'è sì la positività originaria, cioè l'essere e il bene, ma entrambi in quanto voluti dalla libertà, e in quanto tali costantemente accompagnati da un alone di negatività: l'essere implica vittoria sul nulla, il bene implica vittoria sul male. Come libertà, Dio è l'essere che ha voluto essere, e quindi è vittoria sul nulla, e ne contiene la possibilità; è scelta del bene, e quindi è vittoria sul male, e ne contiene la possibilità. (...) C'è dunque un senso in cui si può sostenere la presenza del male in Dio, in quanto la sua positività si afferma come vittoria sulla negatività considerata quale possibilità prospettata e contemplata, anche se in definitiva domata e soccombente. (…) Si ha l'impressione che il nulla sia ancora in agguato, come una costante minaccia, e che il male latente e sopito possa ridestarsi. La negatività e il male presenti in Dio (…) possono ancora costituire un pericolo32.

31. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 184. 32. Ivi, pp. 176-179.

(21)

“Male in Dio”: un'espressione che Pareyson riconosce essere raggelante, ma che se non altro è «perfettamente adeguata a significare l' incomprensibilità del male. (…) significa che ogni sforzo è stato fatto per comprendere il male e non resta altra conclusione se non riconoscere ch'esso è inspiegabile»33. Questa teoria, continua Pareyson, è in grado di tenere assieme la

realtà del male e la sua preesistenza al mondo umano senza dover ricorrere ad una demonizzazione della divinità: «si può respingere il Dio levigato della teodicea, e ravvisare in Dio qualcosa di opaco, quasi un'ombra, senza perciò satanizzarlo»34.

Certo è che se siamo arrivati al punto di dover cercare in Dio l'origine del male è segno che si è infranta ogni speranza di rinvenirla ad un livello inferiore, e che nella divinità si può scorgere un fondo oscuro destinato a tentarci fino alla fine dei tempi. Mentre il tempo storico, quindi, come approfondiremo nel secondo capitolo, è il palcoscenico del male “agito” e messo in atto, l'origine del male è invece da ricercare retrospettivamente, in quella struttura eterna e

atemporale presidiata dalla divinità.

Approfondendo l'espressione “il male in Dio”, diremo che quando ancora sussisteva tale struttura atemporale, sul male Dio era in grado di esercitare un certo controllo, mantenendolo

dentro di sé «quasi celato e furtivo»35: in Pareyson il negativo, il Niente era nato come vinto,

un'opportunità trascorsa che non poteva essere afferrata se non dall'irrompere di una scelta spericolata e distruttiva. Barth, invece, ne annuncia la capitolazione storica, ritenendolo definitivamente vinto in Gesù Cristo, che lo ha disinnescato sacrificandosi sulla croce; oramai il Niente avrebbe per noi solo un'apparenza minacciosa se la sua fine fosse stata rivelata a tutti gli uomini. Invece Dio fa sì che noi vediamo il Niente “come se” non fosse ancora del tutto annientato, così che questa misteriosa entità in un certo senso esiste solo grazie ad una sua disposizione; in un ragionamento di questo tipo non è difficile avvertire gli echi delle recenti teodicee, in particolar modo se ci si sofferma sulle considerazioni finali:

33. Ivi, p. 180. 34. Ivi, p. 182. 35. Ibidem.

(22)

L'avversario di Dio, il nemico che Egli ha vinto, è divenuto un servitore di Dio. Ben strano servitore, in realtà, e tale resterà (…) Ma ancor più importante è considerare che Egli si è adoperato

affinchè anche il Niente appartenesse alle cose di cui è stato detto che concorrono al bene di coloro che amano Dio (corsivo mio)36.

Niente di più distante dal pensiero di Pareyson, per il quale, se mai il male è stato asservito alla potenza divina, questo è avvenuto al principio dei tempi, quando, sì, il male era in Dio, ma nel senso che era vinto in Dio. Il principio del male di cui discettano i manichei non esiste: c'è un solo principio, che ab aeterno (ma non per sempre) contiene in sé un aspetto tenebroso e oscuro, ma che riesce a padroneggiare e, soprattutto, a far convivere con il bene, suo opposto inseparabile. Proprio tale inseparabilità di bene e male, questa «placata dialettica

dell'eternità»37 ha fatto sì che, per tutto il tempo che era Dio a tenere le fila del mondo, i due

opposti confinassero senza mai imbracciare le armi. L'ontologia e la meontologia originarie, componenti necessarie di qualsiasi atto di libertà (che nel suo scegliere un'alternativa ne esclude inevitabilmente un'altra), erano inseparabili accompagnatrici. Eppure il male che oggi ci perseguita affonda le sue radici proprio là, in quell'opzione che sub specie aeternitatis venne esclusa ma non per questo resa fuori portata: e il pericolo non è rappresentato dal fatto che essa sia alla portata di Dio, che ha già voluto il bene una volta per tutte, ma a quella degli uomini, i quali renderanno il bene e il male, da contrari pacificati, opposti inconciliabili, gettati in una guerra destinata a non finire mai. Perchè, se contenere il male dentro di sè significa custodirne l'origine, non per questo ci si può dire responsabili anche del suo compimento, ed è esattamente questo il ruolo ambiguo che, nella disamina di Pareyson, riveste il Creatore. Identificandolo sin dal principio come libertà, e come libertà positiva, si fa

sì che esso «possa essere origine del male senza esserne anche l'autore», depositario del male possibile ma non di quello reale. Ma non è forse il male reale quello da cui ci sentiamo vessati, e per cui leviamo i nostri lamenti al cielo?

36. Ibidem.

(23)

La situazione tragica dell'uomo, quindi, è qualcosa su cui è difficile soprassedere, e forse la

filosofia è una disciplina troppo razionale per comprenderla in modo adeguato. Anche perché,

senza per questo rigettare un punto di vista teoretico, la sua trattazione richiederebbe un

approccio un po' diverso:

La tragicità dell'esistenza deve essere presa sul serio. (…) la serietà è dibattito dialettico e relatività feconda. Tanto la smorfia delle lacrime e la contorsione del riso si apre lo spazio per la serenità ironica, equanime, distesa (distesa, non impassibile) del sorriso. (…) la serietà dunque fonda la vera spensieratezza, che è filosofia (…). Non bisogna prendere l'assurdità né tragicamente né alla leggera, ma semplicemente sul serio38.

Ma con quali strumenti è possibile discutere di un oggetto se questo svanisce non appena si tenta di fermarlo con una definizione? Perché è in questi termini che Pareyson aveva parlato del male, e attribuendogli la qualifica di “Assurdo” Jankélévitch non sembra porsi al di fuori dell'alternativa immobilizzante. Oppure, il linguaggio del filosofo francese, prototipo di un pensiero che esplora ciò che non è direttamente afferrabile, sempre al confine tra l'essere e la sua privazione, è più adatto di altri per parlare di nozioni negative; infatti, se Pareyson si limitava ad attribuire una certa contraddittorietà al fenomeno del male, Jankélévitch la riferisce alla vita nella sua totalità, ed ogni sua opera esemplifica la volontà di non rifuggire quest'intima contraddizione. Solo con un lessico del paradosso, solo con l'ironia è possibile riflettere su ciò che a prima vista appare inafferrabile, su «una contraddizione intestina, insolubile, inconciliabile, che fa della vita l'impossibile possibilità di ogni giorno, l'Impossibile realizzato»39.

E anche Il male, pagina dopo pagina, non abbandona mai il suo paradosso di partenza, che discende dall'ambivalenza del male stesso: da una parte il Male metafisico, ciò che Jankélévitch definisce “l'Assurdo” e di cui ci siamo occupati in queste pagine, dall'altra il

male umano, “lo Scandalo”, di cui parleremo meglio in seguito.

38. Jankélévitch, Il male, pp. 27-28. 39. Ivi, p. 9.

(24)

La relazione che intercorre tra i due non è molto chiara: in più punti si ha l'impressione che

vadano tenuti ben distinti, tanto che Jankélévitch raccomanda un atteggiamento di

rassegnazione nei confronti dell'Assurdo, come un qualcosa che esiste nostro malgrado, ma di

protesta contro lo Scandalo, contro quelle ingiustizie, cioè, di cui siamo interamente

responsabili. Se non che il loro rapporto è anche caratterizzato da una circolarità che in parte

smentisce la separatezza di fondo: è l'Assurdo, infatti, a procurare allo Scandalo l'occasione

per attualizzare la sua malevolenza, malevolenza che, una volta concretizzata, va a ratificare e

a potenziare l'Assurdo stesso. E anche sull'inevitabilità o meno di questo potenziamento ad

opera dell'uomo, come vedremo, ci si può interrogare.

Per quanto pertiene a questo capitolo, è importante sapere che per Jankélévitch

La malvagità è un caso privilegiato del disordine generale. Il male dell'uomo denominato malvagità atterrebbe quindi alla cattiva qualità dell'Essere; in questo mondo c'è dell'imperfezione; l'Essere è cioè raffazzonato, potrebbe essere meglio di quanto non sia, è ciò che non dovrebbe essere. (…) la malevolenza, che è il male dell'iniziativa umana, attiene alla cattiva costituzione dell'Essere. (...) La malvagità umana è la pietra di paragone dell'imperfezione metafisica (…) Il prototipo di questo disordine si trova nel mondo metempirico, poiché la nostra Babele umana rappresenta l'icona di una confusione più profonda sul piano delle norme...Ma è veramente ontologica la confusione? Certamente (...)40

La volontà umana, quindi, si colloca tra le due “zone” del male: una dalla quale prende l'ispirazione per concretizzare i suoi piani malevoli, un'altra che viene a configurarsi una volta che tale concretizzazione ha avuto luogo. La prima zona, quella che adesso ci interessa, rivela un Essere lontano tanto dall'Essere di cui parla Barth che da quello di Pareyson: è un Essere «di cattiva qualità», a tal punto da invitarci alle azioni più oltraggiose41.

Essendo disinteressato a eventuali risvolti religiosi, e quindi alle beghe teologiche che una considerazione di questo tipo potrebbe sollevare, Jankélévitch dà per acquisito il concetto di un male ontologico e di un difetto costitutivo all'Essere, che definisce «insufficienza

40. Ivi, pp. 3-14.

41. In Pareyson invece, Ontologia della libertà, p. 186, è la positività divina «la grande tentazione dell'uomo»,

(25)

metempirica»42, la cui esistenza ci è accessibile grazie ad una certa confusione che

riscontriamo a livello normativo.

Se c'è qualcosa che non è risolvibile dalla riflessione, e che dunque è destinato a rimanere fallace, è proprio questo: la nostra «visione (...) orgiastica dei valori»43, prova

incontrovertibile del loro «sporadismo». Semplificando l'artificiosità linguistica di Jankélévitch, potremmo dire che, a livello ontologico e non a causa di nostri difetti percettivi, i valori (Bene, Bello, Verità e via dicendo) sono in uno stato di perenne conflitto, e ognuno di

essi, incurante degli altri, si professa il più importante.

Così, la zona del male che esiste a prescindere da un'iniziativa umana ha come caratteristica principale quella di negarci una gerarchia valoriale che orienti la nostre azioni; è quanto

Jankélévitch definisce «mistero dell'Assoluto plurale». Come può essere plurale un'entità assoluta, cioè autonoma e autoriferita per definizione? Eppure lo osserviamo ogni qual volta ci si appresta ad agire: ogni norma si presenta come assoluta a discapito delle altre, determinando una collisione di doveri in cui non tutti gli uomini sono ugualmente propensi a mettere ordine. Come è stato detto, infatti, il disordine metempirico esistente per se stesso è allettante per una malevolenza che non vede l'ora di realizzarsi, e in questo modo di accrescere il quantitativo di male già presente: come Ricoeur e Pareyson anche Jankélévitch non accetta di ridurre il male alla sua manifestazione empirica, ma non per questo acconsente a renderci innocenti o a qualificarci costantemente come vittime.

Ma in cosa consista il contributo umano al Male, e sino a che punto possa essere

determinante, è ancora da stabilire.

42. Jankélévitch, Il male, p. 14. 43. Ivi, p. 15.

(26)

2) Il male umano: la colpa

Come si vede, si torna sempre al problema dell'ambivalenza del male: qualunque sia la strada

percorsa, ciò che si trova è la percezione immediata di un accavallarsi di piani, un'

inscindibile polarità, che è la ragione del mistero di questa esperienza.

L'uomo che è caduto, infatti, spesso non sa spiegare né il come né il perché della sua caduta,

si confessa responsabile del male che ha compiuto, ma al tempo stesso afferma di aver agito

come preso da una forza estranea. Questo perché nell'esperienza della colpa si sovrappongono

due concezioni del male, con cui la coscienza ha tentato nel corso della storia di elaborare

questo trauma: la percezione del male come un quid negativo, qualcosa di oggettivo e

preesistente, come quello sin'ora esaminato, e come scelta dell'uomo, come cominciamento,

decisione libera, atto nuovo e responsabilmente posto.

È come se l'uomo, proprio nel momento in cui più afferma se stesso, quando cioè si allontana

dalla legge morale per sostituirle la propria, fosse prigioniero di una forza che lo avvince. Ed

è per questo che prima di esaminare il male commesso dagli uomini è stato necessario far

riferimento a quello che sentiamo esistere nostro malgrado, alla tragedia preesistente che fa da

sfondo ai nostri crimini e li rende così profondi e inquietanti:

Quando la tragedia è assente (…) il peccato (…) non trascina niente con sé, non tocca qualcosa d'essenziale, non mette nulla in pericolo, non trova da nessuna parte risonanze metempiriche. Quel che dovrebbe alleggerire la colpa, la rende al contrario pesante sulla nostre spalle: il peccatore non è più solo, ma ha dietro di sé il disordine stesso delle norme che giustifica in qualche misura la sua perversità, benché a dire il vero vi aggiunga sempre qualcosa; i valori lo incoraggiano alla confusione dandogli l'esempio: il peccatore è questa volta sostenuto e in un certo senso spalleggiato dall'intero universo1.

Da una certa prospettiva l'uomo può effettivamente apparire «un malvagio in seconda, un

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malvagio a causa della seduzione. (…) si fa malvagio (…) per consenso ad una sorgente del male che l'ingenuo autore del racconto biblico dipinge come un astuto animale. Peccare è cedere»2. Ma bisogna tenere presente che, tanto adesso quanto al tempo della caduta, non

sussiste alcun piano predisposto in base al quale l'uomo dovrebbe abbandonarsi al peccato. Per quanto i nostri cedimenti da una parte possano essere perdonati, poiché riconducibili all'insufficienza ontica immanente, al contempo e da un altro punto di vista sono imperdonabili «perchè sempre evitabili»3: come Adamo nel giardino dell'Eden era libero di

confermare la positività della creazione4, così, ogni qual volta ci troviamo a reiterare l'

insubordinazione di quel primo uomo, non possiamo dirci costretti a farlo.

Anzi, oltre a riconoscere la nostra percentuale di colpevolezza, dovremmo anche considerare

l'eventualità che solo il male agito possa dirsi propriamente male, e questo perché «Solo la colpa (…) è veramente malvagia; solo la colpa, di conseguenza, è il male colto in flagrante, cioè in atto»5, reso vivibile e sensibile dall'iniziativa umana. Se, come ritiene Pareyson, quel

male che nell'eternità era allo stato latente imperversa e risulta costantemente vittorioso nel dominio della storia, ciò deve essere ricondotto ad un «ridestatore del male»6, e non può

trattarsi di Dio stesso, che scegliendo il bene aveva ridotto il male a traccia inconsistente. Già nel 1786 Kant scriveva che la storia della libertà inizia con il male in quanto è opera dell'uomo, allo stesso modo in cui la storia della natura ha inizio con il bene in quanto opera di Dio7.

Difatti, anche quando si parla di quella colpa originaria in cui «s'incontrano due tempi e due

libertà»8, quello dell'eternità (Kant direbbe della natura) e quello della storia, l'ambiguità del

2. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 526. 3. Jankélévitch, Il male, p. 31.

4. «La caduta dell'uomo (…) poteva non accadere, se non altro perchè non doveva accadere», sintetizza Pareyson in Ontologia della libertà, p. 186.

5. Jankélévitch, Il male, p. 42.

6. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 190.

7. Kant, Congetture sull'origine della storia umana, in Scritti politici, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, UTET, Torino 1971, pp. 202.

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divieto9 e l'intervento di un “tentatore” non devono far dimenticare l'intento essenziale del

racconto: quello di concentrare «in un sol uomo, in un sol atto, cioè in un unico avvenimento,

tutto il male della storia»10 : con il passaggio dalla bontà dell'uomo creato alla malvagità

dell'uomo storico comincia il tempo della maledizione, e per quanto l'efficacia del male ridestato non si estenda all'eternità ma si circoscriva «nell'ambito che le è proprio, ch'è il

tempo e la storia»11, da quel momento in poi è destinato ad un «incremento continuo dovuto

alla sua stessa accumulazione, ciò che rende sempre più terribili le conseguenze della scelta del male fatta originariamente dall'uomo. (…) da allora l'uomo non fa che scelte negative, perchè il peccato è la prima pena del peccato»12.

«Che vi sia un uomo, questo è il male»13, sembra dire con Ricoeur il mito della caduta.

Come abbiamo già avuto modo di vedere, la nozione di peccato originale (quando non è stata marginalizzata quale mito non più accettabile da parte di un'umanità adulta) ha richiamato l'attenzione di molti filosofi, che vi hanno visto l'unica possibilità di fare luce sul mistero della presenza del male attuale nel mondo e nella vita dell'uomo. Per avvalorare l'esistenza di un male pre-umano ci eravamo serviti di sue letture in chiave di tentazione, per le quali la figura

del serpente simboleggia l'esperienza storica dell'uomo in cui «ciascuno trova il male già lì; nessuno gli dà inizio in senso assoluto (…). Il male (…) è trasmesso, è tradizione e non solo avvenimento; vi è quindi un'anteriorità del male a se stesso, come se il male fosse ciò che sempre si precede (...)»14. Dopotutto, quando l'uomo compie il suo primo (nefasto) gesto nel

giardino dell'Eden, il serpente c'era già, e questo perchè «non si può ammettere che l'uomo

9. Riguardo la proibizione di nutrirsi all'albero della vita, Ricoeur sottolinea che «per una libertà innocente questo limite non sarebbe affatto sentito come un'interdizione; ma non sappiamo più ciò che è questa autorità originaria, contemporanea alla nascita stessa della libertà finita; in particolare non sappiamo più ciò che potrebbe essere un limite che non opprima ma orienti e custodisca la libertà; non abbiamo più accesso a questo limite creatore. Conosciamo solo il limite costrittivo; sotto il regime della libertà decaduta l'autorità diviene divieto», Finitudine e colpa, p. 516.

10. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 509. 11. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 180.

12. Ivi, p. 191. Ne Il concetto dell'angoscia, SE, Milano 2007, p. 35, Kierkegaard dice qualcosa di simile: «(...) il peccato entrò nel mondo con un peccato (…), spiegazione dalla quale risulta la profonda conclusione che il peccato presuppone se stesso; che esso viene nel mondo in modo che, mentre è, esso è già presupposto».

13. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 497. 14. Ivi, p. 525.

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abbia tanta creatività da inventare il male»15, data la limitatezza della sua potenza.

Ma una certa ermeneutica, della quale ancora una volta si fa portavoce Ricoeur, riconosce sì nel serpente un simbolo del male, ma di un male che io continuo ogni qual volta lo incomincio e introduco nel mondo, e il «sempre già qui» del male è l'altro aspetto di questo male di cui tuttavia io sono responsabile. «(…) L'uomo conosce il male solo come ciò che egli

inaugura»16. Anche perchè, continua Ricoeur, per quanto ci si possa spingere in là sulla strada

della satanologia «non so ciò che è Satana, chi è Satana, neppure se è qualcuno (…) Ecco

perchè il mito biblico (…) rimane “adamitico”, cioè antropologico»17.

Alla lettura del mito come dramma di tentazione, infatti, Ricoeur ne affianca una che sottolinea il carattere istantaneo della caduta18, come anche il nome stesso suggerisce: una

frattura e uno scarto, qualcosa che, in fin dei conti, era del tutto imprevedibile e che non si inserisce in un flusso temporale più ampio; che, soprattutto, pone in secondo piano il personaggio del serpente, e con lui i vari significati che gli sono stati via via attribuiti. Non vittima quanto promotrice del caos, è la creatura a stabilire una volta per tutte la piega che prenderà la relazione tra lei e il suo creatore, e tutto questo con un solo, unico gesto.

Gesto che solo in una lettura del peccato originale come avvenimento istanteneo può dare un'idea della contingenza di un male radicale che, afferma Ricoeur, «il penitente è sempre sul

punto di chiamare la sua natura malvagia»19. Come vedremo meglio nel prossimo capitolo,

Kant lo aveva già compreso con mirabile vigore nel suo Saggio sul male radicale: l'uomo è un essere destinato al bene ma incline al male, e tutto il senso del simbolo della caduta si

concentra in questo paradosso.

15. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 184. 16. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 527. 17. Ibidem.

18. Già solo la compresenza di due esegesi così diverse del peccato originario, causa e modello di quelli che da lì in poi gli uomini commetteranno, ci porta al cuore del mistero della colpa e della drammaticità di quest'esperienza: del fatto, cioè, che chi ha commesso il male si sente spesso al contempo colpevole e vittima, libero eppure avvinto, in una affermazione di sé che allo stesso tempo è alterità a se stesso, sperdimento.

19. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 518. D'altra parte, però, non si capisce come il primo uomo abbia potuto incorrere nel peccato se il germe del male non era già in lui in qualche modo presente: anche per consentire a un male antecedente è infatti necessario essere predisposti ad accoglierlo...

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Anche Jankélévitch, pur non interrogandosi sulla bontà o malvagità della natura originaria

dell'uomo, con il suo invito a protestare contro il male dello Scandalo fissa la sua non

ineluttabilità:

La saggezza ci indica quindi chiaramente il cammino: bisogna rassegnarci al principio metempirico dell'assurdo, contro lo scandalo invece bisogna protestare. Ma come folli facciamo tutto il contrario, rassegnandoci allo scandalo differibile, protestando contro l'Alternativa ineluttabile. (…) La rassegnazione all'Assurdo è la saggezza stessa, ma la condiscendenza allo scandalo è di per sé uno scandalo20.

Tanto più che l'Assurdo, per Jankélévitch, non è niente di “essente”, non è qualcosa di tangibile su cui cui posso dirottare le mie azioni. Il peccato non va ricercato in qualcosa verso cui si indirizzerebbe il mio volere, ma nell'avverbio che qualifica questo volere stesso: il peccato è malevolenza, volere male, un attributo qualitativo che antepone l'intenzionalità della colpa al suo contenuto. «È (…) l'intenzionalità della colpa che costituisce la colpa stessa.

Ecco perchè fare del male può accompagnarsi alla benevolenza e fare del bene alla malevolenza. (…) È l'intenzione ad essere viziata»21. Quando gli uomini accusano Satana di

averli tentati non si rendono che, compiendo azioni motivate da un proposito malvagio e finalizzato a ingenerare la confusione, sono più diabolici di lui22, che se non altro, nello

scenario del male storico, ha un ruolo meno determinabile del nostro.

Ma tanto addurre la dissonanza ontica come circostanza attenuante che addossarci l'intera responsabilità del male che imperversa significa disattendere quanto qua ci proponiamo di fare, cioè comprendere «il mistero di una libertà schiava»23. L'ermeneutica della colpa rimedia

solo parzialmente alle debolezze della teodicea: scavare impietosamente nella coscienza per

20. Jankélévitch, Il male, pp. 33-34. 21. Ivi, p. 49.

22. Anche nelle pagine in cui parla del mito della caduta, Jankélévitch conferma la teoria sull'origine endogena del peccato. Adamo è costretto ad ammettere che i quattro personaggi dell'uomo tentato, della tentatrice tentata, del tentatore stesso, e della cosa tentante, «(...) ne compongono uno solo, e che quell'unico personaggio è lui stesso: si assiste così a una compenetrazione progressiva dei differenti personaggi di quel dramma, che si fondono poco a poco l'uno nell'altro. Questa semplificazione del processo satanologico indica chiaramente che la tentazione è in noi, che il tentatore siamo noi stessi (…)», Ivi, pp. 83-84.

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trovare un male nascosto e invisibile all'esterno non rende giustizia né alla complessità del sentimento di colpa nè alla portata cosmica del male, proprio come fanno gli amici di Giobbe,

araldi di una società che definisce e imputa colpe.

Un'istanza di colpevolizzazione di questo tipo, infatti, isola l'individuo e gli rende inaccessibile la tragicità del conflitto in cui incorre nell'istante del peccato, tragicità che

Kierkegaard e Ricoeur hanno reso perfettamente con il concetto di “vertigine”24 (in

Kierkegaard quasi sinonimo di “angoscia”), che ci soverchia quando siamo in procinto di

compiere il «salto qualitativo»25 dall'innocenza alla colpevolezza:

(…) colui che, mediante l'angoscia, diventa colpevole è di certo innocente; infatti non era lui, ma l'angoscia, una potenza estranea, che lo prese; una potenza che egli non amava, ma di cui si angosciava...; eppure egli è colpevole, perché si lasciò cadere nell'angoscia che egli, pur temendo, amava. Non c'è nel mondo niente di più ambigui di questo26.

A differenza di quanto afferma Jankélévitch, che fa scaturire il male dello scandalo da un'iniziativa individuale, potrebbe esserci «una vertigine che dalla debolezza conduce alla tentazione e dalla tentazione alla caduta. Così il male, al momento stesso in cui io confesso di porlo, sembra nascere dalla limitatezza stessa dell'uomo attraverso la transizione continua

della vertigine»27. Descrivere a parole l'attimo della frattura, il lampo in cui la libertà è

precipitata a forza di osservare la sua creaturale finitezza, è quasi impossibile, e anche l'analisi psicologica di Kierkegaard, dall'istante precedente il peccato, di cui si occupa ne Il concetto

dell'angoscia, passa subito a quello immediatamente seguente, che ne La malattia mortale

dice essere contraddistinto dal sentimento della disperazione.

Certo, il verificarsi della caduta si comprende meglio tenendo conto della limitazione umana, che è da intendersi come una limitazione a sé stante e non come caso particolare di una

24. Kierkegaard, Il concetto dell'angoscia, p. 61; Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 242. 25. Kierkegaard, Il concetto dell'angoscia, p. 49.

26. Ivi, p. 45.

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