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Risollevarsi dal male: il perdono Una genealogia

concetto kantiano di male radicale

1) Risollevarsi dal male: il perdono Una genealogia

La colpa, lo abbiamo visto, consiste in una cattiva azione, e, a questo titolo, condannabile. Nel vocabolario del saggio kantiano sulle grandezze negative, la colpa è una grandezza negativa della pratica.1 Ma se, a questo primo titolo, la colpa è limitata tanto quanto la regola che infrange, le cose vanno diversamente quando spostiamo l'attenzione sull'implicazione dell'agente nell'atto: questa, infatti, equivale a rendere illimitata «la risonanza sulla coscienza di ognuna delle nostre azioni»2, in virtù di un'inadeguatezza riscontrata dall'io rispetto al suo desiderio più profondo, il desiderio di integrità. Non senza ragioni, quindi, Jaspers include la colpa tra le “situazioni limite”3, vale a dire tra quelle determinazioni dell'esistenza che troviamo sempre già là, quali la morte e la sofferenza: ma se questo genere di esperienze, da una parte, ci coglie inermi e impreparati, dall'altra ci sollecita alla riflessione, ci dà a pensare. E, per quanto riguarda l'esperienza della colpa, ci dà da pensare sulla struttura dell'imputabilità delle nostre azioni, nella quale essa si inscrive. «In effetti», afferma Ricoeur, «non può esserci perdono se non là dove si può accusare qualcuno, presumerlo o dichiararlo colpevole. E non si possono accusare che azioni imputabili a un agente, il quale si ritiene il loro vero autore. In altri termini, l'imputabilità è quella capacità, quell'attitudine, in virtù della quale le azioni possono essere messe in conto a qualcuno»4. È come se l'articolazione fra l'atto e l'agente, che è ciò in cui consiste l'imputabilità, nell'esperienza della colpa fosse ferita da una penosa afflizione. Ed è proprio a questo punto, prosegue Ricoeur, che entra in gioco il perdono: 1. Kant, Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto di quantità negative, in Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, R. Assunto, R. Hohenemser, Laterza, Bari 1953, pp. 257-301.

2. Jean Nabert, Elementi per un'etica, La Garangola, Padova 1975, p. 11.

3. Jaspers, Chiarificazione dell'esistenza, Libro II, Sezione III, L'esistenza come incondizionatezza nella

situazione, la coscienza e l'azione, pp. 676-819.

«la colpa», infatti, «è il presupposto esistentivo del perdono»5. C'è anche chi ha visto nella colpevolezza una condizione così intrinseca alla condizione umana da reputare il perdono un vero e proprio male morale, che metterebbe la libertà umana a disposizione di Dio e offenderebbe la nostra libertà: una colpa, quindi, imperdonabile non di fatto ma

di diritto, poiché «L'essere colpevole di un'azione cattiva non può essere tolto a

nessuno, perché è indivisibile dal colpevole (…) Vi è certo, moralmente, un superamento del male (…) ma non una nullificazione della colpa come tale»6. Eppure, «risuona la proclamazione che questa semplice espressione riassume: “C'è il perdono”»7.

Ma che cos'è il perdono? E in cosa consiste, concretamente, la sua azione liberatrice? Definire il perdono non è meno difficile che definire il male. Nel perdono, infatti

c'è una sorta di laconismo soprannaturale: la parola si pronuncia spesso nel silenzio e non ha altro commento che il bacio paradossale, l'ingiusto e incomprensibile bacio, lo scandaloso bacio dato al persecutore; ma il bacio non è parola, come le lacrime non sono “linguaggio”; l'abbraccio è piuttosto un gesto (…); se si parlasse invece di dare silenziosamente il bacio della pace, sarebbe per snocciolare obiezioni contro il perdono, per argomentare contro di esso, per provare l'intera responsabilità del colpevole, o, tutt'affatto il contrario, per dimostrare la necessità dell'indulgenza e perorare le circostanze attenuanti; infatti si parla per accusare e si parla altresì per scusare (…); insomma, solo il perdono non ha niente da dire8.

Sull'attimo dell' “acumen veniae”, come lo definisce Jankélévitch, sembra non essere rimasto niente da dire. Ciò su cui pare più opportuno (e semplice) soffermarsi è il perdono come concetto: non che la questione del perdono non sia anche sotto quest'aspetto un enigma, come la definisce Ricoeur, ma se non altro è un enigma che ha qualcosa da dirci e rispetto a cui una qualche genealogia del termine può venirci in soccorso.

Nell'Annotazione generale de La religione entro i limiti della sola ragione, intitolata “Del modo come l'originale disposizione al bene si ristabilisca nella sua forza”, Kant scrive:

5. Ivi, p. 652.

6. Nicolai Hartmann, Etica, III: metafisica dei costumi, Guida, Milano 1972, p. 248. 7. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 661.

(…) poiché, secondo quello che abbiamo finora ammesso, un albero buono originariamente (per la sua disposizione) ha tuttavia prodotto frutti cattivi e la caduta dal bene al male (se si riflette bene che il male proviene dalla libertà) non è comprensibile più di quel che lo sia il risollevarsi dal male al bene; così non può essere negata la possibilità di questo risollevamento. Poiché, dopo questa caduta, risuona, tuttavia con forza non attenuata nella nostra anima il comando: «noi dobbiamo diventare migliori»; conseguentemente noi siamo di necessità anche in condizione di poter diventare migliori, anche se ciò che possiamo fare dovesse essere, di per sé solo, insufficiente e perciò dovesse soltanto renderci atti a ricevere un soccorso superiore, per noi inesplicabile9.

Trattando dell'inscrizione dello spirito di perdono nelle operazioni della volontà, Kant si limita quindi a richiamare una “cooperazione soprannaturale”, senza la quale l'individuo non sarebbe mai in grado di completare l'accoglimento del movente morale nella sua massima. Anche se Kant non parla esplicitamente di perdono, quanto piuttosto di grazia, optando per questo termine riconduce la remissione delle colpe ad un intervento dall'alto, senza menzionare la possibilità di uno “scambio” interumano tra il colpevole e l'eventuale vittima di un torto: ma il perdono vero e proprio consiste in una relazione orizzontale di scambio o emerge dalla dissimmetria di una relazione verticale? E, conseguentemente, presuppone una domanda di perdono o va intenso in senso non-condizionale, vale a dire come un atto spontaneo e privo di calcolo che prescinde da un pentimento precedente? Vedremo che anche

la storia del concetto di perdono non si presta a risposte univoche.

Sia Martha Nussbaum in Rabbia e perdono che Avishai Margalit ne L'etica della

memoria ne ripercorrono la genealogia, pur con propositi differenti: Nussbaum con

l'intento di «cogliere gli elementi di aggressività, controllo e infelicità»10 che cela la nostra idea di perdono, Margalit per approfondire la relazione che intercorre tra l'atto di perdonare e quello di dimenticare. La nostra idea di perdono fu inizialmente introdotta, e così persistette per millenni, in rapporto a tutta una serie di concetti e comportamenti religiosi: la legge del perdono è la grande rivoluzione spirituale che il Cattolicesimo ha introdotto nel mondo,

9. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, pp. 47-48.

insieme al concetto di amore. Per i popoli antichi esisteva la legge del “taglione”, ossia “fai all’altro quanto egli ha fatto a te”: in parole povere, nei confronti di chi ci aveva arrecato un danno si rispondeva con la vendetta. A ciò facevano eccezione i Giudei, che erano obbligati, sulla base delle loro norme religiose, a perdonare il proprio nemico dopo la sua terza richiesta in tal senso.

Il perdono divino, secondo il rito cattolico, prevede la remissione dei peccati, che consiste l’assoluzione delle colpe concessa da Dio al peccatore pentito che le riconosce, le confessa al sacerdote e fa promessa di abbandonare il suo peccato. Nella chiesa cattolico-romana al perdono divino è connessa la pratica dell’indulgenza plenaria o parziale, cioè la remissione di tutta la pena, o di una parte di essa, che il peccatore dovrà scontare a causa delle sue colpe, anche se perdonato da Dio.

Partendo dal presupposto che vari aspetti del perdono sono difficilmente separabili da tale

contesto di origine, tanto Nussbaum che Margalit esaminano la visione religiosa in cui questo concetto affonda le sue radici.

Premettiamo un dato importante: «La Bibbia usa la parola ebraica salakh, che significa perdonare, solo per il perdono di Dio. Non la usa per una persona che ne perdona un'altra, come nel caso dell'ebraico moderno. La parola prevalentemente usata nella Bibbia per quest'ultimo proposito è nasa, che significa “sostenere” o “portare»11. Nelle Sacre Scritture, quindi, il processo indipendente di perdono da umano a umano e il perdono di Dio significano cose diverse, e se il primo nell'ebraismo già rivestiva un ruolo di secondo piano, nel cristianesimo verrà eliminato del tutto: ogni perdono viene da Dio, e l'unica mediazione ammessa è quella del clero: «La confessione cattolica lo esplicita bene: il prete, nel nome di Dio, può assolverci dalla trasgressione interpersonale, e non abbiamo bisogno di fare o dire nulla all'altra persona, a meno che non lo ingiunga il prete stesso»12.

11. Avishai Margalit, L'etica della memoria, Il Mulino, Bologna 2006, p. 153. 12. Nussbaum, Rabbia e perdono, p. 112.

Ma se nella Bibbia ebraica non c'è nessun dovere di perdonare, il Nuovo Testamento, invece, contiene un'esplicita esortazione a farlo: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, le rimetterà anche a voi il padre vostro celeste, se invece non le perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Matteo 6, 14-15). L'idea è che non c'è nessuno che non abbia bisogno di perdono: «non c'è uomo giusto sopra la terra che faccia sempre il bene e non pecchi mai» (Ecclesiaste 7,20). Dal momento, poi, che l'individuo ha comunque bisogno del perdono per via del peccato originale, e che quindi «per un solo errore la condanna si è estesa a tutti gli uomini» (Romani 5,18), siamo tutti in una condizione di colpevolezza: dal che consegue che non solo abbiamo tutti bisogno di perdono, ma che dobbiamo anche esser capaci di perdonare.

Quel che ci interessa è che sia quando nega che quando afferma la possibilità di una remissione delle colpe da uomo a uomo, il contesto religioso del peccato e del perdono suggerisce una varietà di immagini relative a come il peccato può essere perdonato o dimenticato. Le immagini proposte da Margalit13, coerentemente con l'impostazione complessiva del testo, riguardano l'atto del cancellare e dell'occultare; gli atteggiamenti rinvenuti da Nussbaum14 nella tradizione giudaico-cristiana, invece, criticano l'assunto secondo il quale l'unica forma di perdono mai conosciuta da questa tradizione sia stata quella transazionale15. L'approccio differente dei due testi, comunque, non vieta di ricercare tra le alternative rispettivamente offerte significativi punti di tangenza, e la loro ricerca di fondo, per quanto prevalentemente religiosa16, si inserisce nel dibattito sorto all'ombra delle dittature 13. Nella Bibbia Margalit individua quattro immagini differenti del perdono: prendere un peso 14. su di sé, occultamento, cancellazione, e annullamento di un debito.

15. Si tratta del perdono transazionale, del perdono incondizionato e dell'amore e generosità incondizionati. Anche se, come per Margalit, non tutte le immagini sono fondamentali per i nostri scopi, le ritroveremo a più riprese nel proseguo dell'indagine.

16. Con “forma transazionale” Nussbaum si riferisce alla definizione più classica del perdono, che prevede una struttura condizionale dello stesso: affinché il perdono gli venga concesso, l'attore responsabile deve chiederlo esplicitamente alla vittima, dopo aver condannato le proprie azioni e aver espresso un sincero rimorso alla persona offesa. Anche Ricoeur, ne La memoria, la storia, l'oblio, p. 663, riconosce con Derrida che «il comandamento di perdonare ci è trasmesso da una cultura determinata, la cui ampiezza non riesce a dissimulare la limitazione. Come nota Derrida, il linguaggio, che si tenta di aggiustare all'imperativo, appartiene "a un'eredità religiosa, diciamo abramica, per raccogliervi l'ebraismo, i cristianesimi e l'islam"».

del XX secolo, e che si interrogava sulle strategie morali e politiche da adottare in merito al ricordo del male: processo e punizione? Perdono e/o oblio?

Nei Vangeli, afferma Nussbaum, il tipo di perdono condizionale è quello prominente. Dice infatti Luca 17, 3-4: «se tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai». Lo stesso sacramento del battesimo, condizione preliminare della salvezza promessa (la morte di Cristo sulla croce, infatti, lo prevede come passaggio necessario17), offre un perdono dei peccati concepito come assolutamente transazionale: «i peccati del bambino», osserva Nussbaum, «sono rimessi condizionalmente a patto della contrizione e della rinuncia dei gentitori e/o del padrino e della madrina»18.

Il sacramento del battesimo evoca l'idea del peccato come macchia di sangue, e della purificazione/espiazione come eliminazione della macchia: un'immagine potente che ricorre spesso nella Bibbia, e che è espressa nel versetto «Fossero pure i vostri peccati come scarlatto, saran bianchi come neve» (Isaia, 1,18). Ma quale interpretazione va data, si chiede Margalit, alla metafora del lavarsi? “Smacchiarci” di un peccato significa cancellarlo (e quindi dimenticarlo completamente) o occultarlo (che equivarrebbe ad ignorarlo senza però dimenticarlo)?

La lettura del peccato come cancellazione è suggerita anche dal verbo greco per “perdono”, aphinmai, utilizzato nel Nuovo Testamento (Matteo, 18,21) («quante volte peccherà contro di me il mio fratello e gli dovrò perdonare?»): aphinmai è una parola che significa “cancellare un debito”, e rimanda ad un'altra importante immagine biblica del peccato e del perdono: il Libro divino.

17. Così sembra essere inteso da Giovanni, l'iniziatore della pratica del «battesimo di conversione per il perdono dei peccati»: questa frase, sostiene Nussbaum, Rabbia e perdono, p. 108, deve significare che non esiste battesimo senza pentimento. Anche il fatto che Giovanni non pretenda sacrifici e offerte, sembra suggerire che questo rituale di pentimento sostituisca l'espiazione ebraica.

È un oggetto che compare nel contesto del giorno del giudizio (il Dies Irae medievale), giudizio che si baserà proprio su quanto suddetto libro contiene: tutto ciò che è nascosto verrà alla luce, nulla rimarrà invendicato («quidquid latet, apparebit: nil inultum remanebit»). Anche se talvolta sembra trattarsi di un libro contenente una lista nomi, dalla quale vengono cancellati quelli di coloro condannati a morire per via dei loro peccati («Siano cancellati dal libro della vita, con i giusti non siano iscritti») (Salmi 69,29), la concezione più diffusa lo vede come un libro dei conti, in cui le azioni sono riportate sia nella colonna dei crediti che in quella dei debiti, e i peccati in quest'ultima («Ecco, ciò m'è scritto davanti, non avrò posa se non avrò ripagato le colpe vostre») (Isaia 65,6): la preghiera di perdono sembrerebbe quindi consistere in una preghiera per la dimenticanza, nel senso della cancellazione del debito. A questo proposito, rammentiamo ciò che scriveva Ricoeur riguardo al perdono facile, e, specificamente, riguardo ad una delle sue forme, quella del perdono di indulgenza:

Più sottile è il perdono di indulgenza, dalla cui parte sta un ramo della tradizione teologica, secondo la quale il perdono significa assoluzione: il Padre Nostro non parla forse di «rimettere i debiti»? È dunque in causa il trattamento in profondità del concetto di debito-colpa. A un primo grado, la remissione del debito suggerisce l'idea di un bilancio di debito e credito, come se sulla tabella degli acquisti la colonna del debito venisse magicamente cancellata. Non solo non siamo usciti dalla logica delle retribuzione (…), ma questa cancellazione, che abbiamo appena definito magica, va nella stessa direzione dell'oblio peggiore, e cioè di quella forma di oblio profondo (…) che consiste nell'usura delle impronte, nella distruzione da parte del tempo stesso – dice Aristotele – delle iscrizioni antiche19.

Ma, dopo la Shoah, altre domande urgono conseguentemente in tema di soggetti ed oggetti del perdono, in un dedalo intellettuale che reclama di essere dipanato ai fini di una memoria che possa dirsi efficace e attualizzata. È possibile darsi ragione di una morte ripetitiva, scientifica, impersonale e tuttavia personalissima, originalissima per ciascuna delle vittime? E, ammesso che pur di fronte a tali atrocità il perdono sia cosa possibile? Chi perdona a chi, e a quali condizioni? Si avverte la necessità di un nuovo rapporto col perdono, più ampio, meno 19. Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, Il Mulino, Bologna 2004, p. 112.

normativo e normalizzante, e che scongiuri l'insidia dell'oblio.

Una critica al perdono transazionale e asservito alla «logica della retribuzione», ad esempio, viene mossa da Derrida, che in Perdonare, proponendo la scissione tra perdono domandato e perdono accordato, riferisce il perdono condizionale ad un' «economia corrente del perdono che domina la semantica religiosa, giuridica, addirittura politica e psicologica del perdono, di un perdono mantenuto nei limiti umani o antropoteologici del pentimento, della confessione, dell'espiazione, della riconciliazione o della redenzione»20, e che rappresenta la logica dominante, esemplarmente condensata da queste parole:

Il perdono! Ma essi ci hanno mai domandato perdono? Soltanto la disperazione e la solitudine del colpevole darebbero un senso e una ragion d'essere al perdono21.

Il popolo tedesco non ha mai domandato perdono, e come si può pensare di perdonare chi non ha mai domandato perdono?, è quanto si chiede Jankélévitch. La questione presuppone che, se l'aggressore avesse chiesto perdono, perdonargli sarebbe stata una prospettiva accettabile. Ma tale presupposizione si oppone frontalmente ad un altro modello di perdono, non meno diffuso del primo: per quanto, infatti, il perdono transazionale sia stato profondamente incorporato nella pratiche della chiesa (il sacramento della confessione) e in tanti aspetti della relazioni personali e politiche (è indicativo il moltiplicarsi delle amnistie, delle scene di pentimento, di confessione e di perdono che ha caratterizzato la scena politica a partire dall'ultimo dopoguerra), già a partire dai Vangeli è affiancato da un modello diverso. Questo intrattiene con quello condizionale un rapporto difficile da definire, poiché «l'incondizionale e il condizionale sono, certo, assolutamente eterogenei, per sempre, da entrambe le parti di un limite, ma sono anche indissociabili. C'è nel movimento, nella mozione del perdono incondizionale, un'esigenza interna di divenire-effettivo, manifesto, determinato, e, nel

20. Jacques Derrida, Perdonare, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 44. 21. Jankélévitch, Perdonare?, Giuntina Editore, Firenze 1987, p. 40.

determinarsi, di piegarsi alla condizionalità»22.

L'incondizionale di cui parla Derrida corrisponde a ciò che Nussbaum definisce “perdono incondizionato” (“amore e generosità incondizionati”, se preso nella sua espressione più pura) e che spesso prevede una rivalutazione dell'idea di dono, posta alla base di quella di perdono. Un'operazione di questo tipo richiede che la colpa, dal regime unilaterale dell'accusa e della punizione, venga trasportata in quello dello “scambio”. Ma tale operazione non è priva di difficoltà.

L'affinità semantica tra i due concetti, comunque, è indubbia:

Questo legame verbale tra il dono e il perdono, che si mostra nelle lingue latine, ma non per esempio (…) in greco, questo legame è presente anche in inglese e in tedesco. In inglese: to forgive, forgiveness, asking for forgiveness, e vengono opposti to give e to get (…) nell'espressione to forgive versus to forget, perdonare non è dimenticare, altro problema senza fondo. In tedesco, nonostante verzeihen sia più comune – Verzeihung, jenen um Verzeihung bitten, domandare perdono a qualcuno (…) –, nonostante si utilizzi spesso Entschuldigung (…), vi è tuttavia in tedesco una famiglia lessicale che conserva questo legame tra il dono e il perdono; vergeben vuol dire “perdonare”, “ich bitte um Vergebung”, “io domando perdono” (…)23

«L'etimologia e la semantica di numerose lingue», conferma Ricoeur, «incoraggia questo accostamento: don-pardon, gift-forgiving, dono-perdono, Geben-Vergeben...»24; ma, prosegue, «(...) anche l'idea di dono ha le sue trappole». Il nodo critico sta innanzi tutto nel sapere in che misura il dono corrisponda allo scambio: sembra infatti che la stessa idea di dono come qualcosa che è elargito gratuitamente non si possa coniugare con l'aspettativa normativa di essere ricambiati con un altro dono. Perché, se così fosse, gli scambi di regali sarebbero difficilmente distinguibili dalle transazioni economiche.

È una questione che ha attirato l'attenzione di antropologi a partire dal libro di Marcel Mauss25, e sulla quale non intendiamo soffermarci troppo. Ci limitiamo a ricordare quanto 22. Derrida, Perdonare, pp. 91-92.

23. Derrida, Perdonare, pp. 25-26.

24. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 680.

25. È suo il libro classico sul dono: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002.

osserva Ricoeur:

(…) il testo classico di Marcel Mauss sul dono, forma arcaica dello scambio, ci deve mettere in allerta. Mauss non contrappone il dono

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