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Personalità giuridica e managerialismo: due strumenti per esigenze convergent

L’aver trovato, nell’interpretazione letterale e sistematica delle norme riguardanti le competenze dell’assemblea e degli amministratori, indizi

sufficientemente concordanti ed espliciti circa il carattere imperativo del sistema legale di distribuzione del potere gestorio, come sopra descritto, non esime, comunque, dall’individuare quell’interesse generale che può giustificare e legittimare la conseguente limitazione dell’autonomia negoziale.

E’ il caso, perciò, di esaminare i tradizionali argomenti a sostegno della legittimità del potere dei soci, da un lato, e degli amministratori, dall’altro, cominciando da questi ultimi.

Come è stato efficacemente notato91, il passaggio dall’idea ottocentesca

della “sovranità” assembleare a quella di una necessaria e crescente autonomia dell’organo amministrativo dall’assemblea si sviluppa in perfetta aderenza con la crescita del capitalismo di tipo industriale del XX secolo, con l’emergere, dunque, della grande impresa azionaria.

Sicché, le idee92 che il pensiero giuridico e socio-economico elabora e di cui

si avvale nella formazione e nell’esegesi delle regole, più che essere causa di questo passaggio, sembrano rappresentare la formulazione in termini teorico- sistematici di esigenze connaturate ad un certo sviluppo dell’impresa93. Due, in

particolare, sono i fondamenti teorici da cui il processo di “indipendentizzazione” degli amministratori cerca di trarre principalmente la sua ragion d’essere: da un lato, l’istituto della personalità giuridica, nella sua applicazione ai rapporti privatistici; dall’altro, le riflessioni delle teorie managerialiste, nelle loro diverse formulazioni. Tali fondamenti, seppur a prima vista sembrano prendere le mosse

91 CALANDRA BUONAURA, op. cit., 5 ss.

92 Eccessivo mi sembra definirle “ideologie”, se in una accezione negativa viene utilizzato il

termine, in quanto idee destituite di razionalità e dotate di un buon grado di “apriorismo” (vedi ABBADESSA, op. cit., 5) - eccezion fatta, ovviamente, per alcune manifestazioni di pensiero di stampo istituzionalistico, in parte piegate, queste sì, nelle loro formulazioni più estreme, alle ragioni del potere politico dei regimi totalitari europei nella prima metà del secolo scorso. Vedi, ad es., RATHENAU, La realtà della società per azioni, in Riv. soc., 1969, I.

93 Che l’industrializzazione spinga all’adozione del modello della grande impresa senza possibilità

di resistenza e che tale fenomeno sia inarrestabile non è detto; certamente questo è stato ciò che è avvenuto in tutte le economie capitalistiche, europee e non, ovviamente con le dovute proporzioni fra le une e le altre: il modello della public company, ad esempio, non ha avuto la stessa diffusione ovunque.

da dati completamente diversi – il primo, dal dato formale, positivo, della finzione giuridica creata dal diritto; l’altro, dal dato sociale, empirico del modello organizzativo delle attività imprenditoriali – si intrecciano e sovrappongono, a misura della comunanza di esigenze che rappresentano.

L’idea della personalità giuridica delle società per azioni, che abbiamo visto essere connaturata, in un primo periodo, alla stessa origine pubblicistica delle Compagnie secentesche, nell’ambito della “privatizzazione” dell’istituto della società anonima ad opera delle codificazioni napoleoniche assume tutta un’altra funzione: realizzare una perfetta segregazione patrimoniale tra le obbligazioni contratte per l’attività sociale (causa societatis) e i beni ad essa destinati, e le obbligazioni e i beni personali dei soci, estranei a tale attività94. A tal fine, il

diritto utilizza la fictio dell’alterità delle soggettività giuridiche per attribuire a ciascuna patrimoni distinti, ma senza alcuna caratterizzazione pubblicistica dello scopo dell’ente – che, semmai è presente nella politica “interventista” del legislatore, disposto a derogare al principio cardine del diritto delle obbligazioni, la responsabilità personale illimitata, per favorire lo sviluppo delle attività economiche. In tal modo, la limitazione della responsabilità dei soci si presenta come la conseguenza inevitabile dell’esistenza di un altro soggetto giuridico, titolare delle obbligazioni sociali.

La funzionalizzazione del concetto di personalità giuridica alla realizzazione di una segregazione patrimoniale perfetta, come sopra descritta, non è immediata e automatica.

All’inizio, la creazione di un nuovo soggetto di diritto, pure se impersonale, rende solo possibile individuare in capo allo stesso un distinto interesse al quale

94 Non è un caso che anche un recente manuale dedicato all’individuazione dei caratteri tipologici

della società per azioni, non in una prospettiva nazionale, ma globale, descriva l’essenza dell’istituto della personalità giuridica quale tecnica di segregazione patrimoniale perfetta: v. HANSMANN, KRAAKMAN, HERTIG, HOPT, KANDA, ROCK, The Anatomy of Corporate Law. A

riferire e parametrare l’attività degli organi interni95. Già questa nuova

configurazione che la “personificazione” del gruppo impone sull’iniziativa privata dei soci sembrerebbe, perciò, giustificare la necessità di un centro decisionale, di un organo distinto dai singoli partecipanti, che possa meglio realizzare tale interesse. Ma sarebbe errato ritenerla sufficiente, visto che, quand’anche ammessa, l’esistenza di un interesse altro da quello dei soci si pone semplicemente come limite all’attività decisionale sempre di questi ultimi, sindacabile in sede giurisdizionale (è ciò che fa l’art. 2373 c.c.)96.

E’ solo in un secondo momento, in particolare con le codificazioni del XIX e XX secolo, che l’istituto della personalità giuridica realizza gli effetti della limitazione di responsabilità dei soci. Quest’ultima, però, ha seguito una storia sua propria, sempre connessa all’esercizio della gestione, ed è stata intesa, perciò, come naturale garanzia a favore di chi apporta capitali all’affare intrapreso senza partecipare alla sua gestione. All’attribuzione della personalità giuridica alle società, finalizzata all’istituzionalizzazione della limitazione di responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali, fa da contrappeso, infatti, l’organizzazione dell’attività sociale secondo un modello corporativo, elaborato soprattutto dall’analisi gierkiana: organizzazione per uffici, cioè per competenze; regolamentazione del reclutamento per i diversi uffici; adozione del metodo collegiale per gli uffici pluripersonali, individuazione di un ufficio dotato di capacità decisionale e dichiarativa che è il frutto di un razionale bilanciamento, tra

95 E’ la teoria della Person in sich, ovverosia dell’attribuzione di caratteri tanto personalistici

all’ente giuridico da arrivare ad attribuirgli anche una volontà ed un interesse autonomi, che non si sovrappongono, però, a quello dei soci: sono solo differenti, e funzionano da limite all’attività di questi ultimi, limite razionale e funzionale alla valutazione della convenienza delle deliberazioni assembleari, nell’ottica della conservazione e della prosecuzione dell’attività decisa dai soci: mette bene in evidenza questi aspetti, JAEGER, L’interesse sociale, 1964, 33-34.

96 Resta, comunque, il fatto che anche tale teoria, al pari delle altre come vedremo, configura la

necessità, di fronte alla nuova realtà d’impresa, di valorizzare la struttura organizzativa rispetto al contratto, quale momento genetico dell’attività: la struttura organizzativa di uomini e capitali si impone sulla volontà iniziale di alcuni, e il rilievo che si dà alla persona giuridica altro non è se non l’esigenza di sottolineare tale prevalenza.

le istanze di partecipazione al controllo e l’esigenza di un governo efficiente, realizzato tramite l’organizzazione97.

Ora, se la rigida separazione per uffici della struttura interna della società giustifica certamente la necessità almeno di un ufficio di rappresentanza, null’altro se non l’efficienza giustificherebbe, invece, la necessità anche di un ufficio decisionale distinto e autonomo dall’assemblea dei soci. L’attribuzione della personalità giuridica e il riferimento alle regole dell’organizzazione corporativa, perciò, non sarebbero determinanti per fondare l’esclusività del potere decisionale in capo agli amministratori. Lo diventano, se poniamo mente al fatto che la separazione patrimoniale perfetta così ottenuta realizza, in verità, un trasferimento di parte del rischio dell’attività imprenditoriale sui creditori. Proprio al fine di evitare che da tale trasferimento i soci possano estrapolare indebiti benefici, è l’ordinamento, e non la razionalità dello schema corporativo, a imporre in capo agli amministratori, in piena antitesi con le regole del mandato, forme di responsabilità verso i creditori sociali e i terzi98.

Appare, dunque, evidente come sia l’argomento della responsabilità esterna, più che il riconoscimento della personalità giuridica, a costituire il solido fondamento dell’indipendenza decisionale degli amministratori99.

97 Mette bene in evidenza l’essenza razionale del modello corporativo, e la sua imprescindibilità

conseguente alla scissione tra pluripersonalità e plurilateralità dei rapporti sociali, organizzati sul capitale e sull’azione, SPADA, Dalla nozione al tipo, op. cit., 95 ss., ora in SPADA-SCIUTO, op. cit., spec. 49 ss.

98 In Italia, infatti, la regola della responsabilità è introdotta già nel codice di commercio del 1865

(art. 139), indipendentemente dal riconoscimento della personalità giuridica, come anche nel Codice di commercio del 1882 (art. 147, comma 5). E’ solo con il codice civile del 1942 che il riconoscimento della personalità giuridica viene effettuato solo con riferimento alle società di capitali, collegandolo all’elemento dell’organizzazione corporativa e, quindi, della responsabilità limitata dei soci. Vedi, di recente, l’analisi dei percorsi storici che hanno condotto ad intrecciare i due concetti in GAMBINO, Limitazione di responsabilità, personalità giuridica e gestione societaria, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, op. cit., 44 ss.

99 WEIGMANN, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Giuffré, Milano, 1974, 71 ss.;

ma anche GALGANO, La società per azioni, op. cit., 200-203 e G. ROSSI, op. cit., 125 ss., il quale, affermata la assoluta separazione del controllo sulla società, affidato ai soci, dal controllo sull’impresa, di cui solo gli amministratori possono essere titolari, ne individua la ragione fondamentale nella responsabilità di questi ultimi per la direzione assunta, responsabilità che li rende, al contrario dei soci, soggetti al “rischio di amministrazione”, soprattutto sulla base degli

D’altra parte, l’esigenza di individuare profili di accountability verso l’esterno della società, in capo ai suoi amministratori, è comune anche alle tesi managerialiste. La concentrazione sul ceto manageriale delle aspettative di realizzazione di progresso economico o di tutela degli interessi più ampi della società in senso lato, in una forma più o meno “mitizzata”, non rappresenta solo il naturale sviluppo di teorie centrate sull’elogio del potere e dell’autorità o del “carisma” dei grandi capitani d’industria, in voga nei primi anni del XX secolo; e neanche solo la conseguenza inevitabile dell’evoluzione tecnologica e della diffusione di sistemi produttivi di tipo taylor-fordista, che imponevano una rigida organizzazione del lavoro e il reclutamento di personale competente ad ogni livello della filiera.

Il managerialismo100 è qualcosa di più: nel fascino che suscita l’idea che i

migliori “tecnocrati” dell’industria e del commercio lavorino per la realizzazione di un interesse che trascende loro stessi e la loro singola impresa o i loro azionisti si nasconde innanzitutto la necessità di fondare una legittimazione plausibile dell’enorme potere associato alla gestione di una grande impresa, in un momento

artt. 2394 e 2395 c.c. Va, d’altra parte, precisato che la regola della responsabilità non costituisce un prius logico rispetto alla competenza decisionale, come potrebbe emergere dal ragionamento seguito nel testo: non lo è, nel senso che ovviamente anche la regola della responsabilità deriva da una scelta del legislatore, non è un dato “ontologico” dell’istituto della società per azioni al quale si fa conseguire l’assetto delle competenze decisionali. Tuttavia, la prospettiva interpretativa adottata nel presente lavoro tende ad affermare come sia la ricerca di una tendenziale corrispondenza tra potere decisionale e responsabilità per l’esercizio di questo potere a motivare le scelte del legislatore, non solo di quello italiano, ma anche in altri ordinamenti (vedi quanto rilevato supra nota 64). Il fatto che la ricerca di tale corrispondenza tra potere e rischio finisca con l’incidere sulla sfera dei poteri e delle responsabilità degli amministratori, e non dei soci, è da addebitare principalmente alla ritrosia della dottrina, della giurisprudenza e della legge, a consentire forme di responsabilità anche in capo ai soci: vedi, però, ora le conclusioni raggiunte da GUERRERA, La responsabilità “deliberativa” nelle società di capitali, Giappichelli, Torino, 2004,

passim e le indicazioni in tal senso che possono ricavarsi anche dalle nuove norme in tema tutela

risarcitoria per invalidità delle delibere assembleari (art. 2377, comma 4, c.c.). A quanto da ultimo sottolineato va contrapposto, infine, che la ricerca di tale corrispondenza tra potere e rischio, come vedremo meglio nel prosieguo, tende a spiegare solo una parte del fenomeno della concentrazione delle competenze gestorie in capo agli amministratori, al pari di come può spiegarla l’opposta regola vigente ora nelle s.r.l. ex art. 2476, comma 7; mentre, la ragione specifica dell’adozione di regole opposte per i due tipi societari va ricercata nello specifico grado di razionalità delle scelte gestorie che può conseguire dall’applicazione delle due regole differenti. Vedi infra par. 6.1.

in cui, peraltro, viene messa in discussione la capacità e l’idoneità degli stessi soci ad ingerirsi nella gestione, a causa principalmente della diffusione dell’azionariato. Nelle preoccupazioni suscitate dal fenomeno della separazione della proprietà dal controllo, efficacemente descritto da Berle e Means, non c’è tanto il problema della tutela degli investimenti di capitale, quanto piuttosto la necessità di trovare una nuova fonte di legittimazione del potere degli amministratori e di quanti dirigono la società, ulteriore rispetto all’investitura da parte dei soci101, i quali non possono più essere considerati i “proprietari”

dell’impresa. Gli Autori prima citati la trovano nella legge, nei doveri che essa impone sugli amministratori per la conduzione dell’attività sociale, nella prospettiva di tutelare gli interessi dell’intera collettività tramite l’impresa. Altri teorici la trovano nella “mitizzazione” delle competenze e delle capacità dei dirigenti d’industria, che aumentano la prosperità della collettività aumentando quella della propria impresa. In ogni caso, la legittimità del potere manageriale deriva sempre dalla configurazione di doveri e responsabilità o anche solo da forme di accountability esclusivamente reputazionali, e non giuridiche, nei confronti di categorie di soggetti diversi dai soci, ma coinvolti nell’impresa.

L’esigenza di individuare profili di responsabilità ulteriori rispetto a quelli generati dal contratto tra i soci si palesa come la conseguenza di una (forse inaspettata) prevalenza dell’aspetto funzionale del contratto sul momento genetico, dell’attività di impresa sull’accordo iniziale dei soci. Ed in effetti, le teorie appena descritte vengono solitamente definite “istituzionalistiche”, proprio perché prevale, nella raffigurazione del fenomeno societario, l’“istituzione”-impresa sul contratto. Ma, come vedremo, quell’esigenza di

101 Il problema di un “vuoto dottrinale”, generato dall’inapplicabilità della teoria dei diritti di

proprietà al rapporto societario, costituisce il punto nodale del diritto societario del XX secolo: vedi GRANTHAM, The Doctrinal Basis of the Rights of Company Shareholders, in 57 (1998)

responsabilizzazione verso l’esterno è comune anche alla rappresentazione dell’impresa in prospettiva c.d. “contrattualistica”102.